ReportageSicilia è uno spazio aperto di pensieri sulla Sicilia, ma è soprattutto una raccolta di immagini fotografiche del suo passato e del suo presente. Da millenni, l'Isola viene raccontata da viaggiatori, scrittori, saggisti e cronisti, all'inesauribile ricerca delle sue contrastanti anime. All'impossibile fine di questo racconto, come ha scritto Guido Piovene, "si vorrebbe essere venuti quaggiù per vedere solo una delle più belle terre del mondo"
lunedì 30 gennaio 2012
domenica 29 gennaio 2012
I LUOGHI IGNOTI DI CAPPELLANI
Nell’epoca in cui ‘Google earth’ e GPS identificano e localizzano con precisione il più anonimo vicolo di una qualsiasi città, è difficile non dare un nome ad un manufatto la cui presenza fisica si impone nel territorio in cui quell’oggetto trova la sua ubicazione.
Ciò vale soprattutto per quei luoghi in cui il tempo o l’azione della natura o dell’uomo non abbiano stravolto i luoghi stessi; in questo caso, il riconoscimento può diventare un gioco affidato all’esercizio della memoria, o del confronto con disegni o fotografie del passato: alla rapidità della risposta tecnologica si sostituisce allora il piacere della ricerca documentaria o dell’aiuto del ricordo altrui.
Con questa premessa – e per desiderio di identificare vecchi luoghi della Sicilia a me ignoti – REPORTAGESICILIA posta alcune fotografie poco note e senza l’identificazione dei soggetti realizzate da Dante Cappellani, nome di primissimo piano nella storia della fotografia isolana.
Nato nel 1890 e morto nel 1969, cultore del teatro e dell’alpinismo, Cappellani aprì nel 1925 il suo primo studio fotografico a Palermo, in via Emerico Amari. In seguito – dopo avere ottenuto riconoscimenti in mostre e rassegne nazionali – trasferì la sua attività in via Mariano Stabile, specializzandosi nella riproduzione di monumenti e paesaggi.
Collaboratore dell’Istituto Nazionale Luce – incarico ritiratogli perché privo della tessera di adesione al partito fascista – Dante Cappellani perse il suo studio a causa dei bombardamenti alleati; dopo un breve trasferimento a Firenze, tornò a Palermo, aprendo un nuovo laboratorio in via Valerio Villareale.
La sua opera è stata continuata dal figlio Giuseppe, scomparso nell’aprile del 2010, dopo un’intensa collaborazione con l’editore Enzo Sellerio, con lo scrittore Gesualdo Bufalino e con vari studiosi d’arte siciliana ( Donald Garstang, Antonio Pasqualino, Antonino Ragona ). Le fotografie eseguite da Dante e Giuseppe Cappellani e riproposte da REPORTAGESICILIA fanno oggi parte di un archivio di famiglia di oltre 200.000 immagini, scattate in Sicilia tra il 1920 ed il 2002. Nel dettaglio, furono esposte nel marzo del 1998 a Palermo all’interno della chiesa di Santa Maria dello Spasimo nell’ambito di una mostra intitolata ‘Scritture di paesaggio’, curata da Girolamo Cusimano per conto della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo. Successivamente a quell’evento, le immagini furono inserite in un catalogo edito da Alloro Editrice Palermo: da quella pubblicazione sono appunto tratte le fotografie dei luoghi ritratti da Dante Cappellani in luoghi ignoti, probabilmente prima del secondo conflitto mondiale.
Ai nostri giorni l’archivio di Dante e Giuseppe Cappellani è visibile sul sito http://www.stanzediluce.com/, i cui curatori stanno ancora completando il lavoro di catalogazione.
mercoledì 25 gennaio 2012
GIORDANO, MEMORIE DEL 'MAXI'
Alfonso Giordano è stato il presidente del primo maxiprocesso a Cosa Nostra, iniziato a Palermo nel febbraio del 1986 e terminato nel dicembre dell’anno successivo: un evento che ha segnato la storia siciliana del secondo dopo guerra, e che in quel periodo provocò anche accese polemiche che misero in discussione la validità giuridica delle accuse mosse a quasi 500 fra boss e gregari delle cosche.
Al di là delle valutazioni tecniche – e senza dimenticare le condanne emesse per gravi e documentati reati - il ‘maxi’ svoltosi nella nuova aula bunker dell’Ucciardone, ha rappresentato per molti palermitani una presa di coscienza sull’impegno di una parte dello Stato nella volontà della lotta alla mafia.
Di quella coscienza, Giordano – palermitano e figlio di un magistrato - è stato e rimane uno dei simboli chiave, al punto che ancor oggi il suo nome è indissolubilmente legato al ricordo stesso del ‘maxi’.
Di quella coscienza, Giordano – palermitano e figlio di un magistrato - è stato e rimane uno dei simboli chiave, al punto che ancor oggi il suo nome è indissolubilmente legato al ricordo stesso del ‘maxi’.
Venticinque anni dopo in cui Alfonso Giordano pronunciò per 19 volte la parola ‘ergastolo’ – leggendo la sentenza di condanna per altri 2665 anni di carcere e di assoluzione per 114 imputati – il presidente del maxiprocesso pubblica un memoriale su quella eccezionale esperienza professionale ed umana.
I suoi ricordi sono stati pubblicati da Bonanno Editore ( http://www.bonannoeditore.com/it/) , in un volume di 340 pagine intitolato ‘Il maxiprocesso venticinque anni dopo’; il lavoro si presenta come una minuziosa ricostruzione di fatti, circostanze e protagonisti del più importante processo a Cosa Nostra.
Lo stesso autore del memoriale spiega di avere atteso così tanti anni prima di raccogliere i suoi ricordi in un libro, in primo luogo, “per una crisi di rigetto nei confronti della materia che mi aveva costretto a uno studio triennale, intervallato da un corredo di ansie, patemi, delusioni, terribili interrogativi, speranze e timori. Solo adesso, con lo scopo di contribuire all’esattezza storica dei fatti e non più oppresso dal riservo professionale, posso interloquire su alcuni episodi importanti di quel processo”.
La lucidità del racconto di Giordano – che rievoca anche le famose audizioni di Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno – riassume il carattere stesso dell’uomo e del magistrato, secondo una descrizione che ne diede anni fa Mario Lombardo, giudice popolare al ‘maxi’: “Di temperamento apparentemente chiuso, - scrisse nel saggio ‘Giudice popolare al maxiprocesso’, edito da Ila Palma Palermo nel 1988 - non disdegna qualche impennata, ma è cordiale quando lo si avvicina. E’ dotato di una resistenza elefantiaca, dimostrata nelle estenuanti udienze tenute fin dall’inizio. I suoi nervi, sottoposti a pressione da due anni, sono rimasti ben saldi. C’è in lui un lato umanitario, che traspare anche quando parla di delinquenti uccisi”.
lunedì 23 gennaio 2012
MOZIA, GLI SCATTI DI WHITAKER
Ho ricordi piuttosto datati dell'isola di Mozia.
Malgrado la relativa vicinanza con Palermo - e l'indubbia bellezza di questa zona della provincia trapanese - il mio unico approdo nella località archeologica di età punica risale ai tempi della scuola media; quindi, ad alcune decine di anni fa, in occasione della classica gita scolastica in cui frotte di ragazzini si divertono più a fare confusione sull'autobus che li porta a destinazione che a conoscere il luogo della loro giornata di vacanza, vanamente mitigati dagli insegnanti.
Di quel luogo silenzioso e quasi disabitato - nel quale un tempo, secondo il vendicativo racconto degli stessi insegnanti gli abitanti sacrificavano i bambini - ricordo la laguna bassa e quasi immobile, ed i cocci di ceramiche raccolti per gioco ai margini dei sentieri.
Durante quella gita imparammo che, ad un certo punto della sua millenaria storia, l'isola di Mozia - chiamata anche San Pantaleo - venne acquistata da un ricco signore di origine inglese, con la passione per la botanica, per il vino e per l'archeologia: Giuseppe Whitaker.
In anni più recenti, ho così raccolto le sue essenziali notizie biografiche: cultore di Heinrich Schliemann, imparentato con la famiglia Ingham e sposato con Sofia Sanderson – figlia di Guglielmo, console inglese a Messina – tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo Giuseppe Whitaker estese i suoi interessi nel settore vinicolo fra Marsala, Balestrate, Campobello, Mazara ed Alcamo; l’interesse per le antiche civiltà e per la ricerca archeologica, nel 1906 lo portò ad acquistare l’isola di San Pantaleo, la cui superfice terriera, dai primi anni del 1800, era suddivisa fra 19 famiglie.
L’imprenditore di origine inglese fu aiutato nella sua opera di ricerca archeologica delle testimonianze puniche dallo studioso Antonio Salinas e da un anziano reduce garibaldino, Giuseppe Lipari Cascio.
Negli anni successivi a quella gita adolescenziale ho più volte desiderato fare ritorno a Mozia, senza realizzare il progetto.
In questa fotografia senza data e di autore sconosciuto, quattro carri trasportano abitanti e visitatori dell'isola attraverso un'antica strada semisommersa che collega Mozia alla terraferma |
L’imprenditore di origine inglese fu aiutato nella sua opera di ricerca archeologica delle testimonianze puniche dallo studioso Antonio Salinas e da un anziano reduce garibaldino, Giuseppe Lipari Cascio.
Negli anni successivi a quella gita adolescenziale ho più volte desiderato fare ritorno a Mozia, senza realizzare il progetto.
Qualche mese fa, sono però tornato a pensare a quel lembo di terra e di antiche pietre circondato dalla stagnone di Marsala. L'occasione me l'ha procurata il mio vecchio amico Andrea Di Napoli, figlio di una di quelle antiche famiglie siciliane capaci di conservare oggi un signorile distacco dalla povertà morale dei nostri tempi. Andrea - mio maestro di fotografia ( maestro rimasto più bravo dell'allievo ) - mi ha infatti regalato una pubblicazione dedicata ad un progetto di catalogazione e conservazione del fondo fotografico della famiglia Whitaker: un’iniziativa risalente al 2007, cui lui stesso ha preso parte come addetto alla conservazione di vecchie stampe all'albumina ed aristotipi alla gelatina, raffiguranti proprio Mozia.
Adesso, una selezione di immagini pubblicate in ‘Il fondo fotografico Whitaker’ da Crimisos Società Cooperativa, Tipografia Alba Palermo, ottobre 2007, viene riproposta da REPORTAGESICILIA: in quei vecchi scatti – scrive M.Pamela Toti nell’opera – si osserva “una preziosa documentazione per l’inizio della storia moderna di questo importante sito archeologico fenicio punico. Ed inoltre dalle immagini nelle quali sono fermati i paesaggi e la gente moziese, traspare evidentissimo il grande amore che questo gentiluomo anglo-siciliano nutriva per il suo rifugio, immerso nella natura e nella storia”.
Maggiori dettagli sulla storia e sulle attività organizzate ai nostri giorni nel ricordo di Giuseppe Whitaker sono disponibili nel sito della Fondazione intitolata al suo nome, http://www.fondazionewhitaker.it/
lunedì 2 gennaio 2012
LA SICILIA RURALE DI BRONZETTI
Eugenio Bronzetti è stato uno dei più noti fotografi nella Palermo degli anni Venti dello scorso secolo. Figlio di Benedetto – a sua volta attivo in Sicilia come fotografo a partire almeno dal 1889 – e nipote materno di Eugenio Interguglielmi, altro nome storico di quest’arte, Eugenio deve la sua fama agli arditi scatti aerei ed alla fotografia industriale.
Il giovane Bronzetti, nato nel 1906, già all’età di 16 anni fece parlare di sé per essersi arrampicato su una ciminiera, allo scopo di ottenere un’inedita immagine panoramica di Palermo; da lì a qualche anno, il giovane fotografo avrebbe sposato l’ideologia futurista, privilegiando la rappresentazione di edifici monumentali, attrezzature meccaniche, miniere ed inaugurazioni, come quella della sede palermitana della Banca d’Italia, nel 1929.
Così, Eugenio Bronzetti riuscì presto a diventare il fotografo accreditato per molti committenti pubblici: l’Ente di Colonizzazione del Latifondo, i Cantieri Navali, l’Ente Porto e l’Ente Zolfi.
A lui si devono ancora numerose immagini dei villini liberty a Palermo, che costituiscono una parte del patrimonio di circa 85.000 negativi e lastre di vetro che lo stesso Bronzetti donò prima della morte – avvenuta nel 1997 - alla fototeca regionale del Centro per l’Inventario e la Catalogazione del capoluogo siciliano.
Il giovane Bronzetti, nato nel 1906, già all’età di 16 anni fece parlare di sé per essersi arrampicato su una ciminiera, allo scopo di ottenere un’inedita immagine panoramica di Palermo; da lì a qualche anno, il giovane fotografo avrebbe sposato l’ideologia futurista, privilegiando la rappresentazione di edifici monumentali, attrezzature meccaniche, miniere ed inaugurazioni, come quella della sede palermitana della Banca d’Italia, nel 1929.
Così, Eugenio Bronzetti riuscì presto a diventare il fotografo accreditato per molti committenti pubblici: l’Ente di Colonizzazione del Latifondo, i Cantieri Navali, l’Ente Porto e l’Ente Zolfi.
A lui si devono ancora numerose immagini dei villini liberty a Palermo, che costituiscono una parte del patrimonio di circa 85.000 negativi e lastre di vetro che lo stesso Bronzetti donò prima della morte – avvenuta nel 1997 - alla fototeca regionale del Centro per l’Inventario e la Catalogazione del capoluogo siciliano.
Meno nota e celebrata è l’opera fotografica che Bronzetti portò avanti negli ambienti rurali della Sicilia, sin oltre gli anni del secondo conflitto mondiale; i suoi scatti furono realizzati nella maggioranza dei casi utilizzando una vecchia macchina a cassetta a lastre di vetro.
In campagna – come scrisse nel 1990 Nino Recupero, nella prefazione al volume ‘Le Siciliane – L’archivio fotografico di Eugenio Bronzetti’, edito da Gelka – “ il suo occhio documenta la tradizionale, antica miseria; riuscendovi forse meglio che non nella veste di esaltatore della riforma agraria fascista.
Ricche di contrasto tra bianco e nero, le sue foto delle nuove case coloniche del latifondo ricordano più il cinema sovietico degli anni Trenta che non la contemporanea fotografia americana…”.
In campagna – come scrisse nel 1990 Nino Recupero, nella prefazione al volume ‘Le Siciliane – L’archivio fotografico di Eugenio Bronzetti’, edito da Gelka – “ il suo occhio documenta la tradizionale, antica miseria; riuscendovi forse meglio che non nella veste di esaltatore della riforma agraria fascista.
Ricche di contrasto tra bianco e nero, le sue foto delle nuove case coloniche del latifondo ricordano più il cinema sovietico degli anni Trenta che non la contemporanea fotografia americana…”.
Il volume della Gelka è da tempo fuori produzione; REPORTAGESICILIA ripropone alcuni degli scatti raccolti nella pubblicazione. Sono scatti in bianco e nero che restituiscono l’immagine di una Sicilia oggi quasi del tutto scomparsa, in un’ambientazione rurale che racconta per lo più gesti antichi di vita domestica, fra il 1933 ed il 1950.