ReportageSicilia è uno spazio aperto di pensieri sulla Sicilia, ma è soprattutto una raccolta di immagini fotografiche del suo passato e del suo presente. Da millenni, l'Isola viene raccontata da viaggiatori, scrittori, saggisti e cronisti, all'inesauribile ricerca delle sue contrastanti anime. All'impossibile fine di questo racconto, come ha scritto Guido Piovene, "si vorrebbe essere venuti quaggiù per vedere solo una delle più belle terre del mondo"
lunedì 24 ottobre 2011
sabato 22 ottobre 2011
GLI 'ABBANNIATURI' DI PALERMO
Fotografie e descrizioni di venditori ambulanti che sino a qualche decennio fa affollavano i mercati palermitani abbondano: gran parte delle pubblicazioni dedicate alla Sicilia propongono immagini della Vucciria, del Capo o di Ballarò, con il loro immancabile contesto dei banchi ricolmi di generi alimentari o prodotti casalinghi; fra i tanti fotografi che si sono esercitati nel genere vi è stato anche Renato Guttuso, che prima di dipingere il suo coloratissimo mercato della Vucciria ne fissò su pellicola scorci e volti in bianco e nero.
Con il passare degli anni, l’effetto di questo esercizio è diventato decisamente sempre più ‘folklorico’, visto che i mercati popolari palermitani faticano a sopravvivere e che gli ambulanti che vi sbarcano il lunario fanno sempre più parte di un patrimonio etno-antropologico del passato.
Ho esitato a proporre su REPORTAGESICILIA un post dedicato al tema dei venditori dei mercati, ritenendo l’argomento a forte rischio di ripetizione; una valutazione venuta meno quando ho recuperato un vecchio numero delle rivista del TCI ‘Le Vie d’Italia’, datato luglio 1938. Il periodico pubblicò allora un reportage a firma di Ermanno Biagini, intitolato ‘Venditori ambulanti delle vie palermitane’; l’autore firmò anche numerose fotografie di ambulanti ritratti con i vari prodotti, non senza sottolineare che “la laografia locale annovera in questo campo centinaia di tipi ben definiti e distinti l’uno dall’altro che, dal levare dal sole fino al tramonto, non fanno che andare e venire per le vie della città, offrendo a gran voce le loro più svariate mercanzie”.
Biagini scoprì ai lettori del mensile del Touring l’arguto campionario di frasi gridate dagli ambulanti palermitani, fornendo a premessa della comprensione del loro modo di vendere il principio palermitano dell’”abbanniaturi”: “Robba abbiannata, menza vinnuta”, “merce gridata, mezza venduta”. “Questi instancabili venditori girovaghi – si legge nel reportage – non ristanno dal proclamare a gran voce le lodi più sperticate dei loro prodotti, usando gli aggettivi più pomposi, le metafore più ardite, i più salaci sottintesi.
Ognuno ha il suo verso tradizionale, il suo timbro di voce, il ritmo suo particolare: dalla lenta cantilena fino alle note più stridule e più acute, per tutta una gamma di inflessioni, di modulazioni, ora piane, ora alte, ora meste, ora allegre, ora lente e sospirose come un lamento, ora rapide e trillanti come agili motivi di stornelli”.
Questa narrazione di Biagini – e la citazione degli slogan “abbanniati” allora degli instancabili venditori girovaghi, ritratti da fotografie in cui i visi offrono uno straordinario e immutabile repertorio di caratteri palermitani – mi è parsa preziosa; tanto più, perché il reportage documenta la presenza dell’”abbanniaturi” a Palermo alla vigilia delle devastazioni del secondo conflitto mondiale, al termine del quale la città avrebbe voltato le spalle al suo devastato centro storico.
Si trattò di un periodo cruciale per la storia della società popolare urbana, in cui il ruolo degli ambulanti nei mercati popolari – legato ad attività agricole ed artigianali locali – andava inesorabilmente scomparendo. Con la sua scrittura, Ermanno Biagini ebbe il merito di registrare le loro voci, ricordandoci oggi le loro colorite espressioni: quella dei venditori di fichidindia, "Ficudinnia duci chi haiu! Veri di Calamigna!" ( "Che fichidindia dolci che ho! Sono autentici di Ventimiglia Sicula!" ), di agrumi, "D'a sciorta bella sù i lumìuna! Partualli e mannarini duci! Comu i fravuli sù!" ( "Della scelta migliore sono i limoni! Aranci e mandarini dolci! Come le fragole sono!" ), di semi salati, "Cù sali e senza sali l'haiu d'a nostra! Nuciddi e favi: càvura a' simenza!" ( "Col sale e senza sale ve la do nostrale! Nocciole e fave: calda è la semenza!" ), di lumache, "Tutti chi corna fora sù sti babbaluci! C'u pitrusineddu! C'u picchiu pacchiu!" ( "Tutte con le corna di fuori sono queste lumache! Con il prezzemolo! Con pomodoro e cipolla!" ), e di acqua e anice, "Acquaaaa! Ma chi è gilatu, cu lu zammù: chi l'haiu frisca!" ( "Acquaaaa! Ma cos'è, un gelato, con l'anice? Come è fresca!" ).
Ancora qualche decennio dopo – tra la fine degli anni Cinquanta e Sessanta – Danilo Dolci avrebbe recuperato a Palermo le sparute voci di qualcuno fra gli ultimi “abbanniaturi”. “Voi sentirete come parla questa gente. Mentre al Nord gli operai e gli impiegati delle fabbriche sono sempre più astrattamente stereotipi – scriveva il sociologo di padre triestino e di madre slava – questa gente ha ancora toni genuini, parlano ancora uno per uno, tutti diversi: nelle loro tragiche voci”.
Con il passare degli anni, l’effetto di questo esercizio è diventato decisamente sempre più ‘folklorico’, visto che i mercati popolari palermitani faticano a sopravvivere e che gli ambulanti che vi sbarcano il lunario fanno sempre più parte di un patrimonio etno-antropologico del passato.
Ho esitato a proporre su REPORTAGESICILIA un post dedicato al tema dei venditori dei mercati, ritenendo l’argomento a forte rischio di ripetizione; una valutazione venuta meno quando ho recuperato un vecchio numero delle rivista del TCI ‘Le Vie d’Italia’, datato luglio 1938. Il periodico pubblicò allora un reportage a firma di Ermanno Biagini, intitolato ‘Venditori ambulanti delle vie palermitane’; l’autore firmò anche numerose fotografie di ambulanti ritratti con i vari prodotti, non senza sottolineare che “la laografia locale annovera in questo campo centinaia di tipi ben definiti e distinti l’uno dall’altro che, dal levare dal sole fino al tramonto, non fanno che andare e venire per le vie della città, offrendo a gran voce le loro più svariate mercanzie”.
Biagini scoprì ai lettori del mensile del Touring l’arguto campionario di frasi gridate dagli ambulanti palermitani, fornendo a premessa della comprensione del loro modo di vendere il principio palermitano dell’”abbanniaturi”: “Robba abbiannata, menza vinnuta”, “merce gridata, mezza venduta”. “Questi instancabili venditori girovaghi – si legge nel reportage – non ristanno dal proclamare a gran voce le lodi più sperticate dei loro prodotti, usando gli aggettivi più pomposi, le metafore più ardite, i più salaci sottintesi.
Ognuno ha il suo verso tradizionale, il suo timbro di voce, il ritmo suo particolare: dalla lenta cantilena fino alle note più stridule e più acute, per tutta una gamma di inflessioni, di modulazioni, ora piane, ora alte, ora meste, ora allegre, ora lente e sospirose come un lamento, ora rapide e trillanti come agili motivi di stornelli”.
Questa narrazione di Biagini – e la citazione degli slogan “abbanniati” allora degli instancabili venditori girovaghi, ritratti da fotografie in cui i visi offrono uno straordinario e immutabile repertorio di caratteri palermitani – mi è parsa preziosa; tanto più, perché il reportage documenta la presenza dell’”abbanniaturi” a Palermo alla vigilia delle devastazioni del secondo conflitto mondiale, al termine del quale la città avrebbe voltato le spalle al suo devastato centro storico.
Si trattò di un periodo cruciale per la storia della società popolare urbana, in cui il ruolo degli ambulanti nei mercati popolari – legato ad attività agricole ed artigianali locali – andava inesorabilmente scomparendo. Con la sua scrittura, Ermanno Biagini ebbe il merito di registrare le loro voci, ricordandoci oggi le loro colorite espressioni: quella dei venditori di fichidindia, "Ficudinnia duci chi haiu! Veri di Calamigna!" ( "Che fichidindia dolci che ho! Sono autentici di Ventimiglia Sicula!" ), di agrumi, "D'a sciorta bella sù i lumìuna! Partualli e mannarini duci! Comu i fravuli sù!" ( "Della scelta migliore sono i limoni! Aranci e mandarini dolci! Come le fragole sono!" ), di semi salati, "Cù sali e senza sali l'haiu d'a nostra! Nuciddi e favi: càvura a' simenza!" ( "Col sale e senza sale ve la do nostrale! Nocciole e fave: calda è la semenza!" ), di lumache, "Tutti chi corna fora sù sti babbaluci! C'u pitrusineddu! C'u picchiu pacchiu!" ( "Tutte con le corna di fuori sono queste lumache! Con il prezzemolo! Con pomodoro e cipolla!" ), e di acqua e anice, "Acquaaaa! Ma chi è gilatu, cu lu zammù: chi l'haiu frisca!" ( "Acquaaaa! Ma cos'è, un gelato, con l'anice? Come è fresca!" ).
Ancora qualche decennio dopo – tra la fine degli anni Cinquanta e Sessanta – Danilo Dolci avrebbe recuperato a Palermo le sparute voci di qualcuno fra gli ultimi “abbanniaturi”. “Voi sentirete come parla questa gente. Mentre al Nord gli operai e gli impiegati delle fabbriche sono sempre più astrattamente stereotipi – scriveva il sociologo di padre triestino e di madre slava – questa gente ha ancora toni genuini, parlano ancora uno per uno, tutti diversi: nelle loro tragiche voci”.
venerdì 7 ottobre 2011
MANIFESTI A GRAMMICHELE
LA SICILIA DI PIERO GAULI
Fra i tanti modi di raccontare la Sicilia esiste anche lo strumento del disegno e della pittura. Da tempo pensavo di dedicare al blog qualche post che raccontasse l’isola non solo attraverso l’uso della fotografia; mi sembrava però che la rappresentazione pittorica o quella tratta dal segno di una matita meritassero una selezione che richiede capacità di valutazione estetica più sensibili rispetto alla proposta di un’immagine fotografica. Questo convincimento è venuto meno dinanzi alla pittura del milanese Piero Gauli. Naturalmente, sconoscevo assolutamente Gauli, sino a quando – durante la scoperta a Roma, in viale Mazzini, di una straordinaria libreria dell’usato ( un minuscolo locale di una stanza, con i libri impilati ed addossati alle pareti scandite dalla sequenza di mensole ordinate da un libraio gentilissimo, dall’accento appenninico-toscano ) - l’occhio non si è fermato su un dorso con la dicitura ‘Taccuino di Sicilia’.
Era un ‘libro-catalogo’ che riproduce 46 quadri siciliani di un artista che ho poi imparato essere uno degli ultimi rappresentati di un gruppo pittorico milanese; un movimento che – alla vigilia della seconda guerra mondiale – prese il nome di ‘Corrente’ e di cui fecero parte, fra gli altri, Badoli, Birilli, Broggini, Tassinari, Cerchi, Fontana, Lanaro, Migneco, Paganin, Sassu e Valenti. ‘Taccuino di Sicilia’, edito da Edizioni Ghelfi di Verona nell’aprile del 1975, non è altro che il prezioso catalogo di 46 olii-pastelli, acquerelli e tempere realizzate da Piero Gauli durante i suoi numerosi viaggi nell’isola, soprattutto tra la fine degli anni Sessanta ed il successivo decennio dello scorso secolo.
Non ho il dono dell’analisi del critico d’arte; mi sembra però che la pittura di Gauli abbia colto quella soverchiante pienezza di colori che distingue il paesaggio siciliano nel Mediterraneo, e che è lo specchio del sostanziale ‘eccesso’ della natura e del carattere della vita in Sicilia.
A dirla con le parole di Leonardo Sciascia, dall’insieme dei quadri e delle serigrafie di Gauli - del quale REPORTAGESICILIA offre una selezione - “viene fuori una interpretazione della Sicilia ancora una volta in chiave panica, di una natura che esplode a sommergere l’opera dell’uomo e l’uomo stesso”; un giudizio cui Ugo La Rosa – autore della prefazione del catalogo – aggiunge questa notazione: “più spesso, Gauli sente la luce siciliana penetrare nelle architetture, cava espressione dalle pietre, dà forma col colore, segue la luce che fissa e disperde in sè la forma, mentre la sua felicità si dilata e ci coinvolge”.
La pittura di Gauli, insomma, mi pare che racconti quella certa eccitata gioia dell’essere in Sicilia, quasi come di un camminare in bilico sulla corda che separa il cielo luminosissimo delle sue meraviglie ed il baratro del suo insensato immobilismo.
Cantiere a Sant'Elia, tempera, 1972 |
Non ho il dono dell’analisi del critico d’arte; mi sembra però che la pittura di Gauli abbia colto quella soverchiante pienezza di colori che distingue il paesaggio siciliano nel Mediterraneo, e che è lo specchio del sostanziale ‘eccesso’ della natura e del carattere della vita in Sicilia.
Paesaggio verso Corleone, olio-pastello, 1972 |
Mare verso Mazara del Vallo, tempera, 1972 |
A dirla con le parole di Leonardo Sciascia, dall’insieme dei quadri e delle serigrafie di Gauli - del quale REPORTAGESICILIA offre una selezione - “viene fuori una interpretazione della Sicilia ancora una volta in chiave panica, di una natura che esplode a sommergere l’opera dell’uomo e l’uomo stesso”; un giudizio cui Ugo La Rosa – autore della prefazione del catalogo – aggiunge questa notazione: “più spesso, Gauli sente la luce siciliana penetrare nelle architetture, cava espressione dalle pietre, dà forma col colore, segue la luce che fissa e disperde in sè la forma, mentre la sua felicità si dilata e ci coinvolge”.
Paesaggio dal castello di Caccamo, acquarello, 1973 |
Il piccolo porto a Siracusa, acquarello, 1973 |
San Sebastiano a Palazzolo Acreide |
Villa Valguarnera, olio-pastello, 1972 |