"Questa è la storia di un articolo che non ho scritto, e di tre giorni di fine settimana. Dunque, dovevo visitare Caltanissetta: questa città chiusa dentro la Sicilia, lontana dai grandi centri, separata da Palermo, la capitale, da una rete antidiluviana di strade pessime, dove l'asfalto è tutto smangiato, e sono più le buche che i pezzi di strada sana; e scriverne un pò di colore, qualche notazione sugli alberghi, sui ristoranti, sui monumenti, sull'ospitalità della sua gente, sui suoi costumi più tipici, sui suoi dintorni. Così ero contento, perchè visitare una città in questo modo è piacevole. Basta comportarsi come turisti, andare in giro un pò pigri e un pò curiosi, osservare, scambiare dei discorsi qua e là. Ecco tutto, e poi mettersi a scrivere affidandosi ai ricordi, alle impressioni visive".
Un simile attacco - che è anche un perfetto manuale del mestiere giornalistico - ispirò l'articolo che Giuseppe Tarozzi scrisse nel settembre del 1962 sul mensile 'Le vie d'Italia' del TCI: a conclusione, appunto, del suo primo viaggio a Caltanissetta, oggetto di un reportage che non nascose la delusione suscitate dalle 'impressioni visive' del capoluogo nisseno.
Tarozzi arrivò a destinazione alle undici di un mattino ferocemente estivo, in treno: il peggiore dei viaggi possibili - oggi come allora - nella Sicilia interna, al termine del quale fu accolto da "un sole fortissimo e una luce violenta, abbacinante".
Il racconto racconta l'assenza di taxi, e l'impossibilità di fare una doccia, in un albergo con problemi di rifornimento idrico e con vista su "una sfilata di tegole grige, uniformi; e poi, interni di poveri cortili e vie strette", e su "un corteo di seminaristi, neri, silenziosi, guidati da un anziano e ossuto prete".
E analoga impressione "di una vita che batte lentissima, ad un ritmo cui non sono più abituato" - i ritmi di altre città di provincia italiane, Pavia, Reggio Emilia, Vicenza, "dove qualcosa di nuovo succede sempre" - la colse nel pomeriggio dello 'struscio' domenicale: la passeggiata delle famiglie lungo corso Umberto I, tra vetrine mal illuminate e muffite, e con la gente che "cammina lentamente, strascicando i piedi, guardandosi intorno con aria pigra, sfiorandosi, salendo e scendendo dal marciapiede, fermandosi ogni tanto a sottolineare una frase di quello che sta dicendo, a salutarsi".
Con Leonardo Sciascia - nella libreria dell'editore Salvatore Sciascia - Tarozzi cercò di confrontare le sue impressioni, di chiedere conto di quella povertà immobile, "di una città che non nasconde nulla, che sul proprio conto non racconta bugie, dove quello che è, lo si vede subito, al primo sguardo".
Dall'autore de 'Il Giorno della civetta', avrebbe raccolto risposte nette, riassunte senza alcuna possibilità di sfuggire alla laconica logicità sciasciana: "no, di qua non vado via. Qua ho le mie radici e le mie ragioni. Qui posso servire a qualcosa" .
A spiegare la logica dell'immobilismo nisseno, in quell'estate del 1962, il reportage offrì il sicuro anello d'approdo dei numeri, delle percentuali cui fissare i parametri oggettivi della povertà: 60.000 abitanti, 13.000 iscritti all'elenco comunale dei poveri, "un imprecisato numero di disoccupati ed il 23 per cento di analfabeti".
A rileggere quell'articolo - ed a riguardare le fotografie che lo corredano - ci si rende oggi conto della povertà antica di Caltanissetta, degli intoccati e colpevoli ritardi che ancori oggi relegano il capoluogo nisseno agli ultimi posti delle classifiche nazionali del reddito e della così detta 'qualità della vita'.
E se pure, da anni ormai, una sia pur ormai vecchia autostrada risparmia le sofferenze di un viaggio in treno, la visita di Caltanissetta trasmette ancor oggi l'impressione riportata dal reportage di Giuseppe Tarozzi.
"Mi accorgo - confessò a se stesso ed ai lettori, 46 anni fa - che non potrò scrivere un articolo di colore su questa città. Un articolo del genere, qui, non avrebbe senso, sarebbe una bugia. Fra l'altro, non sarei neppure capace di scriverlo. Si fa presto a dire, ma alla fine è sempre la realtà che vince".
( le fotografie, dall'alto in basso, sono accreditate - le prime due - a Publifoto e Quiresi; la terza e la quarta ad Anfosso)
Io ci sono capitato per molti mesi, dal nord mi sono trasferito a caltanissetta.
RispondiEliminaNon ho mai patito così tanto in vita mia:
un disfattismo unanime, una bruttura estetica delle persone, una voglia di non far niente dilagata, cattiverie, voglia comune di mettere sempre zizzanie tra di loro; per non parlare dei servizi: una disperazione!
Se hai bisogno di qualcosa tutti ti lascerebbero crepare se non intuiscano che tu possa ricambiarli in denaro.
Tutti che buttano carte per terra, sputano sui marciapiedi, urlano per le strade, ti guardano in malomodo perchè sei vestito elegante.
Eppoi i prezzi: mica vero che sono più bassi!
Sono come al nord, apparte il pesce che lì costa meno.
Però ci sono alcune persone stupende, e parlo di quelle donne attempate che nessuno mai le penserà perchè nessuno mai le ha considerate: sono quelle donne che dividerebbero l'unico pezzo di pane con te pur di farti un dono, quelle donne che dividerebbero la loro casa con te per aiutarti e non poter darti altro.
A caltanissetta non ci tornerò mai più, neanche nei miei sogni spero, perchè mi ha macchiato l'animo.
E mi dispiace per chi lì ci vive, vorrei solo poter non aver mai visto come...
Embeh!!
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