sabato 21 settembre 2024

IL FALLIMENTO DELL'INDUSTRIA DEL COTONE NEL SECONDO DOPOGUERRA

Operaia al lavoro
in un cotonificio siciliano
alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso.
Le fotografie del post sono tratte
dalla rivista "Documenti di vita siciliana",
opera citata nel post


"In Sicilia, nella quasi generalità dei casi, la raccolta del cotone viene fatta alla carlona: non solo, ma poiché solitamente la raccolta si svolge in tre riprese, i nostri cotonicoltori mescolano le varie produzioni riunendo a quella ottima della prima raccolta ( chiamata "primo fiore" ) la fibra di scarto delle ultime raccolte, sicché tutta la massa finisce con l'essere deprezzata... Pur se le condizioni climatiche e pedologiche sono, in generale, favorevoli ad un economico sviluppo della cotonicoltura siciliana, possiamo affermare senza tema di smentita che la ragione prima per la quale i filatori italiani non ricercano, deprezzano e spesso rifiutano la nostra produzione, dipende principalmente dalla cattiva raccolta ( fibra sporca, non omogenea, immatura, umida ) . La produzione siciliana ancora non presenta quelle condizioni merceologiche richieste dagli industriali cotonieri, dato che, oltre a presentarsi sporca, la nostra produzione è un prodotto ibridato di una popolazione di stirpi di molte "coltivar" diverse, con fibre morte o immature, perché male raccolta, male sgranata, difformemente imballata e difficilmente classificabile e commerciabile... Da quanto si è detto non si deve dedurre che la crisi della cotonicoltura siciliana sia da attribuire a colpa diretta ed esclusiva dei nostro cotonicoltori: sarebbe ingeneroso oltre che immeritato. Però si deve senz'altro ritenere che una più oculata coltivazione del cotone, condotta abbandonando metodi vecchi di secoli che non hanno più ragione di esistere in un'epoca in cui la concorrenza regna sovrana, pur se non avesse potuto scongiurare la crisi, l'avrebbe resa sicuramente meno pesante e meno drammatica..."






Così il giornalista Tonino Zito riassunse in un reportage pubblicato nell'aprile del 1961 dal periodico della Presidenza della Regione "Documenti di vita siciliana" i limiti strutturali nella produzione del cotone nell'Isola. All'epoca, la superficie della Sicilia destinata alla coltivazione - soprattutto nel nisseno e nell'agrigentino - era stimata in circa 40.000 ettari, contro i circa 88.000 degli anni successivi al periodo 1861-1865, allorché la guerra di Secessione americana bloccò le produzioni in quelle zone cotoniere. Durante i primi cinque decenni del Novecento, non erano mancati i tentativi di regolamentare con criteri scientifici la coltivazione della pianta in Sicilia. Il professore Francesco Bruno, direttore dell'Orto Botanico di Palermo, aveva introdotto l'Acala, una delle varietà di cotone più adatte all'ambiente dell'Isola. Furono poi diffuse nuove coltivar più precoci e produttive, la Stoneville e la Texas. Nel secondo dopoguerra, un gruppo industriale di Novara nel tentativo di supportare la produzione siciliana distribuì migliaia di quintali di semente americana di origine controllata. Si trattò però di tentativi isolati di miglioramento delle tecniche colturali, frutto di singole iniziative e non dell'opera delle Stazioni Sperimentali del Cotone - mai avviate - la cui istituzione era stata prospettata nel febbraio del 1949, quando si costituì l'Ente Fibre Tessili Siciliane. Grazie ad accurate sperimentazioni, questi laboratori avrebbero dovuto avere il compito di selezionare le varietà più adatte ai terreni ed alla clima della regione.   La certosina analisi documentaria compiuta da Zito evidenziò l'improvvisazione di gestione di un comparto agricolo potenzialmente d'eccellenza, che pure assegnava in quegli anni alla Sicilia il 90 per cento della produzione nazionale ed il 7 per cento del bisogno della filatura italiana. 



L'arretratezza dei metodi di coltivazione del cotone - che necessita di accurate arature su terreni soffici, di buona filtrabilità e igroscopicità -  venne così all'epoca illustrata dal giornalista:

"Una volta messi a dimora i semi del cotone, bisogna procedere alla "compressione" del terreno. In Sicilia si fa ricorso ad una pratica plurisecolare, forse introdotta dagli arabi: si adopera un attrezzo ( a Gela lo chiamano "tavolone" ) lungo un paio di metri e sufficientemente largo, il quale viene trainato ordinatamente da muli. Passando e ripassando sul terreno seminato da poco, lo comprime facendo risalire per capillarità l'umidità sottostante. Queste modalità di semina debbono essere necessariamente eseguite, poiché la semina costituisce un'operazione delicatissima: infatti la stentata o mancata germinazione costituisce la maggiore alea che corrono i cotonicoltori ed è la principale causa del mancato estendimento della coltivazione del cotone. A questo punto, quando le piante saranno spuntate, si dovrà procedere al diradamento per sollecitare attorno alle piante la produzione del maggior numero di capsule per ettaro. E il lavoro non è ancora terminato nella cotoniera, poiché si dovrà poi procedere alla così detta cimatura che serve, come la potatura della vite, a concentrare la linfa verso le branche produttive onde aumentare la grossezza ed il numero delle capsule. Tutti questi lavori, ripetiamo, fanno crescere ulteriormente il costo della coltivazione, perché qui in Sicilia si sconosce l'uso della meccanizzazione lungo l'arco dell'intero processo produttivo..."


Da qualche anno, la Sicilia ha riavviato la produzione di cotone con criteri più moderni, grazie ad iniziative private che promettono di sfruttare le energie rinnovabili e di estendere le coltivazioni a 1.000 ettari: una seconda possibilità per sfruttare in futuro una delle risorse agricole siciliane in passato poco e male valorizzate.


     

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