martedì 18 novembre 2025

CORRADO ALVARO E IL RICORDO DELLA FOTOGRAFIA DI UNA DONNA CON L'ORCIO A TINDARI

Le fotografie sono attribuite a 
"Soprintendenza alle Antichità di Siracusa",
opera citata nel post


"Mentre andavamo via lesti perché la nostra compagnia ci chiamava per ripartire, fermammo un donna che andava alla fonte con l'orcio in equilibrio sulla testa, e le domandammo se consentisse a posare per una fotografia. Si volse: "Si, a patto che me ne mandiate una copia. La voglio spedire a mio figlio che si trova in America". Ci disse il suo nome e osservò come io lo appuntavo rapidamente su un pezzo di carta. Mentre rispondeva senza deporre l'orcio, ci accorgemmo come era: scalza, le gambe scoperte fino al polpaccio muscoloso, con quella idea d'infanzia perenne delle donne scalze dell'Italia meridionale, di donne non abbastanza adulte, per via appunto dei piedi scalzi, fino a che lo sguardo non scopre il viso e colloca questo viso in un tipo di donna, lo immagina in città, e questa popolana scalza prende l'aria di una passante vestita alla moda, d'una nostra amica, di una signora che siamo abituati a riverire...



In quell'istante, mentre il mio compagno di viaggio scattava la fotografia, avevo modo di osservare quella donna. Poteva avere quarant'anni; occorreva un occhio esercitato per attribuirle non più di questa età; il naso dolcemente arcuato, gli occhi distanti sotto la fronte dritta, e in essi l'espressione con cui una donna del popolo guarda un uomo che è il forte e insieme il ragazzo, il rivale e il violento e insieme il protetto. Ella si preparò alla posa assicurandosi con una mano l'orcio sulla testa, mentre passava l'altra mano per ravviare i capelli della bambina che la seguiva e cui facemmo attenzione per quel suo gesto. Unica civetteria, si passò la lingua sulle labbra per inumidirle e posò con sicura semplicità, una mano nella mano della bimba, l'altra all'orcio perché sapeva che quello ero lo scopo della sua fotografia, il suo povero orcio. Mi parve di pensare i suoi stessi pensieri in quell'attimo: il figlio in America, il momento in cui egli avrebbe riveduto la sua immagine; e un pensiero che in lei non era di certo, ma che si sarebbe certo affacciato alla mente del figlio lontano, di un mondo abbandonato per sempre, dolente e nostalgico e tuttavia col proposito di non tornarvi mai più; una madre scalza e con l'orcio dell'acqua sulla testa, nella sua povera realtà, con la sua presenza onoranda e insieme di donna mai abbastanza cresciuta, in una fatica che diventa l'immagine di un trastullo...  Non ci voltammo a guardare la donna che riprendeva la strada verso la fonte, là dove le more di gelso ornavano il viottolo. S'era cercato di mangiarne qualcuna e, come un sogno dileguato di ragazzo, esse non avevano più sapore, ma ancora tingevano di rosso la mano..."



Così Corrado Alvaro rievocò nel luglio del 1953 sul "Corriere della Sera" un incontro con una donna a Tindari - "in uno dei luoghi più belli di fronte le Eolie" - e la storia di una delle tante fotografie che hanno in passato ritratto le donne di Tindari durante il trasporto degli orci per la raccolta dell'acqua. ReportageSicilia ne ripropone una  ( ritrae forse la stessa donna? ) pubblicata nel dicembre del 1951 dalla rivista del Touring Club Italiano "Le Vie d'Italia". Insieme ad altre, l'immagine illustrò un articolo intitolato "Tindari, città sepolta della Sicilia" firmato da Nino Lamboglia, archeologo ligure che all'epoca qui guidò gli scavi della Soprintendenza della Sicilia Orientale



Nel suo racconto, ricco di notazioni storiche e di notizie sull'attività di studio e ricerca svolta in quei mesi - "ci siamo posti in capo, con l'amico Bernabò Brea, di affermare da un capo all'altro dell'Italia, da Ventimiglia a Tindari, il principio dello scavo stratigrafico, che dalla preistoria deve ormai passare all'archeologia, come avviene da tempo in altri paesi; e ci riusciremo..." -  Nino Lamboglia non mancò di sottolineare la bellezza paesaggistica di Tindari, allora appena sfregiata dalla mano insipiente dell'uomo:

"Il luogo è panoramicamente quanto di più suggestivo si possa immaginare, e nulla - salvo un edificio scolastico color fragola, un altarino all'aperto in piastrelle gialle, e l'orribile merlatura del santuario foggiato a caserma - è ancor venuto a turbare l'arcaismo dell'ambiente: le umili casette di impronta arabo-sicula, abbarbicate sui resti più alti della città antica, svelano d'improvviso al visitatore il nome e il colore della "via Cicerone", dedicata all'avvocato dei Tindaritani contro Verre lo spogliatore; e i fichi d'india regnano sovrani, e pungentissimi, a difendere a un tempo la proprietà e i diritti della natura..."

lunedì 17 novembre 2025

SCEMPI E MIRABILIE DEL PAESAGGIO SICILIANO IN UNA PAGINA DI BUFALINO

Il tempio di Segesta.
Fotografia di Roloff Beny
tratta dall'opera "Italia"
edita nel 1975 da Arnoldo Mondadori Editore


"Era bella, la Sicilia, duemila anni fa. Bella osa esserla ancora, a dispetto dell'uomo ma anche in grazia dell'uomo. Poiché il paesaggio - ha scritto Gesualdo Bufalino in "L'isola nuda" ( Bompiani, 1988 ) - non è soltanto belvedere di albe e tramonti, ma anche esito di braccia, utensili, intelligenze. Sicché non si fa in tempo, talvolta a bestemmiare uno scempio che già nello slancio dell'arcata d'un ponte o nelle compagine d'un muro di sassi si è indotti ad ammirare il regalo di un'architettura radiosa. Così discorde è l'uomo, così indistinguibile in lui la cecità dalla luce. Tanto da indurci a scordare per un momento, di fronte a una sola colonna di un tempio ch'egli abbia lasciato in piedi a garanzia delle sua dignità, la violenza da cui le mancanti furono abbattute e distrutte..." 

QUANDO IL TURISMO SCOPRI' USTICA GRAZIE AI SUOI ASINI

Gita in asino al castello di Ustica.
Fotografia accredita
ad "Assessorato Turismo",
opera citata nel post


Nel 1961, l'isola di Ustica - chiusa per sempre la sua storia di colonia penale - cominciò a diventare la meta di un turismo capace di apprezzarne l'appartata bellezza ambientale. Di questo cambio di identità scrisse così Franco Tomasino in un reportage dal titolo "Un'isola nuova per i turisti" pubblicato nel giugno di quell'anno dalla rivista "Sicilia", edita a Palermo dall'assessorato regionale al Turismo:

"Anni fa, chi vi giungesse, qualche sparuto innamorato dello inedito e le famiglie dei confinati, avvertiva il senso remoto dell'isolamento e la presenza viva, incalzante, fastidiosa, di "loro", quegli uomini infelici o disperati che vivevano fuori dal consorzio civile il loro dramma di espiazione...

Entriamo ad Ustica, ci vengono incontro asinelli dalla lunga coda, dall'aria estremamente riposata. Si direbbe che anziché lavorare loro, facciano lavorare quei bambini d'aria furbissima che li tengono agilmente per la cavezza, offrendoli ai visitatori per l'entrata in paese. E sono pochi a rifiutarsi l'occasione di un passaggio tanto pittoresco quanto funzionale: perché Ustica paesisticamente vive in mezzo alla roccia scabra sulla quale l'uomo ha lavorato di piccone facendo sorgere le sue abitazioni. Stradette anguste in salita spesso scoscesa; l'asino è quello che ci vuole..." 

venerdì 7 novembre 2025

I RICORDI DI MASSIMO SIMILI DELLO SCOMPARSO BIVIERE DI LENTINI



"Io lo ricordo benissimo. Ne ricordo i verdi canneti, gli effetti suggestivi di luce, gli effetti suggestivi di luce, i queruli uccelli acquatici e le caratteristiche barche. Vi abbondavano i "muletti" ( muggini di acqua dolce ), le tinche e specialmente le anguille di cui si faceva una pesca industrializzata già nel secolo decimottavo... V'era un uccello capellone: quel buffo palmipede chiamato svasso, o colimbo crestato, dal gran ciuffo nero in testa. Numerosissime le folaghe. E, tra gli insetti, l'anofele: la zanzara della malaria. Questo è il punto. Ma non avrebbe dovuto essere un punto di conclusione..."

Così, con tono di rammarico, il giornalista, romanziere ed umorista catanese Massimo Simili ricordava nel 1967 il paesaggio del biviere di Lentini: un lago ampio 15 chilometri quadrati - un tempo il più grande bacino lacustre della Sicilia - scomparso nel 1935 per le bonifiche realizzate dal regime fascista.



Sembra che nell'antichità il biviere fosse assai meno esteso, misurando poco più di 700 metri di circonferenza. Un terremoto vi avrebbe dirottato le acque del torrente Trigona, aumentandone l'estensione. Citato nel "Mastro don Gesualdo" di Giovanni Verga - "... steso là come un pezzo di mare morto..." - nel periodo della sua bonifica il biviere di Lentini rientrava nelle vaste proprietà della famiglia Lanza di Trabia. La sua bonifica, conclusa nel secondo dopoguerra, venne condotta grazie ad una nuova inalveazione del fiume Trigona e la sistemazione di una canalizzazione lunga venti chilometri.




L'acqua venne inizialmente convogliata verso un edificio munito di quattro pompe idrovore dalla potenza di 6250 litri al secondo che avevano il compito di sollevarla di tre metri, riversandola nel fiume San Leonardo.

La bonifica cancellò la malaria nel territorio di Lentini ma anche una preziosa area umida, sostituita in seguito da un paesaggio agrumario. La scomparsa del biviere - ricordò ancora Massimo Simili - finì con l'avere conseguenze sull'equilibrio climatico della zona:

"Non si può infatti togliere di mezzo l'ampia superficie di evaporazione di un lago senza alterare le condizioni climatiche del posto. A Lentini, ora, piove di meno: il che è poco consolante se si pensa che in Sicilia piove sempre male: cospicue ma brevi piogge d'inverno e una siccità praticamente assoluta d'estate..." 



Le fotografie del post ( la prima, seconda e la quinta, attribuite a "cav. Consoli-Catania" ) sono tratte dall'opera "Sicilia" edita a Milano dal Touring Club Italiano nel 1933; la terza e la quarta ( attribuite a "Pirrone" ) sono tratte dalla rivista della Consociazione Turistica Italia "Le Vie d'Italia" edita a Milano nel settembre del 1940.

giovedì 6 novembre 2025

LA SCOPERTA DEL MAGNIFICO PAESAGGIO DELLA TORRE DI ISOLIDDA

Fotografie
Ernesto Oliva-ReportageSicilia©


Il momento migliore per arrivarci è un'ora prima che il sole tramonti sul golfo chiuso ad ovest dal profilo roccioso di monte CofanoLa Torre Isolidda - il nome è quello di una sottostante minuscola isola, irta di scogli - si raggiunge individuando una piazzola di terra battuta che fiancheggia la strada che da Macari conduce a San Vito Lo Capo. Da questo slargo, inizia un sentiero che pochi metri dopo conduce sino ad un muretto di pietre a secco, malamente protetto da una vecchia recinzione in filo di ferro. Scavalcarla è facile.



Proseguendo lungo un viottolo che si allarga sino a svelare una trazzera forse un tempo carrabile, si scopre il lunghissimo profilo di una ampia costa pianeggiante, ancora oggi non troppo punteggiata dall'edilizia. In poco meno di dieci minuti di lenta camminata la squadrata mole di Torre Isolidda aggiunge infine suggestione storica a quella del paesaggio, quest'ultima accentuata dal pascolo solitario di qualche pecora.

A fornire notizie sulla storia di questo semplice ma iconico manufatto presente lungo una deserta costa trapanese sono stati Salvatore Mazzarella e Renato Zanca, nell'insostituibile saggio "Il libro delle torri" ( Sellerio editore Palermo, 1985 ). Apprendiamo così che la scelta del sito per la costruzione della torre risale già al 1578 e che nel giugno del 1595 la struttura - progettata secondo il modello dell'architetto fiorentino Camillo Camilliani - era pronta per accogliere il presidio di un caporale e due soldati. 



Il lavoro degli operai non doveva però essere stato dei migliori se appena due anni dopo fu necessaria la sua ricostruzione. "Poi ne perdiamo le tracce - si legge nel libro di Mazzarella e Zanca - per ritrovarla nel 1620, citata negli ordini di pagamento ai soldati".

Nelle ricognizioni compiute a partire dall'aprile del 1976, gli autori de "Il libro delle torri" osservarono un unico ambiente al primo piano, con all'interno un ampio camino, un ripostiglio e una botola utilizzata per accedere alla cisterna. La condizioni statiche della Torre Isolidda sono apparentemente discrete.




Sembra che il Comune di San Vito Lo Capo voglia in futuro utilizzare questo esempio di architettura militare d'inizio del XVII secolo ed il pianoro circostante per la promozione di spettacoli: progetto che - nell'auspicabile rispetto dei luoghi - svelerebbe ad un pubblico più ampio la suggestione paesaggistica di questo angolo di costa siciliana.