mercoledì 29 agosto 2012

MARETTIMO, UNA STORIA CALIFORNIANA

Padre e figlio in una barca da pesca dinanzi l'azzurro accesso della grotta del Cammello, a Marettimo.
La storia di immigrazione dei pescatori della più lontana delle isole Egadi è un capitolo a parte nelle vicende dei flussi migratori dalla Sicilia all'estero: prima e subito dopo il secondo conflitto mondiale, i marettimari hanno messo a frutto la propria abilità
in Alaska ed in California.
La fotografia è tratta dall'opera "Il libro dei giorni italiani-Le isole felici", edita da ENIT nel 1966 
Si trasferivano in Sicilia a metà maggio, quando i colori dell’isola delle Egadi si riempiono dei prepotenti profumi dell’estate.
Da Palermo, si imbarcavano per un viaggio lunghissimo, che li avrebbe portati in un luogo dove i panorami erano dominati dai ghiacci e il mare, freddissimo, accoglieva cinque sistemi fluviali ricchi di pregiato pesce: il salmone rosso. Poco prima del 1940, alcuni pescatori di Marettimo scoprirono cioè in Alaska un luogo – Bristol Bay - dove mettere a frutto la loro esperienza nell’attività ittica e di conservazione del pesce.

Il porticciolo di Marettimo in una fotografia tratta dall'opera "Il mare dentro" di Giovanni Pitruzzella e Mario Perricone,
edita da Arpa Regione Siciliana nel 2005.
La storia dei pescatori dell'isola trasferitisi sulle coste del Pacifico e nel mare di Bering è raccontata in questi giorni da una mostra allestita dall'Associazione C.S.R.T Marettimo in piazzetta dello Scalo Vecchio
Erano trasferte durissime, e della durata di circa due mesi lavorativi; i marettimari però avevano una tempra robusta, abituata a sopportare tutto l’anno lunghe battute di pesca sino alle acque tunisine. Il mercato del salmone rosso, poi, assicurava profitti allora irrealizzabili nelle Egadi: i due mesi di lavoro in Alaska, insomma, garantivano la sopravvivenza a Marettimo nel resto dell’anno.
Quella della pesca al salmone nel mare di Bering è forse il capitolo meno noto nella girovaga storia dei pescatori di Marettimo di qualche decennio fa; un’immigrazione professionale che toccò anche la Tunisia, il Portogallo e la Spagna.

A Monterey, in California, i cognomi Ferrante, Costa, Mineo, Lucido, Sanfilippo, Spadaro, Cusenza e Bommarito testimoniano ancor oggi il flusso di immigrazione che a partire dal 1948
fece allontanare da Marettimo e da altre borgate marinare siciliane decine di famiglie.
L'immagine di alcuni pescatori marettimari seduti al tavolo di un caffè di Monterey è tratta da
  http://www.montereycountyweekly.com/news/2011/feb/10/old-men-and-no-sea/
L’esodo più conosciuto si palesa però ai visitatori dell’isola già allo sbarco in porto, grazie all’indicazione toponomastica di uno slargo denominato ‘piazzetta Monterey’. I marettimari vi spiegheranno allora che l’altra parte di concittadini – circa 1400 persone – è da anni residente nella città della California settentrionale, nei luoghi descritti in tante pagine di John Steinbeck.
L’emigrazione di massa verso quella costa del Pacifico ebbe inizio dopo il 1945, quando le condizioni delle Egadi erano di totale isolamento rispetto alla stessa Sicilia. La capacità lavorativa dei marettimari non mancava; i pescherecci della locale flotta superavano le quaranta unità, oltre alle paranze ed alle piccole barche. Ogni imbarcazione dava lavoro a centinaia dei 1200 abitanti dell’isola ed ogni famiglia aveva insomma di che vivere. Di contro, l’assenza delle infrastrutture penalizzava lo sviluppo delle attività ittiche: i proventi delle battute di pesca non ripagavano i sacrifici in mare ed a terra di gran parte della comunità.

Poco prima del secondo conflitto mondiale, la baia di Bristol Bay attirò i primi pescatori di Marettimo.
La pesca al salmone rosso - praticata da metà maggio e sino alla fine di luglio - assicurava loro guadagni allora irrealizzabili nelle Egadi.
L'immagine è tratta da http://www.bristolbaysockeye.org/
A Monterey, ma anche a San Francisco ed a San Pedro, i pescatori di Marettimo – abituati a riempire le loro stive di sardine, tonni, ricciole, saraghi, dentici ed aragoste – diventarono abilissimi cacciatori di calamari e tonni oceanici. Anche le industrie conserviere di Monterey – la “Peninsula Packing Company” o la “Oxford Canning Company” – negli anni Cinquanta diedero lavoro a decine di dipendenti di cognome Ferrante, Costa, Mineo, Lucido, Sanfilippo, Spadaro, Cusenza, Bommarito: tutti pescatori o figli di pescatori marettimani, oppure loro colleghi provenienti dalle flotte pescherecce di Isola delle Femmine e San Vito Lo Capo.

Una fotografia del porto di Marettimo firmata ENIT e pubblicata
nel febbraio del 1955
dalla rivista del TCI "Le Vie d'Italia".
Erano gli anni del pieno esodo dei pescatori locali dall'isola, dove, prima del 1940, erano ancora attivi una quarantina fra pescherecci,
paranze ed altre barche da pesca.
L'assenza di infrastrutture a mare ed a terra fu un fattore determinante per convincere gran parte dei pescatori marettimari
a cercare fortuna
in Alaska ed in California
Ancora oggi, Monterey e Marettimo conservano legami parentali e storici di tanto in tanto alimentati da visite dei rispettivi sindaci ( che per Marettimo – i cui residenti anni fa condussero una vana battaglia per il riconoscimento dello status di Comune – è quello di Favignana ). Nella città californiana esiste una “via Marettimo”, ed ogni anno l’intera comunità di immigrati dall’isola si riunisce per il “Santa Rosalia Fishermen’s Festival Queen”.
La storia dei pescatori marettimari che hanno continuato la loro attività sul Pacifico è raccontata in queste settimane all’interno del piccolo Museo del Mare allestito dall’Associazione C.S.R.T Marettimo, in piazzetta dello Scalo Vecchio.

Ancora una fotografia di Marettimo proveniente
dagli archivi ENIT
e pubblicata da "Le Vie D'Italia" nel febbraio del 1955.
Il rapporto fra l'isola delle Egadi e la sua storia di emigrazione
verso la California è testimoniata
dalla toponomastica locale, che accoglie una 'piazzetta Monterey'
























La mostra raccoglie fotografie, documenti cartacei ma anche filmati dedicati alle vicende di quei tanti isolani che in passato hanno abbandonarono le azzurrissime acque delle Egadi; quasi una storia a parte nelle complesse e spesso travagliate cronache dell’emigrazione siciliana nel mondo.

Uno scorcio di barche a Marettimo in una fotografia di Josip Ciganovic
pubblicata nel II volume dell'opera "Sicilia"
edita da Sansoni nel 1962





lunedì 27 agosto 2012

I SICILIANI DI FERDINANDO MILONE


Un’anziana donna con il volto solcato dalle rughe e con un pesante vestito nero, ad incorniciare un ciuffo di capelli bianchi. La fotografia, intitolata “vecchia isolana” ( e forse scattata a Levanzo, sullo sfondo di punta Pesce ), è tratta dal libro “Sicilia- La natura e l’uomo” scritto dal geografo napoletano Ferdinando Milone per Paolo Boringhieri nel 1960.
Nell’elenco delle illustrazioni fuori testo, l’immagine – della quale non si indica l’autore – viene così commentata: “il sole, l’acqua, il vento, ma specialmente il pensiero dei figlioli fanno di terracotta il volto delle madri siciliane”.
ReportageSicilia ripropone una selezione dei 40 scatti che corredano il volume, scegliendoli fra quelli che – insieme ad immagini aeree della Sicilia, di antichi monumenti e dei paesaggi dell’isola - raffigurano alcuni siciliani del secondo dopoguerra.

"Il minatore si avvia alla sua pena quotidiana. Oggi, un pò meglio di ieri. Il Pitrè ci ricorda la nenia con cui i carusi accompagnavano i loro venti viaggi giornalieri, nei lunghi cunicoli, col grave carico dello zolfo, 'quattru li vaiu a pigliu, ed è daùra, sirici mi nni restanu di pena; cincu li vaju a pigliu, ed è daùra, quinnnici mi nni restanu di pena', e così via di ora in ora sino all'ultimo viaggio, quando 'chi lustru chi mi fa la mè lumera! Chissu è lu signu ca vaju a livari"
Molti di loro sono figure che appartengono ormai ad un passato irrecuperabile della Sicilia, specie a causa del cambiamento dei costumi sociali ed economici. Altri volti ed altre storie in essi leggibili sono invece ancora presenti, a dimostrare certe immutate fatiche del vivere nell’isola.
 “La storia siciliana – scriveva 50 anni fa Milone, con un giudizio non del tutto inappropriato ai nostri giorni – a cercare di penetrarla con uno sguardo solo, ci racconta tutto sommato che i problemi dell’isola sono rimasti gli stessi; da almeno trenta secoli a questa parte…”.
L'autore del saggio fu uno dei principali geografici economici attivi già prima del secondo conflitto mondiale.
La sua analisi circa le cause del sottosviluppo siciliano fa quindi riferimento alle condizioni naturali dell'isola; un determinismo ambientale che nasconde però altre responsabilità di quel sottosviluppo, a cominciare dalle colpe della politica e del ruolo della mafia. 
"I problemi - scriveva Ferdinando Milone nella prefazione - ... derivano, in realtà e sostanzialmente, dalle forme e natura del suolo, e dal clima. Le cattive terre di tanta parte del suo territorio la tremenda piaga della siccità estiva, che presto fa seccare anche le poche colture che quelle pur porterebbero, condizionano assai duramente la vita della gente che abita l'isola, ancora oggi a economia quasi del tutto agricola, soltanto". 
Alle fotografie si aggiungono le originali didascalie, non prive a volte di una lettura paternalistica di certi aspetti di arretratezza della società dei tempi: un limite che nulla toglie alla capacità di leggere oggi quelle fotografie cogliendovi qualche elemento di riferimento al presente di sofferenza economica della Sicilia.

"Tabaccheria. Una partita a 'scopone', alla luce del petrolio, e per il piacere disinteressato della vittoria, riunisce affabilmente la Chiesa e lo Stato, democristiani e comunisti"
"Per l'angustia delle case e il bel tempo, la vita, in Sicilia,
si svolge all'aria aperta"
"La vista si indebolisce nelle lunghe giornate al telaio, ma la sostituisce la mano sempre più esperta nell'arte appresa da bambina, al monastero. I monasteri di monache erano vere fabbriche di merletti e di dolci; i monasteri di frati erano, spesso, fabbriche di liquori"
"Alla fontana, in un paese dell'interno. Il moderno carro-botte fatto con poca spesa con un fusto di benzina porta l'acqua a chi non può venire alla fontana"
"Caltagirone, sviluppantesi su tre colli, a 600 metri sul mare, è una delle città più attive e interessanti dell'interno, per l'irregolarità della piana, la tortuosità e l'angustia delle vie e i frequenti dislivelli"
"La luminosità diffusa di Palermo, che tanto colpiva il Goethe; il gran numero di bambini e il viavai della gente; la vita all'aria aperta e le larghe mostre di scarpe, di verdura, di aringhe e sardelle; i tendoni di lenzuola sparse ad asciugare, per chi ama e comprende il popolo, rallegrano la vista"
"Festa popolare a Caltagirone: fuochi schioppettanti per le strade si levano in onore del Santo e rallegrano la popolazione dell'industre cittadina"
"Anche a Levanzo, nelle Egadi, i figlioli sono molti, le case modeste, l'alimentazione scarsa, manca l'acqua, le donne hanno gli uomini lontani, sulle navi o alla pesca. Ma grande è la fiducia nella Provvidenza, l'aria buona, e non mancano la salute ed il buon umore"
"L'attesa del piroscafo. Anche la nonna paralitica è portata alla spiaggia dai parenti o gente di buon cuore perchè possa stringere prima tra le braccia il figliolo o il nipote che torna dall'America"








lunedì 20 agosto 2012

QUANDO DAVVERO I TURCHI SBARCARONO A PALERMO

Soldati turchi pronti all'imbarco a Rodi dopo la sconfitta del 16 e 17 maggio di cento anni fa a Psithos contro le truppe italiane, nel corso della guerra
di Cirenaica e Tripolitania.
In 915 sbarcheranno il 22 maggio nel porto di Palermo per essere ospitati di campi di prigionia allestiti
a Termini Imerese, Cefalù, Corleone e Sciacca.
L'immagine - attribuita a Vetta - è tratta dal III volume dell'opera di A.Brunialti e S.Grande "Il Mediterraneo",
edita da Utet nel 1927
I monumenti e l’arte che li hanno generati raccontano la storia di una città.
A Palermo, ad esempio, le strutture esterne della Cattedrale lasciano chiaramente intendere i lasciti della cultura islamica, vecchi ormai di un millennio.
Può anche capitare però che i palermitani – con i loro modi di dire – diano testimonianza di vicende storiche locali sepolte ormai da secoli.
Una di queste espressioni è senz’altro “mi sento preso dai turchi”.
Il significato di questa frase può essere interpretato in “mi sento spaesato” o “non capisco più nulla” oppure “non riesco ad intuire cosa mi stia accadendo”. Chi afferma di sentirsi preso dai turchi, insomma, soffre una situazione di difficoltà e di pericolo.
Una fotografia della battaglia di Psithos, al termine della quale i soldati turchi prigionieri furono imbarcati
sul vapore "Sannio" e sull'incrociatore della Regia Marina "Duca di Genova", entrambi diretti a Palermo.
L'immagine riproposta da ReportageSicilia è tratta ancora dall'opera di A.Brunialti e S.Grande ed è attribuita a Zoppi
Così, ad esempio, l’autore di questo blog fu apostrofato a Palermo come “u turcu che gira qui vicino” da un’impaurita ragazzina dell’ Albergheria; stavo semplicemente passeggiando con la mia macchina fotografica tra i vicoli del quartiere, e la bambina, notandomi come un estraneo, esprimeva il timore che potessi farle qualcosa di male.
Il significato storico del disagio provocato dai turchi è da riferire all’epoca in cui – a partire dal XV secolo - – Palermo e la Sicilia erano meta delle razzie di beni e persone da parte dei barbareschi.
Si trattava dei pirati provenienti dai porti di Algeri, Tripoli e Tunisi, tutti genericamente definiti da autorità e popolo di allora come “turchi”.

Una nitida immagine del porto di Palermo dove i 915 prigionieri turchi furono sbarcati per essere poi trasferiti nei campi di prigionia isolani.
La fotografia - una stampa al carbone da lastra alla gelatina bromuro d'argento - è opera di Giacomo Brogi
ed è datata 1905
I nomi più famosi di questi predoni sono quelli di Ariadeno Barbarossa, Sinan Pascià, Ulucciali, e Dragutte; a loro – ed altri decine di altri anonimi barbareschi – si deve il ricordo delle incursioni che, fra il 1539 ed il 1583, seminarono panico e distruzione a Patti, Lipari, Augusta, Licata e Pantelleria.
Le razzie dei “turchi” colpirono anche ricchi ed illustri viaggiatori al largo delle coste siciliane.
Salvatore Mazzarella e Renato Zanca, nel saggio “Il libro delle torri” edito da Sellerio nel 1985, ricordano due casi.
“Diego Fernandez, figliolo bastardo del vicerè Villena, - scrivono - sarà catturato da fuste barbaresche mentre viaggia sul vascello “Bellina” carico di denaro e preziosi; il principe di Paternò, Giovan Luigi Moncada, non terminerà il viaggio fra Palermo e Napoli, essendo catturato presso Ustica da corsari tunisini”.
Le incursioni dei pirati andarono avanti sino alla fine del secolo XVIII, e terminarono dopo il 1830, quando la Francia conquistò Algeri.

Un disegno che ritrae Ariadeno Barbarossa,
l'ammiraglio della flotta ottomana di origini greche
protagonista di numerose incursioni barbaresche in Sicilia.
Le sue razzie alimentarono il terrore delle popolazioni costiere isolane nel secolo XVI; il loro ricordo è tramandato dall'espressione di disagio siciliana "mi sento preso dai turchi".
L'immagine è del disegnatore fiorentino David Borrani ed è tratta dal saggio "Il libro delle torri" di S.Mazzarella e R.Zanca edito da Sellerio
Tuttavia, l’ultimo e forse unico sbarco di autentici turchi in Sicilia risale a cento anni fa: a Palermo, il 22 maggio del 1912.
La vicenda nulla ebbe allora a che fare con le scorribande dei secoli precedenti; anzi, quei 915 turchi approdati all’interno del porto ebbero la sventura di mettere piede nell’isola in condizioni da prigionieri di guerra.
Le due navi da cui sbarcarono quei soldati – il vapore “Sannio” e l’incrociatore della Regia Marina “Duca di Genova” – erano partite tre giorni prima dal porto di Rodi. Fra il 16 ed il 17 maggio, quel migliaio tra gendarmi, fanti ed artiglieri turchi avevano perso sul campo nel villaggio di Psithos una battaglia che segnò le sorti della guerra italo-turca per il possesso di Tripolitania e Cirenaica.
Tra la curiosità dei palermitani accorsi sul lungomare del Foro Italico, quei soldati vestiti con divise kaki e con i fez in testa furono inquadrati in file per quattro verso il lungomare: fra di loro si contavano anziani riservisti e giovanissime leve, alcuni civili ed anche un “ulema”. Scortati dai soldati italiani del 34° Fanteria agli ordini del capitano Saracco e dei tenenti Gazzera e Fabris, i 915 turchi vennero avviati verso la Stazione Centrale e quella di Romagnolo.
Da qui, furono smistati verso campi di prigionia allestiti a Cefalù – dove furono trasferiti 444 uomini di fanteria, due capitani, due tenenti, i civili e l’”ulema” – ed ancora Termini Imerese, Sciacca e Corleone: tutti luoghi – ad eccezione di Corleone – dove nei secoli precedenti le vele dei “turchi” avevano preannunciato imminenti razzie di cose e persone.
La prigionia siciliana degli sconfitti di Psithos si concluse nell’ottobre dello scorso anno, dopo la vittoria italiana del conflitto.
Non è noto se qualcuno fra quei 915 militari ottomani abbia trovato motivi e permessi per rimanere dopo quella data nell’isola.
Di certo, il loro sbarco a Palermo si identifica come l’unico approdo di massa realmente compiuti da soldati turchi in Sicilia, e per uno status da prigionieri: una circostanza che rende ancora più ingiusta nei loro stessi confronti l’espressione “mi sento preso dai turchi”.

Un disegno della costa meridionale della Sicilia
con i "fani" alimentati dalle torre costiere di avvistamento.
Queste strutture di difesa contro le incursioni barbaresche
furono riprogettate
dall'architetto fiorentino Camillo Camilliani
alla fine del secolo XVI.
L'immagine - pubblicata nel libro di Mazzarella e Zanca - è tratta da un manoscritto del marchese di Villabianca conservato
presso la Biblioteca Comunale di Palermo



domenica 12 agosto 2012

FULCO DI VERDURA, RICORDI E GOSSIP PALERMITANI

Disegnatore di gioielli per Coco Chanel, frequentatore dei salotti parigini e dei divi di Hollywood, Fulco di Verdura è un personaggio legato alla Palermo
dei salotti del primo dopoguerra.
In questo post, ReportageSicilia ripropone stralci di un'intervista da lui concessa a Londra al quotidiano "La Stampa" nel gennaio del 1978, meno di 6 mesi prima la data della sua morte, il 15 agosto dello stesso anno.
L'immagine è tratta dal sito www.verdura.com  

“A Palermo cercavo chi avesse conosciuto Fulco di Verdura, il disegnatore di gioielli, l’amico di Coco Chanel e di tanti nel bel mondo. Al solito, un’infinità di gente sapeva tre o quattro aneddoti, sempre gli stessi e non riuscivo ad andare oltre una storia semiufficiale che lo imbalsamava in un personaggio caustico e brillante e basta”.
Con questo incipit, Stefano Malatesta dedicò nel 2000 un capitolo de “Il cane che andava per mare ed altri eccentrici siciliani” alla figura di Fulco di Verdura: un nome – il suo – agile come un cavallo da corsa, cui aggiungere però i ridondanti  attributi nobiliari di duca di Santostefano della Cerda e principe di Niscemi.

Il palazzo di famiglia di Fulco di Verdura a Palermo, in via Montevergini.
Il disegnatore di gioielli lo vide per l'ultima volta nel 1973, quando l'edificio - posizionato nei pressi della casa cittadina del Fascio - portava ancora i segni delle bombe alleate.
La fotografia è tratta dal sito www.amopalermo.com
Malatesta cercò di trarre dalla principessa G. qualche ricordo inedito sullo stilista dei gioielli vissuto tra i salotti mondani di Parigi, di Los Angeles, di New York e di Londra.
Si trattava di una frequentatrice degli stessi ambienti giovanili siciliani di Fulco di Verdura, e con un passato sufficientemente inserito nei salotti dell'aristocrazia palermitana. 
L’anziana nobildonna tuttavia deluse le sue aspettative.
Nulla ricordava del famoso disegnatore di gioielli; in compenso non perse l’occasione per consegnare a Malatesta copia di alcuni suoi racconti inediti: pagine che non citavano neppure il nome dell'artista dei preziosi nato a Palermo nel 1899 e morto a Londra il giorno di Ferragosto del 1978. In cambio di tale offerta, lo scrittore e giornalista romano tuttavia finì con l’inserire proprio quella “vecchissima signora” nella sua lista degli eccentrici siciliani.
Di Fulco di Verdura non mancano oggi notizie sparse in rete www.verdura.com  né opere letterarie che ricostruiscono la sua singolare storia di nobile palermitano passato dai salotti di Villa Niscemi a quelli dei divi di Hollywood. I suoi gioielli furono indossati infatti anche da Katharine Hepburn nel film del 1940 “The Philadelphia Story”, mentre Frank Sinatra - origini familiari palermitane, da Lercara Friddi -gli commissionò una preziosa scatola smaltata.

Una celebre immagine di Fulco di Verdura in compagnia di Coco Chanel.
Il duca e principe palermitano si trasferì a Parigi a 27 anni; dieci anni volò oltre l'Atlantico sino a New York, aprendo un suo negozio il giorno prima dell'entrata degli Stati Uniti nel secondo conflitto mondiale.
Anche questa fotografia è tratta da www.verdura.com
L’amico Cole Porter, invece, dopo avere ricevuto in regalo una scatola d’oro, eternò il nome del duca stilista nel testo del musical “Let’s Face It” ( “Liz Whitney has on her bin of manure a clip designed by the Duke of Verdura” ).


Da YouTube, un omaggio all'arte orafa di Fulco da Verdura.
Da decenni ormai il nome del disegnatore palermitano
 è diventato il marchio di un'azienda americana, la E.J. Landrigan 

Tra le opere dedicate al personaggio, segnaliamo il libro autobiografico “Estati felici, un’infanzia in Sicilia”, edito dallo stilista dapprima in Inghilterra ( con il titolo “The Happy Summer Days: A Sicilian Childhood” ) e poi pubblicato con sostanziali modifiche in Italia da Feltrinelli. Nel 2002 Novecento avrebbe quindi edito il saggio di Patricia Corbett “Fulco di Verdura, la vita e le opere di un maestro gioielliere”.
Vi sono poi numerose altre tracce utili a ricostruire la storia di Fulco di Verdura – che lasciò Palermo per la Parigi di Coco Chanel nel 1927, per poi sbarcare a New York dieci anni dopo -  ed il suo rapporto con la Sicilia.

Una locandina del film "The Philadelphia Story", prodotto nel 1940. 
Katharine Hepburn indossava in scena i gioielli realizzati
da Fulco di Verdura: una consuetudine affermatasi allora
tra molte attrici di Hollywood, tra le quali Greta Garbo e Rita Hayworth
Nell’isola, tornò per l’ultima volta nel 1973, quando il palazzo di famiglia, in via Montevergini, portava ancora i rovinosi segni dei bombardamenti alleati.
Una di queste documentazioni è contenuta fra le pagine del quotidiano torinese ‘La Stampa’ del 21 gennaio 1978, vale a dire poco tempo prima la sua morte.
In un articolo intitolato “Gattopardini a Palermo”, Gaia Servadio firmò una delle ultime interviste rilasciate a Londra da Fulco di Verdura.
“E’ sulla Sicilia – scrisse allora la giornalista - che Fulco possiede una miniera di racconti, cammei, diamanti sfaccettati che riflettono una Palermo finita. E ogni tanto, questo anziano signore esplode in dialetto palermitano, come usavano gli aristocratici siciliani, interponendolo al suo francese, al suo inglese, alla sua mimica straordinaria che riprende personaggi e brani di libretti d’opera…”.
Ed eccoli, i ricordi citati allora da Fulco di Verdura: i principali riguardano Palermo e la famiglia dei Florio, che agli inizi del Novecento fece della capitale dell’isola una fra le più mondane città europee.
La memoria dello stilista - che accenna appena agli studi liceali all'Umberto I ed all'esperienza militare da alpino - lasciò allora ampio spazio all’odierno “gossip”.
“Allora, quando ero ragazzo – racconta a Gaia Servadio – Palermo era una capitale di provincia, come per dire una capitale da operetta: chi tirava i fili delle marionette erano i Florio. Donna Franca, moglie di Ignazio, era una donna bellissima, ma ci si dimentica che Ignazio stesso era uno degli uomini più belli della sua generazione, biondo con gli occhi celesti. Le Domitille, le Floriane, le Salviati, le Arabelle, hanno gli occhi di Ignazio Florio. Com’è che si sono rovinati è un mistero. La loro fortuna era tale che non è possibile che se la siano mangiata in una generazione. Avevano compagnie di navigazione, il marsala, le zolfatare, la maggior parte delle tonnare, il teatro Massimo”.
Fulco di Verdura non risparmia poi commenti taglienti sulla famiglia Giuseppe Tomasi di Lampedusa, a lui legato da lontani rapporti di parentela. “Giuseppe Tomasi di Lampedusa – si legge nell’intervista – era tutto tasca di Cutò. Ciccio Lampedusa, zio di Giuseppe, lo chiamava ‘becco di Siviglia’, e l’altro zio ‘piedi fitusi’. Giulio, marchese di Torretta, era ambasciatore e poi c’erano le due signorine che sono nel ‘Gattopardo’. Ciccio sposò una dama di Ferrara che veniva da un casino, una brava donna. Quando Luchino Visconti girava ‘Il Gattopardo’, io gli davo consigli. In una scena, in mezzo alle comparse, c’era la figlia di Ciccio Lampedusa. La indicai a Luchino: ‘vedi, quella là è l’unica Lampedusa che resta, vera’. Beatrice Palma di Lampedusa aveva avuto invece un’avventura con Ignazio Florio, scandalosa a quell’epoca; ci furono regali e braccialetti di diamanti, per questo ci fu sempre un odio fra i Lampedusa ed i Florio, istigato dalla mamma. I Lampedusa chiamavano donna Franca ‘la signora Florio’”.
Dall’intervista pubblicata su “La Stampa”, infine, apprendiamo che Fulco di Verdura avrebbe voluto scrivere un secondo libro autobiografico, questa volta dedicato ai personaggi del bel mondo conosciuti fra Europa e Stati Uniti.
“Mi piacerebbe scrivere – rivelò - un libro sulla gente che ho conosciuto. Un capitolo su Chanel, uno sui Yusupoff: ero amico loro intimo, perché vennero a Palermo nel 1922 e poi a Parigi ero sempre da loro. Anche su Cole Porter e Rogers e Gershwin che ho conosciuto benissimo. Gli anni di Parigi, i balli in costume a casa de Beaumont e dei Noailles, delle follie senza nome”.
Meno di sette mesi dopo questa intervista, Fulco di Verdura morì.
Le sue ceneri vennero riportate in Italia da un amico inglese, dapprima a Pisa e poi a Palermo.
A questo epilogo della sua esistenza si lega un episodio che avrebbe davvero meritato di essere raccontato da Malatesta come esempio della bizzarra vita anche da morto del disegnatore di gioielli.
A Pisa, colui che trasportava  le ceneri venne fermato da un poliziotto sospettoso circa la composizione di quella polvere. “Ashes, ashes” – spiegò all’agente – che, ignorante d’inglese, trattenne per qualche minuto i resti di Fulco di Verdura, convinto di avere bloccato un trafficante di hashish. 

Una recente immagine di Villa Niscemi, da anni sede di rappresentanza
del Comune di Palermo.
Era questa la dimora estiva della famiglia di Fulco di Verdura, dove il disegnatore di gioielli trascorse le estati palermitane della sua adolescenza, poi narrate nel libro autobiografico intitolato
"Estati felici, un'infanzia in Sicilia".
La fotografia è tratta da palermo.comune.it
  
  

mercoledì 8 agosto 2012

LA SEGRETA STORIA DELL'AVVOCATO GUARRASI

L'eloquente titolo del saggio dei giornalisti palermitani Marianna Bartoccelli e Francesco D'Ayala dedicato alla figura di Vito Guarrasi, enigmatica figura della politica e dell'economia siciliana
dal secondo dopoguerra e sino alla vigilia del 2000.
"Non si può pensare - scrivono gli autori - che Guarrasi non fosse consapevole del suo valore nel trasformare giuridicamente l'imperfetto e il perseguibile in perfetto e inattaccabile" 

L’avvocato Vito Guarrasi morì nella sua villa di Mondello la mattina del 31 luglio 1999, all’età di 85 anni, gran parte dei quali trascorsi nelle pieghe delle più oscure pagine siciliane del dopoguerra.
La lista degli eventi in cui Guarrasi ha assunto un ruolo da defilato protagonista è stata più volte elencata da giornalisti e storici isolani: dal contesto in cui maturò lo sbarco alleato in Sicilia, alla firma dell’armistizio a Cassibile, dai retroscena dei casi Mattei e De Mauro all’ascesa economica e politica dei cugini Nino ed Ignazio Salvo. Tutte vicende, insomma, in cui mistero e realtà degli inconfessabili intrecci siciliani hanno segnato la storia dell’isola, dal 1945 sin quasi ai nostri giorni.
Di certo, per sua stessa ammissione “l’Avvocato” – originario di Alcamo da famiglie di illustri natali – fu ispiratore di molte leggi nel settore industriale ed artefice di parecchi governi della Regione, a cominciare – sembra - da quello di Silvio Milazzo. Sembrano poi certe le sue frequentazioni palermitane con emissari dei servizi segreti americani, spesso presenti nei retroscena della vita della Sicilia degli ultimi 60 anni. 
Il personaggio Guarrasi, insomma – di volta in volta etichettato come il “mister X”, l’”oscuro vicerè”,  “l’eminenza grigia” o “il burattinaio” della politica siciliana – è stato il più rappresentativo esempio di tessitore occulto delle vicende dell’isola, accreditato anche di mediazioni con vecchi capimafia come don Calò Vizzini e Genco Russo.

Una vecchia seduta dell'assemblea regionale siciliana.
Il ruolo di Vito Guarrasi nelle vicende della Regione Siciliana appare cruciale soprattutto nel settore del turismo, in quello delle risorse minerali - zolfo e sale - ed assicurativo. "In Sicilia - scrivono la Bartoccelli e D'Ayala - quello che gira intorno alla politica è un guazzabuglio di tante cose... molte delle quali vengono definite mafia. Guarrasi è palesemente molto al di sopra alla mafia di strada. Ma i suoi giri possono essere perfettamente inquadrati come quella zona grigia fra potere e affari di casa a Palermo come a Milano"
Nel tentativo di aggiungere altre verità alle tante già tratteggiate in inchieste ed articoli dedicati al personaggio, i giornalisti Marianna Bartoccelli e Francesco D’Ayala hanno di recente pubblicato il saggio intitolato “L’avvocato dei misteri-Storia segreta di Vito Guarrasi, l’uomo dei consigli indispensabili che ha condizionato il potere italiano”, edito da Castelvecchi.
Il lavoro si segnala soprattutto per la pubblicazione di buona parte di un diario privato scritto dallo stesso Guarrasi e per l'introduzione del giornalista Emanuele Macaluso, storico dirigente del partito comunista.
Ci sembra che la ricerca abbia aggiunto nuovi spunti di interpretazione dei tanti episodi della storia isolana in cui Guarrasi ha avuto un ruolo – presunto o reale - da protagonista. E’ un apprezzamento che nasce anche dall’attenzione che la Bartoccelli e D’Ayala hanno riservato alla necessità di scremare i fatti dalle interpretazioni, evitando di trasformare il personaggio nel “grande vecchio” dei misteri siciliani.
“Siamo partiti – scrivono gli autori - dall’unica metodologia che dovrebbe sempre caratterizzare ricerche di questo genere: fatti riscontrabili o che almeno siano riconducibili ad una fonte citata”. Uno scrupolo documentario che permette loro, alla fine, di definire con sagacia, e con verità storica tutta siciliana, la figura dell’”Avvocato”: “Non si può pensare che Guarrasi non fosse consapevole del suo valore nel trasformare giuridicamente l’imperfetto ed il perseguibile in perfetto e inattaccabile”.

Vito Guarrasi in un'immagine tratta dagli archivi Rai.
Il saggio "L'avvocato dei misteri" raccoglie notizie e fatti "riscontrabili o che almeno siano riconducibili ad una fonte citata" e parti di un diario personale dello stesso Guarrasi

   

domenica 5 agosto 2012

LA BREVE EPOPEA DELLE SPUGNE LAMPEDUSANE

La costa Sud Est di Lampedusa, la maggiore delle Pelagie.
Dalla fine del secolo XIX ai primi decenni del secolo successivo, l'isola divenne uno dei principali luoghi
di raccolta e produzione di spugne nel Mediterraneo.
L'immagine è tratta dal sito www.isole-pelagie.it
Ci sono luoghi la cui storia per un lungo periodo di tempo è stata legata ai prodotti naturali loro offerti dal territorio: il cotone a Gela, la manna a Carini o la canna da zucchero a Bagheria, solo per ricordare tre esempi di colture nel frattempo scomparse da quelle terre.
Ci fu così un’epoca – estesa tra la fine del secolo XIX e gli anni che precedettero il secondo dopoguerra – in cui le isole Pelagie furono uno dei principali centri di produzione delle spugne nel Mediterraneo.

Il disegno di una spugna "cavallo", la specie che, in due diversi banchi sottomarini, rese le acque delle Pelagie meta di pescatori provenienti da numerosi porti italiani e del Levante mediterraneo.
L'immagine è tratta dal sito www.legambientearcipelagotoscano.it
I fondali al largo di Lampedusa e dell’isolotto disabitato di Lampione – allora sfruttati solo per la ricchezza delle risorse ittiche, soprattutto le alacce – diventarono le miniere di un prodotto localmente chiamato “spuonza” ed apprezzato in tutta Europa.
Fu così che molti pescatori lampedusani – fra questi, numerosi immigrati palermitani provenienti nel 1856 dal golfo di Carini e da Isola delle Femmine – contesero ad altri colleghi levantini la nuova risorsa naturale.

Un'immagine di Leonardo Augugliaro, il pescatore trapanese che, secondo la tradizione, nel 1897 scoprì e sfruttò per primo 
le colonie di spugne a Lampedusa.
La sua imbarcazione, il "Nuovo Carmine", iniziò la raccolta in un banco individuato a 26 metri di profondità a circa 25 miglia dall'isola.
L'immagine è stata gentilmente concessa dal sito www.trapaniantica.it
La corsa alla ricerca di queste soffici escrescenze dei poriferi fu così affollata da attirare nelle Pelagie pescatori greci, dalmati e tunisini; nè mancarono episodi di accesi contrasti fra gli equipaggi delle speciali imbarcazioni armate per la raccolta, che a Lampedusa presero il nome di “trabaccoli”.
La pesca del prodotto veniva compiuta utilizzando una specie di draga chiamata gangava, attrezzatura che la tradizione vuole essere stata inventata nel golfo di Gabès dai pescatori greci, poi passati ad indossare più efficaci mute da palombaro.
Ancor oggi, nella più grande delle Pelagie qualcuno ricorda che il merito della scoperta dei primi banchi di “spuonze” fu di un pescatore trapanese: Leonardo Augugliaro, armatore del “Nuovo Carmine”.
Nel 1887, Augugliaro individuò una ricca colonia di spugne della specie “cavallo” alla profondità di 26 metri ed a 20/25 miglia a Sud dell’isola; fu così che Lampedusa cominciò a diventare uno dei principali luoghi di pesca e lavorazione del prodotto, in concorrenza con altri porti tunisini e libici.
Nel 1897, con la scoperta di un secondo banco – dieci miglia a ponente-libeccio dell’isolotto disabitato di Lampione – le Pelagie vissero un periodo di floridi affari.

L'isolotto di Lampione, oggi noto soprattutto perchè nelle sue acque
 si possono incontrare gli squali.
Nel 1897, a dieci miglia dal perimetro delle sue coste venne scoperto un secondo banco di spugne, dalla circonferenza di ben tre miglia. Queste acque oggi per lo più frequentate dalle imbarcazioni degli appassionati della ricerca subacquea furono affollate da centinaia di barche per la raccolta delle spugne, provenienti anche dalle isole greche, da quelle dalmate
e dalle coste del Maghreb.
Anche questa immagine è tratta dal sito www.isole-pelagie.it 
Sembra che la colonia al largo di Lampione misurasse ben tre miglia di circonferenza: nel 1889, la nave della Regia Marina “Archimede” contò sul banco 19 barche italiane – provenienti anche da Sardegna e Torre del Greco - e 58 greche; l’anno successivo, quelle italiane furono 45 e 134 le straniere, 116 delle quali con a bordo pescatori delle isole elleniche.
Nel periodo di massima espansione della pesca delle “spuonze”, Lampedusa arrivò ad armare una settantina di “trabaccoli”. L’isola ospitava allora anche impianti di produzione, dove le spugne venivano lasciate seccare sotto il sole e quindi sottoposte a macerazione in una soluzione di acido solforico. Rifinite grazie ad un lavaggio finale, le spugne erano quindi vendute a grossisti provenienti da tutto il Mediterraneo.
I pagamenti erano spesso concordati in oro, così che l’isola riuscì a vivere un periodo di benessere che ebbe però l’effetto di far avvizzire ogni altra attività economica, e soprattutto quelle agricole.
La corsa alle “spuonze” delle Pelagie durò un cinquantennio.

L'interno dell'isola di Lampedusa in una fotografia risalente a circa 60 anni fa e pubblicata nel I volume dell'opera "Sicilia", edita da Sansoni nel 1962.
In quegli anni, l'epopea della pesca delle spugne - capace di attirare nell'isola mercanti e grossisti da tutto il Mediterraneo - 
era tramontata da decenni.
Già prima del secondo conflitto mondiale, il monopolio dell'attività di raccolta e lavorazione era stato raccolto dal porto tunisino di Sfax 
Già alla fine degli anni Venti, con il rafforzamento commerciale del porto tunisino di Sfax, il prezzo delle spugne di Lampedusa e Lampione passò infatti da 110 a 35 lire al chilogrammo. A causare il crollo del mercato locale furono anche i limiti strutturali del porto e l’assenza di infrastrutture e servizi a terra.
Oggi la pesca delle “spuonze” lampedusane fa parte dei ricordi locali. Le colonie di queste escrescenze animali pluricellulari si sono esaurite e l’esistenza di eventuali nuovi banchi – vista l’affermazione delle spugne sintetiche - potrebbe avere un rilievo per lo più scientifico; o di semplice rimando alla storia delle Pelagie, in questi giorni di agosto frequentate da turisti ignari della guerra delle “spuonze” un tempo combattuta fra i pescatori lampedusani e quelli del resto del Mediterraneo.