martedì 19 agosto 2025

IL MIRACOLO DELLA "SANTUZZA" CHE ISPIRO' L'ELOGIO DI GOETHE

Fotografie di
Federico Patellani,
opera citata nel post


In un "Fascicolo Speciale" pubblicato in occasione del Natale del 1952 e dedicato alla Sicilia, la rivista "L'Illustrazione Italiana" diede conto della fede dei siciliani verso i santi patroni: da Sant'Agata a San Corrado, da Santa Lucia a Sant'Alfio. L'argomento fu esaminato in un reportage che curiosamente - e a differenza degli altri presenti nel periodico - venne firmato con le semplici iniziali dell'autore: M.R.

Buona parte dell'articolo in questione tratta della devozione dei palermitani nei confronti di Santa Rosalia, che secondo la tradizione nel 1625 liberò Palermo dalla peste. Accompagnato dal fotoreporter Federico Patellani, l'anonimo cronista scrisse il racconto dopo avere visitato il Santuario della "Santuzza", sulle pendici di monte Pellegrino



All'interno della grotta che conserva la teca con la statua della santa e gli ex voto che ne celebrano la fama di patrona, M.R. attribuì ai palermitani l'opinione secondo cui un famoso giudizio espresso da Goethe sul monte Pellegrino sia stato il frutto di un miracolo di Rosalia:  

"Fra i pellegrini del passato venuti quassù in visita al Santuario c'è anche Goethe, il quale ha descritto il monte Pellegrino come "il più bel promontorio del mondo". Una tale asserzione, secondo i palermitani, rappresenta uno dei tanti miracoli di Santa Rosalia: dopo essersi scelto questo monte per guardare dall'alto la sua città, per avere un occhio sui marinai che si spingono al largo sui fragili legni, quelli che partono in cerca di fortuna, quelli che vanno a costruirsi lontano una nuova esistenza, ha guidato la mano di Goethe, ha scritto per mano sua che è il più bel sito dell'universo..."

venerdì 15 agosto 2025

IL VOLTO LUSITANO DEL PAESAGGIO MARINO DI CEFALU'

Fotografia
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


"Cefalù ha una dimestichezza così naturale con il mare, così modesta nelle abitudini, da ricordare certi angoli costieri lusitani. Ed è singolare - ha considerato Matteo Collura ( "Cefalù", Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta, 2012 ) - che si possa dire questo di un paese il cui aspetto rupestre sembra avere il sopravvento su tutto. 



Mare e pietra, ( ... ) volendo significare un connubio naturale che incanta gli amanti del mare e nello stesso tempo quanti, come me, prediligono il paesaggio rupestre"



giovedì 14 agosto 2025

IL "TRIONFO DELLA MORTE" PALERMITANO CHE ( FORSE ) ISPIRO' PICASSO

Fotografia
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Il "Trionfo della Morte", esposto dal 1953 all'interno di Palazzo Abatellis, a Palermo, è una delle opere d'arte più enigmatiche presenti in Sicilia; e per la mancata attribuzione - un tema di irrisolto confronto fra studiosi - e per l'ipotesi ( una suggestione sinora mai diventata documentata certezza ) che questo affresco possa avere ispirato il "Guernica" di Picasso.

Il pittore e scultore di Malaga eseguì la sua opera nel 1937, poche settimane dopo il devastante bombardamento della città basca da parte di aerei tedeschi ed italiani. Il debito di ispirazione di Picasso nei confronti del "Trionfo della Morte" sarebbe suggerito dalle analogie presenti nelle due strutture compositive e in alcuni comuni dettagli anatomici del cavallo, in particolare la testa. Su come Picasso abbia fatto dell'affresco palermitano un modello di riferimento le ipotesi offrono più variabili. La prima, indica la possibilità che l'artista spagnolo - che nel 1917 raggiunse per la prima volta l'Italia, visitando Roma, Firenze, Napoli e Pompei - abbia conosciuto il "Trionfo della Morte" palermitano attraverso una fotografia della collezione Alinari datata 1910



In un'intervista concessa al "Corriere della Sera" nel gennaio del 1998, Jean Clair, all'epoca direttore del Museo Picasso di Parigi, non escluse l'ipotesi - in verità, tiepidamente - che durante quel viaggio l'autore di "Guernica" possa avere raggiunto anche Palermo. Qui Picasso potrebbe avere avuto l'occasione di osservare l'affresco quattrocentesco ancora conservato all'interno di Palazzo Sclafani, prima del suo distacco e di un temporaneo trasferimento all'interno della Sala delle Lapidi di Palazzo Pretorio. In quell'intervista, Clair suggerì l'ipotesi che Picasso conobbe il "Trionfo della Morte" tramite una riproduzione pubblicata da un libro o da una rivista; ma infine, scelse quella secondo cui la fonte di ispirazione di "Guernica" sia stato un altro "Trionfo della Morte" attribuito al fiammingo Pieter Bruegel il Vecchio e conservato al Museo del Prado di Madrid:

"Picasso vide quel dipinto proprio durante la guerra civile spagnola. Anche se viveva a Parigi, nel 1936 venne nominato, dai repubblicani, direttore onorario del Prado. Non si può però escludere che lo stesso Bruegel abbia eseguito il suo "Trionfo" dopo un viaggio compiuto in Italia fra il 1552 ed il 1555, nel corso del quale sbarcò anche a Palermo. La sua opera è del 1562-1563. E' possibile, quindi, che il fiammingo abbia visto l'opera siciliana e che, a sua volta, Picasso, guardando quella del Prado e avendola "digerita", l'abbia fatta sua. Si potrebbe pensare che Picasso lavorò a "Guernica" avendo in mente il "Trionfo" palermitano, filtrato attraverso Bruegel il Vecchio. Le vie dell'arte sono infinite..."



Infine, ad accrescere la suggestione dell'ipotesi che accosta il "Trionfo della Morte" palermitano al nome di Picasso, c'è da ricordare una testimonianza riferita anni fa da Fabio Carapezza. Il figlio adottivo di Renato Guttuso ha affermato che il pittore di Bagheria - che ebbe modo di frequentare l'artista spagnolo - chiese proprio a Picasso se il "Guernica" fosse stato ispirato dall'affresco oggi conservato a Palazzo Abatellis. Picasso avrebbe confermato la circostanza. Non è però chiaro se abbia precisato se la scoperta sia avvenuta al cospetto dell'opera o grazie alla visione di una semplice fotografia. Chissà se un giorno un archivio o una fonte documentaria potranno sciogliere questo che è solo uno dei tanti interrogativi che rendono l'opera palermitana del secolo XV un affascinante affresco di misteri. 

 

sabato 9 agosto 2025

GLI AGRICOLTORI DELLE SALINE DI TRAPANI

Fotografie
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


"Si scorge dall'alto di Erice, ai piedi del monte, lunga nella bassa penisola falcata che si stende sul mare, la fragile Trapani. Sembra stretta, quella città, da una parte e dall'altra, da grandi lastre di vetro, risplendenti nel sole, che sono i bassi bacini, le squadrate saline, punteggiate dai coni tronchi dei mulini a a vento sopra gli argini..."

Così Vincenzo Consolo descrisse il paesaggio della saline di Trapani nel saggio "Sicilia teatro del mondo", edito nel 1990 a Torino da Nuova Eri Edizioni Rai. Si racconta che siano stati i Fenici - popolo di mercanti in grado di creare decine di empori commerciali nel Mediterraneo dell'antichità - ad avviare la produzione trapanese del sale: un prodotto allora essenziale per la conservazione degli alimenti di origine animale.

L'attività prosegue ancor oggi, con il supporto di una meccanizzazione che non potrà mai cancellare del tutto le figure dei "salinari": agricoltori del mare muniti di scarponi di gomma, vanghe, pale e carriole.

Le vasche delle saline di Trapani, insieme a quelle di Marsala, superano i 1.000 ettari: una superficie sopravvissuta alla speculazione edilizia operata nel territorio nel secondo dopoguerra e che quest'anno dovrebbero produrre 140.000 tonnellate di sale, l'unico in Italia ad avere ricevuto il riconoscimento IGP.



Il prodotto - compreso quello pregiato ricavato dalla crosta esposta direttamente al sole, denominato "fiore di sale" - verrà esportato anche in Giappone, Canada e, con l'incognita rappresentata dai dazi, negli Stati Uniti

Quest'anno la raccolta del prodotto, che a Trapani vanta ottimali quantità di magnesio e sodio, è stata avviata con qualche settimana di anticipo. La si ripeterà a settembre, continuando un'attività di produzione e raccolta che negli ultimi sessant'anni non si è mai fermata. 



L'ultima volta, accadde nell'autunno del 1965, quando una disastrosa alluvione sommerse i cumuli di sale ed i macchinari, ricoprendo le vasche di melma: uno scenario oggi inimmaginabile al cospetto delle luccicanti "grandi lastre di vetro" descritte 25 anni dopo quella devastazione da Vincenzo Consolo.  

lunedì 28 luglio 2025

LA BREVE EPOPEA DEL CORALLO AL LARGO DI SCIACCA

Barca di Sciacca.
Fotografia tratta da opera citata nel post


"Fra il 1875 ed il 1880 - si legge nell'opera "La Sicilia. Quindici anni di autonomia regionale", edita a Roma nel luglio del 1960 furono pescate 6.219 tonnellate di corallo per un valore complessivo di 44 milioni di lire. Parteciparono alla pesca 4.669 barche tra quelle di Sciacca e di altri compartimenti e 46.000 pescatori..."

Così V. Porrello Cassar descrisse la corsa al corallo che per cinque anni, sul finire dell'Ottocento, fra i mesi di febbraio ed ottobre, alimentò le attività economiche degli armatori di Sciacca e di altre flotte pescherecce siciliane e d'oltre Stretto ( Porto Empedocle, Trapani, Mazara del Vallo, Licata, Termini Imerese, Torre del Greco ed Alghero ).

Sembra che la scoperta casuale del primo e più esteso banco corallifero di Sciacca - nel maggio del 1875, 12 miglia al largo di Capo San Marco, su un fondale profondo fra i 148 ed i 200 metri - sia stata opera di tale Alberto Maniscalco.  In seguito, ricerche mirate portarono alla individuazione di altri due giacimenti - nell'agosto del 1878 e nel gennaio del 1880 - rispettivamente a 27 e 45 miglia da Sciacca

Si trattava di una varietà di corallo nero rimasto in profondità per lungo tempo, durante il quale il "Corallium rubrum"  assorbe maggiori quantità di sostanze organiche, la cui rimozione necessità di lavaggi con sostanze ossidanti.

"Parve a molti - ha scritto Salvatore Costanza in "Coralli talismani sacri e profani", Catalogo della mostra "L'arte del corallo in Sicilia" svoltasi a Trapani al Museo Regionale "Pepoli" nel 1986 ( Novecento, Palermo, 1986 ) - di potere impiegare nuovi capitali in un'impresa che prometteva immensi lucri; e di spingersi fino ad organizzare alcune compagnie armatoriali... Ora il pescatore non lavorava più per proprio conto, ma alle dipendenze degli armatori, che lo ingaggiavano per la campagna di pesca a salario fisso ( da 127 a 150 lire per l'intera campagna, e, se a giornata, con una lira e 70 centesimi, senza altro compenso in natura )..."

La questione dei compensi sfociò presto nel malcontento di molti pescatori trapanesi assoldati per la racconta del corallo. Nel 1880 minacciarono lo sciopero; ma ben altre circostanze incombevano sulle aspettative di trarre ingenti guadagni dall'estrazione degli arboscelli al largo della costa di Sciacca



"Ben presto - ha scritto ancora Costanza - si constatò la scarsa qualità del corallo pescato in quei banchi, che non era neppure compensato dalla sua eccezionale copiosità. Anzi, fu proprio l'abbondanza del grezzo immesso sul mercato a farne precipitare il prezzo, tanto che l'armamento delle barche coralline riuscì alla fine per gli armatori antieconomico..."

Nel 1887, i pescatori e gli armatori di corallo di Livorno sollecitarono provvedimenti per limitare la pesca del corallo a Sciacca; e nel 1891, quelli di Torre del Greco, forse spinti da alcuni speculatori finanziari di Genova, convinsero il ministero dell'Agricoltura e del Commercio a vietare del tutto l'attività di estrazione dai tre banchi siciliani. Il provvedimento venne revocato nel gennaio del 1892, quando la grande corsa al corallo di Sciacca - esauritasi  in meno di due decenni - poteva di fatto considerarsi conclusa.

sabato 19 luglio 2025

UN LEGAME STORICO E GENETICO FRA GLI ULIVI SICILIANI E QUELLI LIBANESI

Ulivi a Castelluzzo, nel trapanese.
Fotografie
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


La Sicilia è al centro di quel Mediterraneo che, come ha ricordato Giuseppe Barbera in "Sicilia. Alberi e paesaggi" ( Libri della Natura, 2024, Milano ), "secondo gli studiosi, è il mare degli uliveti".

Nell'Isola, scrive ancora Barbera, "la pianta è presto coltivata ( quella selvatica era da sempre presente tra i cespugli della macchia ) come testimoniano non tanto le pagine degli scrittori, i disegni sulle anfore, i resti archeologici, i documenti di archivio, ma loro, proprio loro, gli alberi..."



L'origine di una delle varietà di olive diffuse nella Sicilia della provincia di Trapani - la Nocellara del Belìce - testimonia la comune storia di questa coltura, la cui diffusione si deve alle migrazioni ed ai commerci che i diversi popoli, per millenni, hanno portato avanti nel Mediterraneo.



Studi genetici hanno infatti stabilito un legame fra la cultivar Nocellara del Belice e la Baladi, originaria del Libano ed ancor oggi molto diffusa nel Paese da cui i Fenici partirono fra il IX e l'VIII secolo avanti Cristo per colonizzare le coste della Sicilia occidentale.  

lunedì 14 luglio 2025

LA SICILIA DESERTICA DI LUIGI GIANOLI, IL GIORNALISTA CON LA VENA DI SCRITTORE

Il latifondo siciliano.
La fotografia è tratta dall'opera
di Ferdinando Milone
"Sicilia. La natura e l'uomo",
edita nel 1960 a Firenze da Bollati-Boringhieri


Esistono giornalisti capaci di esprimere un sicuro talento letterario, oltre le imprecisioni, i vizi di forma ed i limiti di documentazione che accompagnano il mestiere quotidiano di molti cronisti. Uno di questi giornalisti di talento del Novecento italiano è stato il brianzolo Luigi Gianoli, che nel secondo dopo guerra fu un'apprezzata firma della "Gazzetta dello Sport": "l'unico là dentro - ha scritto nel 2024 Franco Bonera in "Pezzi di colore", Ultra Editore, Roma - a potersi fregiare a buon diritto del titolo di scrittore". 

Ai colleghi più giovani, spiegava che "divertirsi mentre si scrive è il vero segreto per scrivere bene". Fu proprio l'applicazione di questo insegnamento che negli anni Ottanta gli valse il riconoscimento di un "Premio Sain Vincent" e di "Una penna per lo sport".

Gianoli - che fra i suoi estimatori ebbe Gianni Brera, Dino Buzzati, Mario Soldati e Gianni Mura - scrisse soprattutto di cavalli e di ippica: una vocazione giornalistica e saggistica legata alla qualifica di ufficiale del Reggimento di Cavalleria Savoia rivestita durante la campagna di Russia. Per la "Gazzetta dello Sport" pubblicò a suo nome anche articoli dedicati alla Targa Florio. Fu probabilmente in quelle occasioni che Gianoli ebbe modo di scoprire la Sicilia: Messina, Ganzirri, Aci Trezza, l'Etna, Agrigento, Cefalù Palermo, così come è testimoniato da un reportage pubblicato nel settembre del 1965 dalla rivista "Sicilia", edita dall'assessorato regionale al Turismo.



In quelle pagine, il giornalista monzese così descrisse l'Isola delle province più interne, riarsa dal sole e con un paesaggio che gli richiamò l'aspetto dei deserti:  

"E il paesaggio dell'interno? Onde d'un mare rappreso, quasi del colore della sabbia, senza un albero, sovente senza una casa, dove s'ergono improvvisi picchi montani, come immense conchiglie abbandonate dal diluvio. E si continua a camminare, ad andare, forse perché presentiamo che, una volta fermi in un luogo, non avremmo più la forza di ripartire..." 

 

GIOVANNI ARTIERI E L'IMPRESSIONE DEL TERMINE DI TRAPANI

Paesaggio di Trapani.
Fotografia
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Giornalista e saggista napoletano, autore di migliaia di articoli e reportage per vari periodici ( "Il Mattino", "La Gazzetta del Mezzogiorno", "Il Tempo", "La Stampa" ), nel dicembre del 1961 Giovanni Artieri riferì sulla rivista "Sicilia" edita dall'assessorato regionale al Turismo le sue impressioni sul paesaggio di Trapani, "città nitidissima e con una nobile gelosia dell'antico":

"Appiattita su una lingua di terra, Trapani si scopre improvvisa. Saline, prati, alberate, riquadri di orti; il giro dei mulini a vento pone nell'immobilità stupita il palpito delle vele. Di fronte, la meraviglia delle Egadi, attruppate e impazienti di entrare in porto...



A Trapani s'avverte, infatti, il senso del termine. Orizzonti bassi e vaporanti, arie bianche e remote, pianure a riva di mare: segno della terra disposta ad estenuarsi e scomparire..."



QUANDO USTICA IMMAGINO' L'"UNIVERSITA' DEL COLORE"

Fotografie Publifoto,
opera citata nel post


Dal 19 al 24 settembre del 1972 Ustica accolse la quarta edizione del Concorso di pittura murale "Premio Città di Ustica".  L'evento coinvolse una settantina di artisti,  fra i quali Giovanni De Simone, Salvatore Fiume, Fausto Maria Liberatore, Goffredo Godi, Santo Marino, Alfredo Avitabile, Andrea Volo, Fleur Beverly, Renzo Biasion, Giorgio Celiberti, Pippo Gambino e Gaetano Lo MantoIl Concorso, seguendo la consuetudine delle precedenti edizioni, non proclamò alcun vincitore, confermandosi un momento di incontro semi vacanziero promosso dalla Pro Loco con un contorno di eventi gastronomici e di spettacolo.  

"L'organizzazione - scrisse Ugo Alvaro Bazan sulla rivista "Sicilia" pubblicata nel gennaio del 1973 dall'assessorato regionale al Turismo ( le fotografie che corredarono il reportage sono attribuite a Publifoto ) - ha voluto che questa manifestazione si svolgesse in piena armonia ed ha raggiunto il suo scopo. Tutti, al termine del Concorso, hanno avuto un piccolo omaggio e tutti sono stati apprezzati ed applauditi, in piazza, nel corso di una cerimonia conclusiva.



In nome della "non concorrenza" i cinque giorni del Concorso hanno, in quel periodo, trasformato l'isola. Artisti giovani ed anziani hanno letteralmente fatto da padroni sull'isola. Hanno rubato ad Ustica l'intreccio dei colori del suo mare, della sua natura, dei riflessi del sole o della luna sulle onde e mai furto ha avuto il sapore di tanta innocenza, di tanto amore, anche perché quanto rapito è stato subito restituito all'isola, con precisi tocchi di pennello e con un di più: uno spicchio di spirito, di cuore, indispensabile per cantare in chiave pittorica gli stati d'animo che Ustica riesce a profondere.

Lo hanno restituito realizzando affreschi sulle mura esterne delle casette usticensi che per la quarta volta si sono arricchite di un patrimonio artistico d'indiscusso valore..."



Il reportage di Ugo Alvaro Bazan riferisce che alcuni partecipanti all'evento aderenti al Sindacato Artisti ed Artigiani Artisti Italiani proposero allora di realizzare ad Ustica una "Università del Colore", che avrebbe dovuto avere sede all'interno della Torre di Santa Maria:

"Maestri del colore, artisti di fama internazionale, ogni anno, dall'estate all'autunno, a turno, terranno seminari a giovani pittori, scultori e ceramisti invitati in tutto il mondo..."

L'ambizioso progetto non vide la luce, ma ancor oggi Ustica continua a conservare tracce di quei lontani giorni di settembre in cui le case dell'isola divennero le tavolozze di decine di pittori.



giovedì 3 luglio 2025

ANTHONY BLUNT, L'EX SPIA DI MOSCA CHE SCOPRI' IL BAROCCO SICILIANO



"Se il progetto era audace, può sembrare addirittura impertinente che lo abbia condotto a termine uno che non è italiano, non diciamo poi siciliano. La mia scusante per averlo fatto è duplice. Prima di tutto, nessun siciliano se n'è presa la briga; in secondo luogo, per un volume del genere, il fatto di essere scritto da chi, per così dire, ne è fuori e può vedere l'architettura barocca siciliana nel quadro più vasto dell'architettura dei Sei e Settecento in Europa, può costituire un vantaggio. La mia speranza è che, in tal modo, il vero carattere e l'autentica originalità di quanto è stato prodotto nell'Isola appaiano più chiari..."  

Così lo storico dell'arte inglese Anthony Blunt spiegò nella premessa del saggio "Barocco siciliano" edito nel 1968 a Londra da Weidenfeld & Nicolson la decisione di occuparsi di quella stagione architettonica in una regione posta nel cuore del Mediterraneo. Partendo da Messina, Blunt - accompagnato dal fotografo Tim Benton, autore di pregevoli scatti - esaminò le diverse espressioni del barocco siciliano, includendo nel suo tour Catania, Siracusa, Noto, Ragusa, Modica e Palermo

Nella stessa premessa al saggio, il professore inglese spiegò di avere visitato la Sicilia già nel 1965, partecipando da docente ad una "Summer School" organizzata dai "coniugi Robertson"; e ringraziò per l'aiuto "gli amici dell'Università di Palermo" - indicati nei professori Vincenzo Ziino e Benedetto Colajanni - e lo storico Denis Mack-Smith, anche lui inglese, "che mi ha cortesemente concesso di leggere in manoscritto due capitoli della sua storia della Sicilia di prossima pubblicazione"

Anthony Blunt


Infine, Anthony Blunt, consulente della casa reale inglese per le opere d'arte dal 1952 al 1972 ed autore di altri studi dedicati all'Italia - dai disegni romani e veneziani al barocco ed al rococò napoletani - rivelò di avere scritto buona parte di "Barocco siciliano" sui tavolini di piazza Duomo, a Cefalù, e di altri bar di città dell'Isola.

Proprio la matrice straniera del saggio dedicato ad uno dei più rappresentativi stili architettonici siciliani alimentò diffidenze e commenti generalmente poco positivi da parte della critica italiana. Cesare Brandi - storico dell'arte molto legato alla Sicilia - sollevò riserve su alcune valutazioni espresse da Blunt riguardo le influenze subite dagli architetti operanti fra Noto e Palermo da altri architetti europei ed italiani. Lo stesso Brandi tuttavia auspicò che la pubblicazione inglese - edita in Italia da Il Polifilo Milano - "potesse rendere più attivo il restauro e più accorta la conservazione del patrimonio barocco siciliano". Merito di Blunt fu certamente quello di raccontare la storia di quella feconda e assai varia produzione architettonica, sino ad allora poco esplorata da altri studiosi e critici d'arte.   

Nel 1979, il professore inglese che anni prima aveva scritto un saggio sul barocco siciliano sorseggiando latte di mandorla, caffè e tè sui tavolini della piazza di Cefalù assunse un ruolo inaspettato e da romanzo giallo. Fu in quell'anno che la premier inglese Margaret Thatcher svelò alla Camera dei Comuni che Anthony Blunt sino al 1963 era stato un informatore al soldo del KGB sovietico: il "quarto uomo" di un gruppo di spie britanniche in contatto con Mosca sino al 1951 e composto anche da Guy Burgess, Donald MacLean e Kim Philby



A partire dagli anni Trenta, i quattro avevano fatto parte degli "Apostoli", una società segreta nata all'interno della Università di Cambridge con simpatie comuniste. Ancora la Thatcher rese noto che nel 1964, alla vigilia del suo primo viaggio in Sicilia, il professore Blunt aveva goduto dell'immunità dopo avere confessato l'attività spionistica a favore dell'Unione Sovietica. Quel "perdono" gli permise di non perdere la qualifica di professore universitario, con la rinuncia però a buon parte dei titoli ricevuti dalla casa reale inglese.

L'autore di "Barocco siciliano" morì in solitudine, nel marzo del 1983. Aveva 75 anni. Il fratello Wilfred ne scoprì il corpo su un pavimento nel suo appartamento di Londra. Sembra che il professore stesse consultando un elenco telefonico prima di fare colazione. Un medico attribuì quella morte improvvisa ad un infarto: una ricostruzione senza apparenti ombre, se non per l'opaco passato di Anthony Blunt, ex spia di Mosca che visitò la Sicilia per descriverne i virtuosismi del suo barocco. O forse l'intento non fu solo quello?  

La fotografia di Anthony Blunt è tratta dal Corriere della Sera del 27 marzo 1983.

La fotografia del prospetto della chiesa di S.Antonio a Buscemi è di Tim Benton, opera citata nel post


mercoledì 2 luglio 2025

LO SGUARDO DI COMISSO SU CALASCIBETTA

Il paese di Calascibetta, nell'ennese.
Fotografia attribuita a Pedone
tratta dal II volume dell'opera "Sicilia"
edita nel 1961 da Sansoni e dall'Istituto Geografico de Agostini


Nel corso dei suoi numerosi viaggi estivi in Sicilia - stagione in cui "nell'ora meridiana... è come respirare il fiato uscente dalle fauci di un leone" - Giovanni Comisso si addentrò sino ad Enna, il cuore dell'Isola

Lo scrittore e saggista veneto vi arrivò con ancora il sapore in bocca di un latte di mandorla bevuto a Piazza Armerina, capace di "rinfrescare e togliere ogni stanchezza".

All'alba, svegliato dal chiarore già energico del giorno, dalla balaustra di una piazza ennese, scoprì Calascibetta, con le sue case distese ad anfiteatro ai piedi del monte Xibet. Nell'apprendere il nome di quel paese, Comisso - cultore del mondo greco - ne spiegò erroneamente l'origine, riconducendola al greco "kalos" ed all'arabo "gebel", invece che al termine "qal'ah" ( "rocca, cittadella, fortezza costruita su un'altura" ) e al nome del monte Xibet

"Nella notte fitta di stelle le luci dei paesi elevati sulla cima dei monti - si legge in "Sicilia", edito nel 1953 a Ginevra da Pierre Cailler - emergevano come fosforescenti meduse sulle acque di un mare notturno. Il grande silenzio era rotto solo dal latrare dei cani a guardia dei casolari sparsi nella valle...

Già il primo albore definiva a oriente la piramide dell'Etna e per duri sentieri della valle incominciò lo scalpiccio degli zoccoli ferrati dei muli coi contadini in groppa assonnati. Uno scalpiccio che discendeva dai casolari invisibili verso il fondo della valle per andare oltre; nella stessa ora, altri contadini in groppa di altri muli discendevano dai villaggi o dai casolari sparsi, in tutta l'isola...



Alla prima brezza dell'alba le tortore presero a tubare sommesse e subito dopo gli usignoli martellarono l'aria e già rosseggiava l'aurora, sparite le ultime stelle...

Non mi era più possibile ritornare a dormire dopo che questo sole mi aveva del tutto risvegliato nello sguardo. Uscii sulla piazza deserta e ancora mi attrasse la balaustra che la limitava verso la valle. Oramai il canto degli usignoli aveva sommerso quello delle tortore e i colori ritornavano alla terra battuti dal sole nel suo ripreso vigore.

Anche un uomo della città si era risvegliato ed era venuto ad appoggiarsi alla balaustra, vicino a me. Osservano il paese al di là della valle stretto sulla cima del piccolo monte erto e roccioso, le case grigie nelle loro pietre sembravano cristallizzazioni del monte e senza riguardare l'uomo che mi stava vicino gli chiesi quale era il nome di quel paese che gli additai.



Intesi una voce fievole rispondermi cadenzando ogni sillaba:

"Calascibetta"

Indubbiamente quel nome risultava dalla fusione di due parole, una greca: "Calos", e l'altra araba: "Gebel", per significare: "bel monte". Queste due invasioni di popoli, tra le altre, più feconde, venute attraverso il Mediterraneo a questo fiore sospeso tra il mare e il cielo avevano frammisto il loro polline in quel nome che permaneva ancora..."

domenica 29 giugno 2025

IL PENNELLO DANZANTE DI LUCE AGRIGENTINA DI LUC GAUTHIER

"La Vincenzina" e "Malerba",
opere del pittore francese Luc Gauthier,
opera citata nel post


Nell'estate del 2009 il pittore francese Luc Gauthier tornò dopo dieci anni in Sicilia dal sud della Francia per ritrarre nature morte e paesaggi marini della costa agrigentina, fra Licata e Marina di Palma di Montechiaro. Qui, a differenza dei suoi luoghi di origine - dove il caldo e la foschia estiva non gli permettevano di dipingere - trovò "una luce violenta ma limpida, nel senso che si distingue una foglia di albero a dieci chilometri di distanza...".

Ciò che colpì Luc Gauthier fu la continua brezza avvertita sotto il suo ombrellone ed il quotidiano mutare del tempo e dei paesaggi ( "I mari, i cieli e i venti cambiano continuamente, i blu sono sempre diversi..." )



In un catalogo di quelle opere ad olio dipinte nel corso di quell'estate edito nel 2010 dagli "Amici della pittura siciliana dell'Ottocento"  ( "Cet été. Opere di Luc Gauthier" ), l'artista francese avrebbe così spiegato il suo rapporto pittorico ed emozionale con la Sicilia, partendo dall'utilizzo dei colori:

"Sono tutti dei blu-verdi e, comunque, non più gli stessi blu della Francia. La mia tavolozza si è trasformata da cima a fondo. Per quindici giorni mi sono sentito completamente smarrito, perché continuavo a usare gli stessi colori di prima.

Ma lì non funzionava più niente. In Francia, tutto sommato, i colori sono abbastanza puri, mentre qui ero obbligato a sfumarli molto di più. Io, che nei miei colori non metto quasi mai il nero, ci ho messo il nero.

Ma non un nero qualsiasi, non il nero d'avorio. Mi ci sono voluti quindici giorni per trovare il nero di vite che, in realtà, non è un nero, ma un colore. Un nero bellissimo, molto caldo. Ne ho aggiunto un pò ai toni che ho a poco a poco sfumati, e ho usato dei blu che in Francia non utilizzo quasi mai e che d'altronde sono più che altro dei verde-cobalto.



Un pittore che si porta dietro dappertutto gli stessi colori non è un buon pittore. La geografia cambia profondamente il colore e la materia di un pittore.

Non si dipinge dappertutto a olio, soprattutto nel Mediterraneo. La Sicilia è un paese in cui si può ancora dipingere a olio...

Laggiu' mi sono sentito vivo perché ero un niente di fronte a un'immensità. Mi è molto piaciuta questa sensazione di fragilità. Come pure quella di non fare quasi niente, oggi che la pittura ha raggiunto un tale grado di speculazione.

Laggiù tutto questo non ha più senso, si ritrova la sensazione di essere un uomo di fronte alla terra. Qui da noi abbiamo i nostri riferimenti, la nostra esistenza, un certo ordine. Là c'è il caos, il caos di un mondo che, nonostante tutto, possiede una sua armonia. Là mi sentivo in armonia.



Il passato, la luce, il clima, la situazione geografica fanno della Sicilia una sorta di giardino ideale, un giardino dimenticato, un giardino sulfureo che è anche, checché se ne dica, il cuore del Mediterraneo palpitante al ritmo delle pulsioni del vulcano e delle onde che ne percuotono o ne accarezzano gli scogli.

Si trova nel cuore delle realtà vitali, e questo rende possibile la pittura e, nella luce straordinaria di quest'estate, il mio pennello ha danzato..." 

martedì 17 giugno 2025

MAFIA E SERVIZI SEGRETI, LE TRACCE NASCOSTE DI UN RAPPORTO INCONFESSABILE

Processione a Palermo.
Fotografia di Nino Teresi
tratta dalla rivista "Sicilia"
edita nel dicembre del 1964
dall'assessorato regionale al Turismo


Quando sono iniziate in Sicilia la convivenza e la connivenza fra mafia e Stato? A questa domanda hanno risposto in maniera non univoca autorevoli storici, saggisti e studiosi del fenomeno mafioso. Di certo, un aspetto fondante di questo rapporto è stato rappresentato, oltre che dai legami fra boss e gregari di "cosa nostra" con politici ed amministratori della "cosa pubblica", dal ruolo del volto nascosto dello Stato: quei servizi segreti destinati a indirizzare nell'ombra il corso di molti eventi italiani. 

Nel 2016, la giornalista Bianca Stancanelli ha riassunto così i molti indizi che alimentano fondati motivi per credere nei collegamenti - inconfessabili e di difficile esame giudiziario - fra mafia ed apparati dello Stato:

"Molto prima che Gaspare Spatuzza collocasse un funzionario dei servizi segreti sulla scena dell'autorimessa in cui si confezionava l'autobomba per uccidere Paolo Borsellino - si legge nel saggio "La città marcia", edito a Venezia da Marsilio -  collaboratori di minore e maggior peso hanno riferito dei loro contatti con gli 007.

Francesco Di Carlo, boss di Altofonte e personaggio di rilievo dello schieramento corleonese, esule di lusso a Londra dalla fine degli anni Settanta, si vanterà delle sue frequentazioni con il generale Giuseppe Santovito, che fi capo del Sismi, il servizio segreto militare, dal 1978 al 1981 - gli stessi anni in cui militava nella P2. A voler credere a Di Carlo, i suoi rapporti con il generale erano improntati alla massima cordialità. Con Santovito, il mafioso di Altofonte sostiene di essere andato a pranzo perfino da latitante.

Dei suoi contatti con il Sisde parla con disinvoltura Leonardo Messina, numero due della famiglia di San Cataldo. E ne parla Gaspare Mutolo, il mafioso che incontrerà Paolo Borsellino diciannove giorni prima della strage di via d'Amelio e che gli farà il nome di Bruno Contrada, numero tre del Sisde, come di un uomo colluso con Cosa Nostra.

Quanto a Giovanni Brusca, sarà lui stesso a riferire che Angelo Siino gli sembrava collegato con i servizi segreti - quel medesimo Siino che era allora il plenipotenziario di Riina, chiamato a mediare tra l'imprenditoria siciliana e nazionale, la politica e la mafia.

E' ovvio che fa parte del mestiere di spia mettere il naso anche nelle più fetide organizzazioni criminali. Solo che, a rigor di logica, i servizi devono farlo per avere informazioni di prima mano e prevenire crimini. Se si considera quanti servitori dello Stato sono stati fucilati o fatti saltare in aria in Sicilia negli anni Ottanta e Novanta e il mistero che avvolge la loro morte, è difficile capire a che cosa sia servito tanto affaccendarsi dei servizi di sicurezza tra i mafiosi.

Di che cosa parlavano mafiosi e agenti segreti: di calcio?"

mercoledì 11 giugno 2025

IL NETTUNO DI PIETRA CHE FRONTEGGIO' LA MINACCIA DEL PETROLIO A LAMPEDUSA

Piattaforma petrolifera a Lampedusa nel 1978.
Fotografia di Enzo Mancini,
opera citata nel post


Nelle prime settimane del 1978, le ferrosa mole di una piattaforma petrolifera fece la sua comparsa a Lampedusa, a poche centinaia di metri dalla punta di Taccio Vecchio, lungo la costa settentrionale dell'Isola.

La piattaforma, di proprietà dell'Agip, avrebbe dovuto accertare la presenza di petrolio nelle profondità dei fondali: una missione che preoccupò non poco i pescatori lampedusani, per il timore di sversamenti inquinanti nel loro mare.

Le ricerche, avviate in quei mesi anche al largo di Capo Granitola, nel trapanese, non diedero i risultati attesi; Lampedusa salvò così il suo ambiente marino e l'economia locale basata sulla pesca e sul turismo.



La presenza di quella piattaforma è testimoniata da una fotografia che venne pubblicata nello stesso 1978 da Enzo Mancini nel saggio "Le isole del sole. Natura, storia, arte, turismo delle Pelagie" edito da Mursia a Milano.

"... Numerosi sono gli incontri ( a Lampedusa, n.d.r ) - scrisse Mancini - con autentici miracoli scultorei in cui si è sbizzarrita madre Natura. Sono immagini fantastiche ma precise di animali preistorici giganteschi, teschi umani, un baffutto dio Nettuno che guarda severo ( un ammonimento? ) la deturpante piattaforma installata a meno di due miglia per le ricerche ( certamente inquinanti ) di sorgenti petrolifere in fondo al mare..."



domenica 8 giugno 2025

L'EVOCATIVO LESSICO DI CONSOLO A RICORDO DELLA BELLEZZA DELLA CALURA

Fotografia
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Fra i troppi angoli di costa siciliana resi inaccessibili da cancelli, accessi privati e altri abusi accettati come un immutabile dato di fatto c'è il promontorio cefaludese della Calura.

Il luogo - una cortina di rocce color carne ammassate in millenario equilibrio le une sulle altre - venne raggiunto a fatica già nel 1976 dallo storico e ricercatore Salvatore Mazzarella, alla ricerca della omonima torre della fine del Cinquecento:

"Si può raggiungerla... attraversando una proprietà privata, ben difesa da cancelli, cani molossi e proprietari diffidenti. Il posto, che fino a due decenni addietro, era uno splendido lembo vergine di costa, ormai è stretto in una scriteriata morsa da villini e alberghi..."  ( S. Mazzarella - R. Zanca, "Il libro delle torri", Sellerio editore Palermo, 1985 )



Anni dopo - nel saggio "Cefalù", pubblicato nel 1999 da Bruno Leopardi Editore di Palermo - solo il raffinato lessico evocativo di Vincenzo Consolo sarebbe riuscito a descrivere la solitaria e per sempre perduta verginità ambientale della Calura:

"Oltre Santo Stefano delle fornaci, delle giare maronali, oltre Torremuzza, Tusa, Finale, Pollina, per innumeri tornanti sopra precipizi, lungo una costa di scogliere e cale, di torri di guardie e di foci di fiumare, s'arrivava prossimi alla Rocca.

Ed erano prima la cala scoscesa e il promontorio della Calura, lo sconquasso primordiale dei massi che, come precipitati dall'alto, da Testardita, dalla Ferla, sul mare s'erano arrestati..." 




giovedì 5 giugno 2025

L'IMMAGINE SEGRETA DI SIRACUSA DI SEBASTIANO AGLIANO'

Mare a Siracusa.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


"La "mia" Siracusa è un'altra: è fatta di palazzi, di chiese, di strade, di piazze, nati in tempi più recenti, frutto di una civiltà in tono minore, ma altrettanto capace di suggestioni e dotata di un linguaggio accessibile; è fatta anche di feste popolari, di frutta e di dolci caratteristici, dei colori pittoreschi dei quartieri più intensamente abitati..."

Autore nel 1945 per la storica libreria Mascali del saggio "Che cos'è questa Sicilia?", il siracusano Sebastiano Aglianò - un letterato ed italianista trasferitosi in Toscana - descrisse il suo legame con la città di origine in un articolo pubblicato nell'aprile del 1954 dalla rivista "Sicilia", edita a Palermo da Flaccovio.

Mosso dall'intento di non narrare la Siracusa raccontata "in una guida qualsiasi e nella vasta letteratura di interesse turistico", Aglianò iniziò il suo scritto dalla descrizione della piazza S.Lucia, fra il 13 ed il 20 dicembre.

E' il periodo della festa della patrona della città, allorché:

"Vi si svolge quasi una sagra degli agrumi, e l'aria sa di bergamotti e di aranci e di cedri e di mandarini; e a sbucciarli, nella brezza fresca dell'imbrunire, par di sentire l'aroma e il brivido stesso della terra che li ha generati..."  



Piazza Duomo appare ad Aglianò:

"Di modeste dimensioni e asimmetrica, letteralmente dominata dai suoi palazzi e chiese, come la base di un irregolarissimo anfiteatro. Quantunque sia molto frequentata, piazza Duomo sembra appartata e distante, in una sua aristocratica ritrosia. Io consiglierei di soffermarvisi verso il tramonto, nell'ora più propizia per sentire il fascino di un fasto decaduto, tutta la malinconia di una grazia e di un lusso, rimasti come imbalsamati nell'aria cristallina..."

Di Siracusa, esalta la bontà sensoriale delle bevande e di un dolce con un nome antico:

"L'aranciata, la cedrata e soprattutto la "giuggiulena", il croccante pastoso e resistente al palato, dolcissimo e nello stesso tempo tonico, che contiene una vasta gamma di sapori e sa suscitare tante sensazioni diverse. Io vorrei raccomandare ai turisti che visitano Siracusa durante l'inverno, di non mancare di far conoscenza con questo capolavoro della pasticceria siracusana..."

Infine, le pagine di Aglianò dedicate alla natia Siracusa si chiudono nel ricordo del suo continuo aprirsi al mare, "il più primigenio che io conosca":

"Il mare è onnipresente nella vita della città, e l'aria stessa che si respira è aria marina; direi che dell'azzurra distesa circostante risentano anche i pensieri e le sensazioni.



Certo nessuna cosa colpisce a Siracusa quanto questa possibilità di incontri col mare, questa visione aperta che ti viene incontro agli sbocchi delle strade o alle finestre di abitazioni private, e sorride fra casupole cadenti.

A osservarlo dal muraglione della parte orientale di Ortigia, sembra di navigare su un enorme transatlantico, con tutte le finestre che ti nascono dalle case e dai palazzi circostanti, di una città alta sul mare..."