sabato 24 dicembre 2022

ALCAMO, LA RESIDUA BELLEZZA DI UN PORTALE NEI RUDERI DI SANTA MARIA DELLA MISERICORDIA

Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Dietro un muraglione in pietra che alimenta la curiosità su ciò che si nasconde dietro, Alcamo offre una testimonianza architettonica in stato di incuria; una delle tante presenti in piccoli e grandi centri urbani della Sicilia, che a farne un completo elenco occorrerebbero anni di ricerche. Si tratta del portale con colonnine e capitelli architravati inserito nei ruderi della chiesa di Santa Maria della Misericordia, nel quartiere di San Vito. Il manufatto, in stile tardo trecentesco, suggerisce il valore architettonico dell'edificio, fondato nella precedente età normanna. Su un capitello, si riconosce uno stemma della famiglia Diana, di origini piacentine. In una targa in metallo che sulla pubblica strada illustra il monumento si spiega che la chiesa "fu edificata prima del 1130 in concomitanza con l'ampliamento urbanistico del casale di Alcamo di origine araba. Nel 1313 venne consacrata come Chiesa Madre di Alcamo dal Vescovo della Diocesi di Mazara, Goffredo De Roncioni". Nei secoli successivi, il complesso religioso subì trasformazioni e un progressivo abbandono, sino allo stato attuale, piuttosto desolante. Rimane visibile lo scenografico portale, a giustificare la speranza che, prima o poi, la quasi millenaria storia del monumento possa comprendere anche il capitolo dedicato al suo recupero.

lunedì 12 dicembre 2022

BUFALINO E LE PROVVIDENZIALI AUTOSTRADE CHE SALVANO LA SICILIA

La costruzione dell'autostrada
Palermo-Catania in uno scatto
di Josip Ciganovic dal belvedere 
di Polizzi Generosa.
Opera esposta al Comune
di Petralia Sottana


Viaggiare lungo le autostrade isolane, rallentate da infiniti cantieri e rese insidiose da viadotti sconnessi e gallerie mal illuminate: un'esperienza affrontata con rassegnazione dai siciliani e con incredulità dai viaggiatori stranieri. Eppure, oltre le malmesse corsie d'asfalto che percorrono la regione da Mazara del Vallo a Messina, da Palermo a Catania, da Catania a Siracusa, gli sguardi dei guidatori possono scorgere paesaggi e testimonianze della presenza umana che raccontano l'intima storia dell'Isola. Lungo i tratti più  deserti  dell'autostrada Palermo-Catania - quelli delle alte colline delle Madonie e delle vallate a perdita d'occhio del nisseno - si vorrebbe trovare una strada di uscita: un via di fuga verso  contrade punteggiate da vecchi casolari, da fitte macchie di alberi, da rocce dalle forme bizzarre e misteriose. 



Dei paesaggi isolani attraversati dalle autostrade ha scritto Gesualdo Bufalino, con una considerazione che rimanda alla inspiegabile  attitudine dei siciliani a deturpare i luoghi della propria bellezza:      

"Bellezza e silenzio - considerò nel 1990 in  "Saldi d'autunno" ( Bompiani, Milano ) - esistono dunque ancora nell'isola: nei tavolati, nei bivieri, sulle sponde delle fiumare; nei borghi di cui s'incappellano i cocuzzoli montani e i cui mucchi di dammusi si osservano all'orizzonte o s'indovinano dai lumi, attraversando l'isola da Catania a Palermo, chi levi il capo un momento dal monotono nastro d'asfalto per interrogare il mistero di una Sicilia che gli s'invola. 



Sì, perché a questo punto è lecito chiedersi se i rettilinei delle autostrade non siano in qualche modo provvidenziali, quando spingono avanti alla cieca il viaggiatore indiscreto, distraendolo dai santuari più intimi ( valli, baie, contrafforti boschivi ), ch'egli spargerebbe altrimenti di carta straccia e barattoli vuoti..."

mercoledì 7 dicembre 2022

L'INACCESSIBILE TORRE COSTIERA DI CAPO ZAFFERANO

Capo Zafferano
da una pubblicazione
del 1886.
In cima al promontorio,
la scomparsa torre di avvistamento
del Cinquecento.
Opera citata nel post


Fra il 1877 ed il 1881, gli ingegneri dell'Ufficio Geologico del Regio Corpo delle Miniere realizzarono in Sicilia il primo sistematico studio geologico mai compiuto in Italia. Lo scopo delle rilevazioni ebbe un  intento non soltanto scientifico, legato alla significativa varietà delle caratteristiche dei suoli dell'isola, "contenente - si legge nell'opera che ne avrebbe raccolto i contenuti - la serie quasi completa dei diversi terreni geologici, dai cristallini più antichi sino ai quaternari più recenti, oltre ad un grandioso sviluppo delle formazioni vulcaniche". Come si legge infatti nel volume pubblicato nel 1886 da Luigi Baldacci "Descrizione geologica dell'isola di Sicilia" ( Tipografia Nazionale Roma ), "con lo studio della geologia dell'isola potevasi recar lume anche all'industria mineraria, e quanto allo zolfo specialmente, potevasi valutare la quantità totale del medesimo ancora disponibile per l'avvenire". Il dettagliato studio del Baldacci, ingegnere e geologo del Regio Corpo delle Miniere, venne arricchito da una carta geologica dell'isola e da dieci tavole in zincografia ricavate da fotografie scattate dallo stesso autore. Una di queste, restituisce l'immagine tardo ottocentesca di capo Zafferano, all'epoca quasi totalmente privo di strade ed edifici con ingressi privati che da decenni ne recintano buona parte degli accessi terrestri al mare. Nella didascalia che accompagna la tavola, si legge l'indicazione "Capo Zaffarana presso Bagheria, Dolomia norica". Sulla sommità, si può identificare una torre di avvistamento oggi quasi del tutto scomparsa che, secondo quanto scritto da Salvatore Mazzarella e Renato Zanca ( "Il libro delle torri", Sellerio editore Palermo, 1985 ), nell'aprile del 1550 era in fase di costruzione o di riparazione. I resti della torre, ridotta a rudere già in una carta IGM aggiornata al 1900 - pochi anni dopo l'immagine eseguita da Baldacci - sono da sempre difficilmente raggiungibili. 



Se ne lamentò sin dal 1578 l'ingegnere militare Tiburzio Spannocchi, e lo fecero Mazzarella e Zanca in occasione dei loro rilevi alla fine del Novecento:

"Il luogo - un piccolo quadrato in pietre informi miste a cotto - può essere raggiunto dopo una faticosa salita a piedi di circa mezz'ora, percorrendo la stradina dissestata, e in più punti erosa, che s'inerpica con percorso a zig-zag lungo i fianchi di quel piccolo "pan di zucchero" che è il monticello di capo Zafferano..."

Più recentemente, la guida "A piedi nel Parco: storia, natura ed escursioni per conoscere e vivere Monte Catalfano e Capo Zafferano" edita nel 2015 a Bagheria da "Amici di Plumelia" ha messo in guardia dai rischi di una scalata verso i resti della torre, con partenza da un sentiero seminascosto dalla vegetazione in località "Due piscine":

"Nel complesso il percorso rimane poco fruibile e pericoloso per cui sconsigliamo per motivi di sicurezza di affrontare questa ascesa breve ma intensa di emozioni..."


 

  

lunedì 5 dicembre 2022

RACCOLTA DELLE MANDORLE A PALMA DI MONTECHIARO

Le fotografie del post sono di
Franz Tomamichel, opera citata 


"Anche il mandorlo doveva essere coltivato nell'isola ancor prima della colonizzazione greca. Io non ne ho documento sicuro, forse per mia ignoranza... Troppo favorevole, infatti, all'albero, che fiorisce prima di tutti, è il clima del versante meridionale dell'isola, con la mitezza delle sue primavere; troppo facile ne è l'impianto, che si fa per seme; troppo sicuro l'attecchimento; assai meno lungo che per l'olivo è il tempo necessario alla fruttificazione commerciale; e facile, infine, è l'adattabilità della pianta a suoli dotati di un minimo strato superficiale, purché calcareo... Il mandorlo scende vicino al mar d'Africa per salire sull'altopiano e diffondersi nell'interno sempre di più, ma sino ad un'altitudine che raramente oltrepassa i 600 metri. Non sono estesi mandorleti, bensì piuttosto limitate isole, che cospargono l'altopiano e si fanno assai frequenti soprattutto in vicinanza, o almeno a non molta distanza, dei centri abitati..." 



Così nel 1960 - ben prima che i cambiamenti climatici mettessero in dubbio le secolari certezze di agricoltori e contadini - il geografo Ferdinando Milone spiegò in "Sicilia. La natura e l'uomo" ( Bollati Boringhieri, 1960 ) la storia e le ragioni della diffusione del mandorlo in una buona parte del territorio siciliano. In tempi assai più recenti, il 2021, Giuseppe Barbera - professore di Colture arboree all'Università di Palermo - nel saggio "Il giardino del Mediterraneo. Storie e paesaggi da Omero all'Antropocene", ( ilSaggiatore, Milano ) ha sottolineato che in Sicilia, negli ultimi decenni, gli uliveti, più longevi e profittevoli, hanno preso il sopravvento sui mandorleti. Barbera ha poi ricordato come in passato - nell'anno dello sbarco alleato in Sicilia - quest'ultima coltura fosse talmente diffusa da ingannare dall'alto la vista di un pilota di guerra:

"Vecchie foto mostrano come, ancora settant'anni fa, la coltura del mandorlo fosse dominante. La sua prevalenza è confermata dal racconto di quell'aviatore inglese che, mandato a perlustrare dal cielo le terre che nel 1943 gli alleati erano in procinto di liberare dal fascismo, consigliò di rinviare lo sbarco perché le campagne apparivano coperte di neve..."



Le fotografie di Franz Tomamichel riproposte nel post sono tratte dall'opera del giornalista svizzero Jakob Job "Sicilia. Magico mondo isolano", edita nel 1971 da Silva Zurigo. Gli scatti documentano una raccolta di mandorle e la loro sgusciatura nella zona agrigentina di Palma di Montechiaro.



giovedì 1 dicembre 2022

AVOLA, QUEL TRAGICO GIORNO DELLO SCONTRO FRA PIETRE E PIOMBO

Il luogo dei drammatici incidenti
fra braccianti e poliziotti
alla periferia di Avola,
il 2 dicembre del 1968.
Persero la vita
Giuseppe Scibilia e Angelo Scibona.
Foto tratta da "Fotocronaca 1968",
opera citata


"Durante uno sciopero per il rinnovo del contratto di lavoro ad Avola presso Siracusa, due braccianti sono rimasti uccisi in scontri con la Polizia: blocchi stradali da parte dei scioperanti, automezzi in fiamme, sassi contro le forze dell'ordine che hanno reagito con bombe lacrimogene e raffiche di mitra a scopo intimidatorio"

Questa didascalia accompagnò sulla pubblicazione "Fotocronaca 1968" edita dalla Cassa di Risparmio di Roma la fotografia che mostrava lo scenario del tragico scontro avvenuto ad Avola fra braccianti e poliziotti, il 2 dicembre di 54 anni fa. Morirono allora al km.20 della strada statale 115, colpiti dalle armi da fuoco della polizia - in contrada Chiusa di Carlo - il 46enne Giuseppe Scibilia e il 25enne Angelo Sigona, il primo di Avola, il secondo di Modica. La protesta dei braccianti, che rivendicavano un adeguamento dei salari e la loro equiparazione a livello provinciale, li aveva portati a bloccare la strada con grosse pietre e tronchi d'albero. Quando sul posto giunse una colonna di mezzi della polizia del reparto mobile di Catania - nove mezzi con poco meno di cento uomini a bordo - scoccò la scintilla del furioso scontro. Pare che tutto ebbe inizio quando i poliziotti fronteggiarono i 400 braccianti indossando elmetti grigi in ferro: un gesto che qualche manifestante interpretò come una provocazione. Cominciò allora verso gli uomini in divisa una fitta sassaiola. 



A quel punto, una scellerata decisione - non si seppe mai se ordinata da un vice-questore o se frutto di iniziativa personale di qualche agente - diede avvio all'esplosione a distanza ravvicinata di lacrimogeni. Il vento contrario indirizzò il fumo urticante verso gli stessi poliziotti; fu in quel frangente di confusione e paura che alcuni di loro cominciarono a sparare raffiche di mitra contro i braccianti, con uno scopo per nulla intimidatorio ma di offesa-difesa armata. Al termine degli scontri costati la vita a Scibilia e Sigona, si contarono altri tre braccianti feriti gravemente da colpi di arma: Giuseppe Buscemi, Giorgio Garofalo e Salvatore Agostino.  Un centinaio furono i contusi, e fra questi una quarantina di agenti. L'episodio ebbe vasta eco a livello nazionale, con una generalizzata condanna dell'operato della polizia. Il ministro dell'Interno, il palermitano Franco Restivo, dispose l'immediata rimozione del questore di Siracusa, Politi, che divenne così il parafulmine della fallimentare gestione in strada di quella tragica giornata siciliana. Il giorno dei funerali di Giuseppe Scibilia e Angelo Sigona, ad Avola, in piazza dei Cappuccini si riunì una folla compatta e silenziosa sotto gli ombrelli sferzati dalla pioggia. Per stemperare le tensioni, furono evitati i discorsi dei sindacalisti, mentre  il presidio delle forze dell'ordine si limitò alla presenza di pochi carabinieri. 



Quelli che passarono allora alle cronache come i "tragici fatti di Avola" dimostrarono all'Italia che la Sicilia e vaste aree del Meridione vivevano in uno stato di depressione capace di sfociare in drammatici scontri fra braccianti armati di pietre e poliziotti armati di piombo: eventi dolorosi in uno Stato in cui, oggi come allora, Nord e Sud vivono due realtà economiche e sociali assai lontane fra loro.    

martedì 29 novembre 2022

L'IMMUTATA "VERITA' SICILIANA" DI EGIDIO STERPA

Foto tratta da
"La questione meridionale"
di Arturo Milanesi e Francesco Palleschi,
Editrice La Scuola,  Brescia, 1978


"La verità siciliana - ha scritto con un'analisi purtroppo ancora oggi appropriata il giornalista e saggista Egidio Sterpa in "La rabbia del sud" SEI, Torino, 1973 ) - è molto complessa. Ci sono secoli di scetticismo nel cinismo apparente di oggi. C'è forse anche quella capacità, tipica dei siciliani, di esplorazione implacabile di se stessi e degli altri. I grandi mali della Sicilia, oggi, sono il divorzio fra cultura e politica e la continua emorragia di intelligenze. Fuggono i migliori, e quelli che restano si isolano e sono troppo deboli per infrangere la crosta secolare che strozza la società, "sequestra" la cultura e pervade di cinismo tutto l'ambiente" 

domenica 27 novembre 2022

IL VIAGGIO DI BARTOLO CHE POPOLO' DI EOLIANI L'AUSTRALIA

Isole di Lipari e di Vulcano.
Le fotografie di Patrice Molinard
sono tratte da "La Sicile",
edito da del Duca per la collana
"Couleurs du Monde", Parigi, 1955 (?)


Nell'articolo "E Ciro vide Anna Magnani" pubblicato il 23 settembre 2008 su "l'Unità" e riproposto postumo nel 2012 in "La mia isola è Las Vegas" ( Arnoldo Mondadori Editore, Milano ), Vincenzo Consolo ricordò la massiccia emigrazione verso l'Australia che nel Novecento spopolò le isole Eolie.

"Quegli isolani vendevano tutto - scrisse Consolo - terreni, attrezzi di lavoro, casa, barche da pesca, vendevano perché dovevano emigrare, soprattutto in Australia. Era quello il tempo della grande emigrazione da tutte le isole Eolie...". Tale fu l'entità dell'esodo, che un sociologo australiano decise di fare il percorso al contrario per raggiungere l'arcipelago messinese e capire le motivazioni di quei lunghissimi viaggi senza ritorno dal Mediterraneo al Pacifico. Ciò che non si sa, sottolineò Consolo, è "se quel sociologo ha scritto della grande beffa che quegli emigranti hanno subito: la beffa del grande miracolo turistico che le Eolie aveva investito, miracolo che aveva fatto lievitare il valore della loro casetta con i pilieri e la pergola, il loro fazzoletto di terra. Miracolo turistico, nell'Eolie, forse dopo che là due famosi film erano stati girati, "Stromboli" e "Vulcano", con due dive antagoniste, Ingrid Bergman e Anna Magnani..."



Molti anni prima, nel febbraio del 1965, sulle pagine del "Corriere della Sera", il giornalista catanese Massimo Simili - dimenticato autore per Rizzoli di una serie di saggi e romanzi umoristici e fondatore dei periodici "Il prode Anselmo", "Scirocco" e "Giornale dell'Isola" - aveva fornito una sua singolare versione sull'origine dell'emigrazione eoliana verso l'emisfero australe:

"Il primo ad emigrare fu un certo Bartolo che nel 1890 si imbarcò per l'America, ma la sua nave fece naufragio e i superstiti vennero raccolti e trasportati alle Azzorre dove Bartolo attese il passaggio di un'altra nave diretta in America. Ne giunse invece una che faceva rotta per l'Australia, e Bartolo, giudicando trascurabile questa differenza, vi salì a bordo. A quei tempi, in materia, non v'erano eccessive complicazioni; un emigrante poteva andare a vivere e a morire in un luogo piuttosto che in un altro: così Bartolo andò in Australia, vi fece qualche soldo e scrisse molte lettere ai compaesani che, da lui, impararono a conoscere l'Australia e la voglia di andarci..."







domenica 20 novembre 2022

IL DESIDERIO CEFALUDESE DI PAOLO RUMIZ

Mosaici del duomo a Cefalù.
Foto
Ernesto Oliva-ReportageSicilia



"Vedevo tutto, in una straordinaria immagine stereoscopica: i faraglioni della Corsica, i pilastri delle Colonne d'Ercole, i deserti calcinati della Sirte, e la Sicilia - "Ah la Sicilia, subito ci tornerei!" - con le icone dei santi bizantini a Cefalù..."

da "Il Ciclope" di Paolo Rumiz, Feltrinelli Editore Milano, 2015 

LUOGHI COMUNI E STORIA DEL PANE CA' MEUSA A PALERMO

Locandina
nel quartiere palermitano di Ballarò.
Foto
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


La maggior parte dei palermitani non ha mai mangiato il pane con la milza - localmente detto "pane cà meusa" - né si sognerebbe mai di farlo. Eppure, per la maggior parte dei turisti e dei viaggiatori che visitano Palermo - complici il passaparola e le indicazioni gastronomiche presenti in rete e sulle guide cartacee della città - l'untuoso gusto del pane con la milza è accostato al vivere quotidiano dei palermitani. Come il pane e panelle, le arancine e gli arancini, la cassata, i cannoli, la caponata, la pasta al forno, le brioches con il gelato e tutto il resto dell'immaginario gastronomico isolano che spesso costituisce pretesto di un viaggio in Sicilia. L'argomento "pane cà meusa" è così diventato oggetto di folclore turistico cittadino, da qualche anno alimentato dalla globalizzante qualifica di "street food". Il giornalista e scrittore Gaetano Savatteri è però andato oltre questa narrazione di maniera del pane con la milza, facendoci scoprire le sue origini storiche: un rimando all'infinita mescolanza di genti e culture che hanno generato Palermo ed i palermitani.

"Gli storici del gusto - ha scritto Savatteri in "Non c'è più la Sicilia di una volta" ( Editori Laterza, Bari, 2017 ) - dicono che la milza è un lascito degli ebrei che vivevano a Palermo nel quartiere Meschita e macellavano le carni col metodo kasher. Non potendo, per una serie di divieti, ricevere denaro in pagamento, gli ebrei venivano stipendiati con le frattaglie di risulta. Una volta sbollentate, quelle interiora venivano rivendute ai palermitani che cominciarono ad apprezzarle. Nel 1492, per ordine di Ferdinando il Cattolico, in base all'editto voluto dall'inquisitore Torquemada, gli ebrei vennero espulsi da tutti i territori dell'impero spagnolo, Sicilia compresa. L'uso di cucinare milza e frattaglie passò allora ai così detti cacciuttari palermitani che, in un calderone pieno di sugna bollente, friggevano milza, trachea, polmone e ricotta. Il pane cà meusa, insomma, ha un lungo passato..."

venerdì 18 novembre 2022

I SICILIANI ASCETICI DI FERDINANDO MILONE

Donna con il bastone
a Petralia Soprana.
Fotografia di Melo Minnella
pubblicata dalla rivista "Sicilia"
nel gennaio del 1973 


Nel 1960 il geografo napoletano Ferdinando Milone diede alle stampe per l'editore Paolo Boringhieri il saggio "Sicilia. La natura e l'uomo": quasi 500 pagine in cui l'autore esamina gli aspetti naturali, storici, demografici, economici e paesaggistici di una regione in cui i secolari problemi, secondo Milone, "derivano dalla situazione geografica e dalla natura del suolo e del clima". Nel saggio - scritto "per amore verso la popolazione dell'isola, che soffre per decenni e decenni di abbandono e di fame" - il geografo traccia uno degli infiniti ritratti dei siciliani forniti nei secoli da viaggiatori:

"Credetemi, questa non è una popolazione qualsiasi. E' gente assai complessa e difficile a capirsi. Assai più delle altre, a me sembra, vicina alla natura, con i suoi trasporti di generosità e di gelosie, di gioie e dolori, allegrie e tristezze, rancori e perdoni; con le sue collere e gli odi implacabili, tramandati dall'una all'altra delle generazioni; le delazioni e l'omertà. Ma, insieme, è erede di una più volte millenaria civiltà, che costruì i tempi dorici e le chiese barocche, i castelli medioevali e le ville sontuose del Settecento, le belle città ottocentesche, i giardini tropicali; e dalla quale ebbe, a fondo del suo carattere, una saggezza antica e una intelligenza artistica, una pienezza di sentimenti e una tendenza contemplativa, direi quasi ascetica, che contrasta con l'amore e la precocità dei sensi, e la volge di più verso la speculazione del pensiero, nella filosofia e nel giure, nell'arte o nella scienza, che non verso le attività pratiche, mentre pur ha notevole attitudine ai commerci..."

giovedì 17 novembre 2022

UNA PAGINA DI QUATRIGLIO SUI RACCONTI LAMPEDUSANI DEL CARTOGRAFO WILLIAM HENRY SMYTH

Entroterra di Lampedusa.
Nell'immagine che segue,
un tratto di costa dell'isola.
Foto
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Era il 1821 quando, a bordo della nave da guerra inglese "Adventure", il capitano di vascello, geografo e cartografo William Henry Smyth fu impegnato in una missione scientifica: effettuare rilievi trigonometrici utili a correggere gli errori riportati all'epoca nelle carte nautiche del Mediterraneo centrale. Base di partenza del capitano Smyth fu il porto di Palermo, città in cui l'ufficiale inglese ebbe modo di conoscere alcuni esponenti del mondo scientifico locale: fra questi, i professori Scinà e Ferrara e soprattutto l'abate Giuseppe Piazzi, direttore del Regio Osservatorio Astronomico di Palermo, con il quale avrebbe consolidato uno stretto rapporto di amicizia. La navigazione partita da Palermo portò dopo qualche giorno l'"Adventure" a Lampedusa, oggetto di una relazione ricca di notazioni storiche e di costume. "Gettate le ancore a cala Guitgia - così le ha ricordate Giuseppe Quatriglio nel dicembre del 1962 nell'articolo "Itinerari nelle isole minori. Lampedusa" pubblicato dalla rivista "Sicilia" - vivevano nell'isola soltanto un suddito inglese, Mr.Fernandez, con la famiglia, qualche anacoreta ed una dozzina di contadini maltesi. Mr.Fernandez si trovava a Lampedusa da circa dieci anni, allevava bestiame e si dedicava alla pesca ed ai commerci con i maltesi e gli abitanti delle vicine coste dell'Africa. Ma nel 1821 le cose non dovevano andare per il meglio se il capitano Smyth trovò i Fernandez in un deplorevole stato di inedia in un miserabile abitacolo addossato a una grande grotta e con il pericolo di gravi infezioni, dato che le navi non ammesse nei vicini porti per motivi sanitari avevano l'abitudine di sostare a Lampedusa per rifornirsi d'acqua. L'ufficiale inglese ebbe una conferma di ciò allorché iniziò l'esplorazione dell'isola. Nell'interno di una grotta trovò una tomba con questa iscrizione: "Qui ritrovasi cadavere - morto di peste in giugno 1784". Apprese poi che era stato l'equipaggio di una nave da carico francese a contagiare i pochi abitanti dell'isola tra cui alcuni monaci. Questi ultimi si erano prestati ad aiutare i marinai che intendevano far prendere aria alle balle di cotone che costituivano il loro carico. Ma ben presto tutti coloro che avevano avuto contatto con i marinai si ammalarono e molti, tra cui il superiore del convento, morirono". .. Ma chi furono i primi abitanti dell'isola in tempi moderni? Il capitano Smyth raccolse una leggenda in base alla quale furono due signore palermitane, Rosina e Clelia, uniche superstiti di un naufragio, le prime madri di Lampedusa. Le due donne ebbero la ventura di incontrare nell'isola due eremiti, Sinibaldo e Guido, i quali si convinsero, pare senza eccessive difficoltà, a rinunciare alla loro vita contemplativa. Da qui due matrimoni e numerosi figli e nipoti..."



Quatriglio conservò più di un dubbio sulla fondatezza di questa leggenda sul ripopolamento di Lampedusa, "se è vero che soltanto Ferdinando II - notò nell'articolo - riuscì nel 1843 a trapiantare nell'isola una colonia stabile di alcune centinaia di persone...". Da parte sua, il capitano William Henry Smyth dopo quella missione a Lampedusa lasciò preziose testimonianze del lavoro cartografico compiuto nel Mediterraneo a bordo dell'"Adventure". Nel 1823, pubblicò a Londra "The Hydrography of Sicily, Malta and the Adyacent Islans"; nel 1854, fu la volta di "The Mediterranean", contenente ben 27 carte delle coste siciliane. Il suo legame con la Sicilia - comune per parte dell'Ottocento a molti viaggiatori e commercianti inglesi, gran parte dei quali legati a logge massoniche -  è testimoniato anche da alcuni aspetti di vita privata. Nel 1815 sposò infatti a Messina Eliza Ann Warington, da cui ebbe un figlio: Charles Piazzi, così chiamato in nome dell'amicizia stretta a Palermo nel 1821 con Giuseppe Piazzi.    


domenica 13 novembre 2022

IL MOTTO DANTESCO DELLA MERIDIANA DI PALAZZO ADRIANO

Foto
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Fra i molti buoni motivi per scoprire Palazzo Adriano, fra le colline ed i rilievi dei monti Sicani, vi è quello di un patrimonio urbanistico ed architettonico che ha il suo centro nella scenografica piazza Umberto I. Qui a meritarsi la scena è la famosa fontana ottagonale sorta nel 1608, opera idraulica che ancora testimonia la ricchezza di acqua di un paese che in età borbonica ospitò una ben attrezzata cartiera. I principali edifici monumentali palazzesi contornano la piazza; in ciascuno, un occhio attento ai particolari può scoprire dettagli architettonici che suscitano sorpresa e curiosità. Chi fu ad esempio l'autore della meridiana datata 1878 posta all'esterno della chiesa Maria Santissima Assunta ed in cui è scolpito il motto dantesco "Il perder tempo a chi più sa più spiace"?, un detto che l'autore de "La Commedia" utilizzò nel III canto del Purgatorio? La domanda rimane senza risposta, giustificando così la proposta di gettare qualche luce sulla poco studiata rassegna degli orologi solari presenti nell'edilizia storica in Sicilia



Nelle intenzioni del suo ignoto architetto, l'esortazione dantesca visibile nella meridiana a Palazzo Adriano - un proverbio toscano presente in altri autori di quella regione - potrebbe riallacciarsi alla presenza del potere baronale esercitato in paese nel secolo XVI dai pisani Opezzinghi: una tesi certamente frutto di semplice suggestione, ma che può trovare alimento in Sicilia dal gioco degli infiniti rimandi della sua storia. 


 

domenica 6 novembre 2022

IL RE ARCHEOLOGO CHE VISITAVA LA SICILIA IN TAXI

Gustavo VI re di Svezia
impegnato nelle ricerche archeologiche
nel sito ennese di Serra d'Orlando.
Foto esposta all'interno
del Museo Archeologico di Aidone


Appassionato dalla civiltà etrusca, laureato in archeologia all'Università di Uppsala e con un curriculum ricco di specializzazioni e dottorati "honoris causa" accumulati fra Atene, Cambridge, Yale, Princeton e Chicago, a partire dagli anni Cinquanta e fino al 1968 Gustavo VI re di Svezia ebbe più volte modo di visitare la Sicilia. Buon conoscitore dell'italiano, grazie alla fondazione ed alle donazioni all'Istituto Svedese di Studi Classici a Roma, Gustavo VI nel 1955 ebbe un ruolo fondamentale nell'avvio dei primi scavi nel sito ennese di Morgantina. La campagna di ricerca archeologica fu allora condotta dall'Università di Princeton, sotto la direzione di Richard StillwellErik Sjoqvist, amico del sovrano. 

L'archeologo Erik Sjokvist
al lavoro sul sito di Serra d'Orlando.
Foto esposta all'interno del
Museo Archeologico di Aidone


Lo stesso Gustavo VI colse l'occasione di visitare Morgantina, partecipando con la moglie, la regina Louise - con la falsa identità di "conti di Gripsholm" - all'attività di ricerca sul campo; una passione esercitata nell'Isola anche nell'area archeologica di Gela. Di lui, si ricordano i modi informali - il giornalista Carlo Laurenzi all'epoca ne sottolineò "la trasandata raffinatezza", evidenziata dagli abiti in tweed e dai vecchi calzettoni in lana - e gli spostamenti nell'ennese in taxi e bicicletta. Due fotografie proposte da ReportageSicilia sono esposte all'interno del Museo Archeologico di Aidone.  

Reperti di Serra d'Orlando
all'interno del
Museo Archeologico di Aidone.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Mostrano Gustavo VI ed Erik Sjoqvist impegnati in uno scavo nell'area di contrada Serra d'Orlando, nell'aprile del 1963. Oggi ad Aidone il ricordo di quella presenza regale si tramanda nel racconto degli anziani; l'area archeologica deve nel frattempo fare i conti con le razzie dei tombaroli provenienti soprattutto dalla vicina provincia di Catania

mercoledì 2 novembre 2022

ORGOGLIO E SOLITUDINE DEGLI ULTIMI ARISTOCRATICI PALERMITANI IN UN REPORTAGE DI CORRADO STAJANO

Lo studio palermitano
del barone Corrado Fatta della Fratta.
Le fotografie riproposte dal post
corredarono nel 1964
un articolo di Corrado Stajano
sull'aristocrazia palermitana.
Opera citata nel testo


"Fieramente critici verso il mondo contemporaneo che giudicano privo di umanità, i nobili siciliani si difendono con dignitoso e sereno silenzio. Il nostro inviato che li ha incontrati nelle loro splendide case conclude con questa puntata la sua avvincente serie di ritratti che dipingono un mondo ormai al limite del tempo"

Con questo sommario, il settimanale "Tempo" dell'undici novembre del 1964 pubblicò un reportage che raccontava la vita degli esponenti della vecchia classe aristocratica palermitana del tempo. Il tema, fino ad allora ignorato dalla stampa italiana, era diventato improvvisamente d'attualità dopo la notorietà postuma acquisita da Giuseppe Tomasi di Lampedusa e dal suo romanzo "Il Gattopardo" pubblicato nel 1958, pochi mesi dopo la morte dello scrittore. Autore del reportage realizzato fra i più noti esponenti delle famiglie della nobiltà palermitana fu Corrado Stajano: lo scrittore e giornalista siciliano per parte di padre, assai vicino a certe quotidianità dell'Isola ( "Appena arrivavo a Noto correvo al Caffè Sicilia. Tano, il vecchio cameriere, mi portava subito, su un vassoietto, senza dirgli parola, il mio gelato preferito, la pagnottella, crema alla vaniglia profumata con acqua di cannella e chiodi di garofano, cubetti di scorza di limone e arancia candita, pan di Spagna inzuppato con bagna aromatica", ha ricordato Stajano in "Patrie smarrite", Garzanti, 2001 ). La galleria dei nobili raccontata dal giornalista comprese i nomi dei baroni Luigi "Lulù" Bordonaro di Chiaramonte Corrado Fatta della Fratta e del conte Ernesto Perrier de Laconnay: personaggi di un mondo destinato a prossima scomparsa, cancellato dalla storia di Palermo - in quegli anni in mano al sindaco Salvo Lima - vittima del sacco edilizio e sociale ordito dalla politica e dalla imprenditoria mafiosa.

Le opere d'arte nella villa
del barone palermitano
Luigi Bordonaro di Chiaramonte 


"Nella vecchia città - notò nel reportage Corrado Stajano - le scavatrici lavorano notte e giorno. I quartieri mutano volto, gli antichi palazzi cadono a pezzi, vittime dell'incuria di secoli, vittime della speculazione privata dalle mani lunghe. Dappertutto, sorgono le case nuove, le case-alveari per l'uomo-massa, uguali a quelle di Milano, Rimini, Spotorno. E ogni volta che, dalle strade urlanti, piene di fracasso e di gratuito rumore, sono arrivato nella quieta casa dove abitano "gli ultimi Gattopardi", i personaggi di questo mondo al limite della storia, ho sempre provato un senso di straordinaria quiete, di freschezza. Nelle loro case riescono veramente a difendersi dal mondo".

Il primo incontro di Stajano avvenne in una villa del Settecento accanto al Parco della Favorita: la sontuosa abitazione del barone  Bordonaro di Chiaramonte. Gli si presentò tutto vestito di celeste, con un eloquio "solenne come quello di un vescovo sul pulpito", baffi e capelli neri impomatati, il viso simile a quelli di certi personaggi secenteschi dipinti da Velasquez. "Al collo porta un fischietto d'argento, vi soffia dentro - notò il cronista - e dalla porta che dà sul giardino entrano di corsa sette cani: girano scatenati per la stanza, poi si accucciano quieti, sembrano anche loro incantati dal padrone". Stajano non potè non sottolineare la quantità di opere d'arte conservate dal barone: quadri di Filippo Lippi, Lorenzo Monaco, Van Dick, Brueghel, in mezzo a pale senesi, mobili Luigi XVI e Direttorio, oltre a decine di vetrine con ceramiche di varie epoca e provenienza.

Il barone Bordonaro di Chiaramonte
con alcuni ospiti ed alcuni dei suoi cani


"Io sono un uomo felice. Io non sono un uomo antico - si presentò il padrone di casa - ma un personaggio del Duemila. Io sono un uomo a sé stante, io sono una classe sociale. Ho coscienza di quello che può accadere. Non ho illusioni. A me non interessa la politica, mi disgusta. Il mondo progredisce, il mondo corre a braccia spalancate verso il comunismo. D'altra parte è normale che sia così. Qualsiasi gesto è inutile, sarebbe come una goccia nell'oceano. Io, poi, indipendentemente da ogni adesione ideologica, sono per le dittature, detesto il disordine, sono una persona quadrata, sono per la logica. Mi occupo ogni giorno della mia casa - spiegò all'ospite - vado a caccia con i miei cani, mi diverto, non vedo nessuno, sto solo in mezzo alla natura, poi torno qui a guardare di nuovo la mia casa, con compiacimento, con gioia. Osservo i quadri, di un'occhiata ai vasi e alle ceramiche chiuse nelle vetrine, sposto un mobile, lo ammiro..." Quindi il barone, trasformatosi nell'aspetto "in Carlo V alla battaglia di Muhlberg dipinto da Tiziano", guidò Stajano attraverso le decine di stanze della sua villa-palazzo verso il parco della villa. Da qui, indicò all'ospite con accoramento e con pena un edificio nuovissimo, dalle grandi vetrate illuminate, distante poche centinaia di metri. "E' il nuovo ospedale sorto con uno dei soliti criteri di modernità - scrisse il giornalista - alle spalle del pronto soccorso di Villa Sofia, una villa di stile liberty inglese, molto armonica e dignitosa: il fabbricato aveva il compito di ingrandire la vecchia infermeria e ha creato solo un pasticcio architettonico di prim'ordine. Stridente e ridicolo, accanto alla villa liberty che doveva, in verità, essere trattata con maggiore rispetto".

Stajano incontrò quindi il barone Corrado Fatta della Fratta in un palazzo a due passi dal viale della Libertà. A Palermo, si era occupato sino a qualche tempo prima dell'amministrazione del quotidiano liberale di destra "Il mattino di Sicilia". "E' un signore minuto con gli occhi penetranti e il fare gentile. Parla l'italiano - notò il cronista - senza accenti di chi è più abituato a esprimersi in francese, in inglese, in tedesco. Ha un viso impassibile, apparentemente freddo e controllato, rotto solo da minuscoli sorrisi agli angoli della bocca". Quindi Stajano ne sottolineò il valore di storico alimentato dal possesso di migliaia di libri; volumi che, malgrado le frequenti donazioni alla Biblioteca Nazionale, "rispuntano come bisce in tutta la casa". Nell'articolo, Stajano elencò le sue opere più importanti: "Ha scritto una "Storia del regno di Enrico VIII d'Inghilterra", secondo i documenti contemporanei, uscita prima dell'ultima guerra; ha pubblicato un volume sulle "Origini della Germania contemporanea fino al XVI secolo", una "Vita di John Falstaff" e uno studio su Saint-Simon. L'ultimo suo lavoro è "Du snobisme" uscito in francese nelle edizioni Buchet-Chastel nel 1961 e dedicato alla memoria di Giuseppe Tomasi di Lampedusa". La citazione dell'autore de "Il Gattopardo" diede modo a Stajano di chiedere al professore se la pubblicazione di quel romanzo avesse contribuito a far prendere coscienza ai siciliani dei propri problemi. "Non esistono lezioni - fu la secca risposta di Corrado Fatta della Fratta - noi non impariamo niente. Non credo proprio che il mondo possa cambiare: per mutarlo dovrebbero morire milioni di uomini. L'optimum sarebbe il sistema inglese. Ma per la democrazia ci vogliono i democratici. Prima sono nati i democratici, poi la democrazia. Da noi, invece, si crede nelle formule magiche, si pensa di creare il sistema senza una partecipazione dei cittadini. Il nostro Paese è uno dei infelici del mondo. Forse siamo noi che stiamo facendo le spese per la democrazia, perché in futuro possa nascere una civile convivenza... Quanto alla Sicilia, abbiamo ereditato dagli arabi il senso della morte che nasce proprio dal loro fatalismo, dall'infelicità di essere governati male e da lontano, dal fatto non vivere in uno Stato di diritto, sempre esposti all'alea di chi detiene il potere, viceré, signorotti, mafiosi, notabili... Bisognerebbe tenere la Sicilia per tre minuti sott'acqua".

Il conte Ernesto Perrier de Laconnay.
Alle sue spalle, il ritratto del nonno,
il generale piemontese che nel 1860
comandò la piazza militare di Palermo


Ultimo fra i personaggi della vecchia aristocrazia palermitani descritti sulle pagine di "Tempo" fu il conte Ernesto Perrier de Laconnay, protagonista anni prima di una polemica rilanciata da tutti i giornali italiani nei confronti Dario Fo e Franca Rame per una gag televisiva sulla mafia. Nella sua casa di via Catania condivisa con due sorelle, Stajano lo descrisse come "giocatore di poker, scapolo, gran bevitore; un aristocratico vecchio stile che è riuscito ad integrarsi nella nuova società". Proprietario dal 1954 della miniera di zolfo di Cozzo Disi, nell'agrigentino, il conte faceva infatti allora parte della commissione del Mercato Comune Europeo per lo studio dei problemi minerari. Al giornalista cui concesse l'incontro spiegò le sue origini piemontesi: il nonno generale, aiutante di campo di Vittorio Emanuele II, sposò a Palermo la figlia del principe Pintacuda. Il padre era ufficiale di carriera, anche lui rimase per molti anni come ufficiale di cavalleria e, notò Stajano, "Ernesto Perrier de Laconnay ha mantenuto qualcosa di militare in tutti i suoi gesti". L'incontro con il giornalista fu piuttosto breve, e con un atteggiamento da parte del conte che fece scrivere al giornalista: "Mi osserva con la faccia triste che deve avere avuto ai tempi della gioventù dopo i veglioni di Carnevale". In linea con questa osservazione, fece riportare sul taccuino di Stajano poche malinconiche affermazioni sulla realtà palermitana di allora: "Una volta, la città era gentile, piena di splendidi palazzi abitati da famiglie che tenevano alto il nome della casata. Anche i sindaci erano aristocratici principi, conti, baroni. Questa società si è autodistrutta. Guardi - mi dice il conte e mi mostra un libriccino con i nomi dei soci del Circolo Bellini - scompaiono tutti ad uno ad uno e non c'è nessuno fra i giovani che li sostituisca. E' la piccola borghesia, con la mentalità degli usurai di paese che ha preso il loro posto, scavalcando anche la borghesia professionale". Finita la dolente descrizione dell'inevitabile declino dell'aristocrazia palermitana, il conte si alzò di scatto dalla sedia, dando militarmente la mano al suo interlocutore. "Sembra uno degli ufficiali invitati al gran ballo del "Gattopardo"", sottolineò Stajano.

 



martedì 25 ottobre 2022

MESTIERI, FEDE E SUPERBIA BARONALE NELLE MATTONELLE MAIOLICATE

Mattonella maiolicata
indicante la proprietà di un edificio rurale
a Misilmeri.
Foto
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


"E' un oggetto umile, di uso comune, che può trovarsi dovunque. Il suo destino naturale è di essere calpestato sotto i piedi. Eppure la mattonella maiolicata - scrisse Beppe Fazio sulla rivista "Sicilia" edita da Flaccovio Palermo nel giugno del 1963 - può raggiungere le più nobili espressioni decorative. In Sicilia è una delle forme di artigianato più tipiche e saporose. Dal pavimento, sua sede abituale, il mattone dipinto sale su per le pareti delle chiese e dei palazzi; ad un angolo di strada, fa da sfondo ad una cappelletta che luccica al sole, riveste la spalliera ad un sedile, adorna una fontana, protegge il muro esterno di un'abside, sottolinea un cornicione, una lesena, o magari, isolato, diviene un segno di possesso su una vecchia casa o indica un numero civico. Dovunque nel suo splendore di materia liscia, smaltata, pone una nota di richiamo, di allegria, sulla superficie severa di un muro. Spesso costituisce una sorpresa di bellezza nello squallore di un edificio in rovina. In quei conventi, in quei castelli ridotti dal tempo un cumulo di macerie, che così spesso si ritrovano nelle campagne di Sicilia, fra gli sterpi e il pietrame, ci si imbatte nel levigato luccicare di un gruppo di mattonelle dipinte, unico indizio ormai di nobiltà e di antichità. Esse segnano un'epoca o un culto speciale... Queste geometriche terracotte dipinte sono preziosi, se pur modesti, segni di civiltà, o almeno di particolari presenze; indicano un mestiere o una fede o una superbia baronale..."

lunedì 24 ottobre 2022

BUFALINO E IL "VIZIO SOLITARIO" DEL VIVERE IN SICILIA

Palermo, quartiere Albergheria.
Fotografia di Roberto Collovà,
tratta da "Palermo viva" di 
Silvana Braida Santamaura
( Rotary Club Palermo Est, 1972 )


Sul tema del rapporto dei siciliani con la Sicilia - rapporto in cui convivono gli opposti di una rabbiosa insofferenza e di un morboso attaccamento - a partire da Tomasi di Lampedusa si sono espressi tutti coloro che hanno scritto dell'Isola e del carattere dei suoi abitanti. Lo ha fatto più volte anche Gesualdo Bufalino, con quella magmatica capacità di scrittura che gli consentiva di descrivere fatti e stati d'animo - a dirla con Enzo Siciliano - con "vibrante pigmentazione verbale". In "La luce ed il lutto" ( Sellerio editore Palermo, 1988 ), si legge

"Capire la Sicilia significa dunque per un siciliano capire se stesso, assolversi o condannarsi. Ma significa, insieme, definire il dissidio fondamentale che ci travaglia, l'oscillazione fra claustrofobia e claustrofilia, fra odio e amor di clausura, secondo che ci tenti l'espatrio o ci lusinghi l'intimità di una tana, la seduzione di vivere la vita con un vizio solitario"

  

giovedì 20 ottobre 2022

UNO SGUARDO DALL'ALTO SULLA MASSERIA FIRRIONELLO

La masseria Firrionello,
nei pressi di Scillato.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Magnifico esempio di architettura rurale siciliana, la masseria Firrionello si impone con la suoi bassi ma compatti volumi su una collina che domina la vallata che, tagliata in due dall'autostrada Palermo-Catania, separa i paesi di Scillato e Caltavuturo. Da anni, le strutture di questa masseria, attualmente di proprietà di una famiglia palermitana, resistono con caparbietà ad un sostanziale abbandono; e poiché la loro visita è impossibile, possono essere ammirate soltanto dall'alto, specie dalla sovrastante e disastrata strada statale 643 che da Scillato conduce a Polizzi Generosa.  Per comprendere la composizione di questa masseria di probabili origini secentesche, è preziosa una descrizione di questa tipologia di edifici fatta dall'etnologo e sociologo madonita Mario Giacomarra:

"Vera e propria testimonianza storica della vita e del lavoro negli antichi feudi è la masseria. Insediamento tipico del latifondo - si legge in "Le Madonie, culture e società", edito nel 2000 dall'Ente Parco delle Madonie - essa era costituita da un cortile ( bagghiu ) e da edifici che lo circondavano lungo tre, quattro lati: quello centrale, dirimpettaio all'ingresso ad arco, fungeva da dimora dell'antico feudatario ed era perciò il più rifinito ( a due piani, con balcone e finestre a vetri, e con servizi adeguati ): i due laterali non andavano oltre il piano terra, con tetti spioventi verso l'interno, ed erano costituiti da magazzini, ripostigli per gli attrezzi, luoghi di lavorazione dei prodotti di campagna ( frantoi e palmenti ). Il lato anteriore comprendeva, oltre all'ingresso ad arco munito di pesante portone, locali destinati all'alloggio provvisorio di braccianti e contadini nei periodi di lavoro prestato nel feudo...



Casamenti di antichi feudi, alcune risalenti a secoli ormai lontani, o complessi edilizi successivi all'abolizione della feudalità, le masserie conservano ancora l'aspetto di luoghi fortificati, in apparente stato di difesa continuo, con alte mura e poche minuscole finestre, elevate e munite di inferriate. L'esaurirsi dell'economia latifondista ne ha quasi del tutto annullato la funzione originaria e di molte non restano ormai che ruderi..."