E’ stato genericamente descritto spesso come un “artista naif”; una definizione che non indica però la genesi della complessa arte di un uomo divenuto scultore in conseguenza delle traumatiche vicende di cui fu vittima: eventi mai del tutto spiegati con chiarezza, ma dai quali germogliarono le sue ossessive capacità espressive, ancor oggi visibili a Sciacca all’interno del “Giardino incantato”, non lontano dal monte Kronio.
La storia di Filippo Bentivegna – il pescatore-contadino emigrato negli Stati Uniti e poi tornato nella cittadina agrigentina per scolpire centinaia di teste di tufo o di legno di ulivo o di carrubbo – è così una di quelle vicende umane che ricordano certi personaggi raccontati da Stefano Malatesta nel suo “Il cane che andava per mare ed altri eccentrici siciliani”.
Le vicende di Bentivegna – nato nel 1888, emigrato nel 1913 prima a Boston, poi a New York e Chicago, quindi tornato a Sciacca nel 1919 con un certificato di infermità mentale conseguenza di un trauma cranico provocato da una randellata, ed infine morto nel 1967 - sono ampiamente descritte in rete; su YouTube sono anche visibili alcuni documentari, come quello realizzato da Novella Aurora Spanò e Piergiorgio Scuteri.
On line è anche possibile leggere le pagine del saggio di Gaetano Rizzo Nervo “L’eccillenza Filippo Bentivegna”, edito da nel 1996 da Luigi Pellegrini editore http://books.google.it/books?id=mEzDqTZqQdwC&printsec=frontcover&dq=filippo+bentivegna&hl=it&sa=X&ei=FaqrUMrLFNCThgfWmoDYBg&ved=0CC4Q6AEwAA.
Il libro racconta la vicenda umana ed artistica di un analfabeta che “nella sua solitudine, per tutti i giorni vissuti in quel giardino-paradiso, ha sempre trascorso il suo tempo parlando con tutte quelle teste mute ed il suo linguaggio, via via, ha finito di essere fatto con parole di senso costruito per trasformarsi in un canto, in una litania di vocaboli inventati che in quel luogo, al cospetto del mare d’Africa e nella memoria di trecento anni di presenza saracena, si è arricchita del ritmo e del suono propri del non lontano Maghreb”.
Il libro racconta la vicenda umana ed artistica di un analfabeta che “nella sua solitudine, per tutti i giorni vissuti in quel giardino-paradiso, ha sempre trascorso il suo tempo parlando con tutte quelle teste mute ed il suo linguaggio, via via, ha finito di essere fatto con parole di senso costruito per trasformarsi in un canto, in una litania di vocaboli inventati che in quel luogo, al cospetto del mare d’Africa e nella memoria di trecento anni di presenza saracena, si è arricchita del ritmo e del suono propri del non lontano Maghreb”.
Malgrado la derisione dei suoi compaesani del tempo – e, dopo la morte, il furto di molte delle teste scolpite dal “pazzo” – l’arte e la storia di Filippo Bentivegna sono ancor oggi visibili all’interno del suo “Giardino incantato”.
Nel frattempo, questo eccentrico siciliano è oggi rappresentato al Museo dell’Art Brut di Losanna www.artbrut.ch, mentre la sua opera è stata oggetto di analisi del critico e filosofo dell’arte Gillo Dorfles.
In questo post, ReportageSicilia ripropone alcune immagini relative alla figura di Bentivegna, a cominciare da un ritratto che ne fece Giuseppe Quatriglio nel 1957 all’interno del suo podere. Spiegando la genesi di quello scatto, lo stesso Quatriglio svela un aspetto della eccentricità del pescatore-contadino: “Lo scultore naif di Sciacca Filippo Bentivegna non voleva essere ritratto tra le sue ossessive teste di tufo. Le foto furono pertanto scattate a sua insaputa. E costituiscono il documento della sua lucida follia”.
Un ritratto fotografico di Filippo Bentivegna realizzato negli ultimi anni della sua vita. L'immagine - come la precedente riproposta in questo post da ReportageSicilia - è tratta dal sito www.artbrut.ch |
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