“E’ una piccola città di marinai e di pescatori ( specie di
sardine )”.
Così la guida ‘Sicilia’ del TCI del 1919 descriveva Cefalù,
allegando una piantina del paese che indicava le acque del porto vecchio con il
termine “sbarcadero”. Da qui, sino alla fine del secolo XIX, prendevano la via
del mare manna, legname, cereali e grandi quantità di sarde salate, principale
risorsa ittica locale.
Un secolo prima i pescatori del luogo avevano sperimentato l’attività della tonnara, le cui reti venivano calate in località Battilamano – nei pressi di Termini Imerese – e al largo della Caldura. Dove abitassero quei pescatori e marinai cefaludesi è ancor oggi visibile: quel fronte di antichi edifici in conci di tufo che sovrasta pochi lembi di spiaggia all’inizio del lungomare della cittadina.
Un secolo prima i pescatori del luogo avevano sperimentato l’attività della tonnara, le cui reti venivano calate in località Battilamano – nei pressi di Termini Imerese – e al largo della Caldura. Dove abitassero quei pescatori e marinai cefaludesi è ancor oggi visibile: quel fronte di antichi edifici in conci di tufo che sovrasta pochi lembi di spiaggia all’inizio del lungomare della cittadina.
Una visita nella Cefalù dei nostri giorni non fa più quasi
mostra né di marinai né di pescatori. Col passare degli anni, il paese
incastonato ai piedi della cattedrale normanna è semmai diventato un luogo sempre
più affollato di quei turisti la cui presenza – ed il cui sfruttamento
economico – ha stravolto l’atmosfera e lo stesso contesto locale che rendeva desiderabile
sino a pochi decenni fa un viaggio in quest’angolo di costa siciliana.
Uno scorcio del porticciolo ritratto nell'opera della Plurigraf Narni così come appariva a metà degli anni Settanta |
Negozi, strade e scorci
urbani hanno perlopiù stravolto il proprio aspetto originario in funzione delle
legioni di visitatori che ogni giorno – grazie ai pullman dei tour operator -
invadono la cattedrale, corso Ruggero ed i vicoletti.
Così, quel senso di naturale eleganza ed ospitalità offerto dalla Cefalù di un tempo ha lasciato il posto ai negozi di souvenir che espongono magliette con la scritta “Minchia, sono stato in Sicilia”, prezzi troppo spesso gonfiati ed asfissianti ricerche di un parcheggio libero.
Così, quel senso di naturale eleganza ed ospitalità offerto dalla Cefalù di un tempo ha lasciato il posto ai negozi di souvenir che espongono magliette con la scritta “Minchia, sono stato in Sicilia”, prezzi troppo spesso gonfiati ed asfissianti ricerche di un parcheggio libero.
Poco o nulla è insomma rimasto di quella tranquilla cittadina
che, come scriveva sessant’anni fa Aurelio Rigoli, “è arroccata intorno ad un
attivo porticciolo, ed in cui gli abitanti si dedicano ancor oggi agli antichi
lavori di artigianato: mobili, carri variopinti, eleganti oggetti in vimini,
ricamo”. Erano quelli gli stessi anni in cui il cronista di un importante
quotidiano italiano riferiva l’abitudine dei pescatori di “lavare con l’acqua
del mare i cinquecenteschi vicoli del centro storico”.
Pescatori e marinai, insomma, sono diventati a Cefalù quasi un
residuo oleografico di un passato stravolto dalle logiche di uno sviluppo
turistico che sta cancellando l’identità storica più profonda e vera della
cittadina.
Una veduta oleografica di due giovanissimi pescatori cefaludesi tratta dall'opera "Sicilia" di Daniel Simon, edita da Salvatore Sciascia nel 1956 |
Gli ultimi “uomini di mare” cefaludesi – come i due pescatori
impegnati nel rammendo delle loro reti ritratti da ReportageSicilia – sembrano
quasi una presenza aliena nella stravolta realtà della Cefalù contemporanea.
Chiusa per sempre l’epoca della pesca e salagione delle sarde ed
interrotta pure la tradizionale “Sagra del Pesce Azzurro”, poche decine di
piccole barche si dedicano per lo più alla cattura dei “caponi”: una realtà di ripiego per la storia di un pezzo importante di identità lavorativa e popolare
cefaludese, in un comune che pure continua a conservare nel suo stemma civico
il disegno di tre pesci.
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