martedì 30 aprile 2013

I RACCONTI MESSINESI DELLA RECUPERO MAUGERI

"Ballate siciliane" è l'opera più famosa della scrittrice messinese
Lillina Recupero Maugeri.
Nei 17 racconti si descrive in prevalenza la vita 

dei paesi dei Peloritani 
negli anni immediatamente successivi 
al secondo conflitto mondiale.
ReportageSicilia ripropone uno di quei racconti, intitolato "Epopea elettorale" ed ambientato a Monforte, dove la scrittrice riparò per scampare ai bombardamenti che colpirono Messina

Anche la letteratura può essere reportage, specie se il contesto di un racconto attinge al bagaglio dei ricordi personali di luoghi e persone conosciuti dall'autore.
Il dato vale fortunatamente in maniera significativa per la Sicilia, isola di scrittori e narratori ben al di là dei nomi più conosciuti al grande pubblico.
Fra gli autori di quella che una vecchia antologia scolastica definirebbe "letteratura minore" - a volte secondo un giudizio di notorietà, piuttosto che di critica - c'è la messinese Lillina Recupero Maugeri.
Come spesso capita a ReportageSicilia, la scoperta di uno dei suoi libri ( forse il più significativo ) - "Ballate siciliane", edito nel 1975 da Sicilia Nuova Editrice, Milazzo-Palermo, con in copertina un disegno del pittore barcellonese Nino Leotti - si deve al piacevole tempo trascorso fra librerie antiquarie e bancarelle di vecchi volumi.
La biografia dell'autrice è piuttosto scarna. 


Una fotografia della scrittrice, assistente universitaria 
di filologia romanza
e letteratura italiana all'Università di Messina  

Figlia del direttore amministrativo dell'Ateneo di Messina - Antonio Maugeri - e quindi moglie del senatore socialista Francesco Recupero, fu pittrice e scrittrice legata alla narrazione dei paesi siciliani dei Peloritani, della costa jonica e di Palermo; nel capoluogo dell'isola, Lillina Recupero Maugeri aveva frequentato per anni il Conservatorio, prima di tornare a Messina e diventare assistente universitaria di filologia romanza e letteratura italiana.
"Ballate siciliane" è una raccolta di 17 racconti: piccoli quadri di vita quotidiana legata a personaggi, eventi e comportamenti tipici del mondo paesano di una Sicilia immersa in un clima ancora ottocentesco.


Un'immagine di Tindari, pubblicata nel primo volume dell'opera "Sicilia",
edita da Sansoni e dall'Istituto geografico De Agostini nel 1962.
La fotografia è attribuita a Stefani 

Il mondo narrato dalla Recupero Maugeri fa quindi riferimento, spesso con una garbata ironia - scrive Roberto Salvadori -  "alle chiacchiere fra i notabili locali, alle piccole faide perenni, ai tipi pittoreschi, al paternalismo ipocrita dei ricchi ed all'ossequio dove affiora la fierezza dei poveri".
"C'è, in questi racconti - si legge quindi nella prefazione al libro dello storico Santi Correnti - tutta la vita del paese, inteso come categoria mentale, e perciò dotato di una eterna vitalità".


Santo Stefano di Camastra, in una seconda fotografia di Stefani
tratta dall'opera citata in precedenza 

In questo post, ReportageSicilia ripropone la prima delle 17 "Ballate siciliane", intitolata "Epopea Elettorale" ed ambientata nell'agosto del 1943 a Monforte: qui la Recupero Maugeri aveva trascorso gli anni difficili della guerra, al riparo dai bombardamenti che squassavano Messina.
Nel racconto, si narra il clima che accompagnò a Monforte le elezioni comunali, negli anni successivi al termine del secondo conflitto mondiale: pagine che rievocano a livello paesano la storica contrapposizione fra democrazia cristiana e partito comunista ( che nella narrazione diventano il partito dei Crociferi e la Fronda d'ulivo con tre teste ). 

"La guerra agonizzò che l'aria rovente d'agosto era compressa da anticipazioni vaghe ed inquietanti. Da Monforte si guardava verso Messina inghiottita dal silenzio, dopo l'apocalisse dei bombardamenti; si scrutava la strada provinciale, corrosa dai cingoli tedeschi, diretti, prima con ordine e potenza, verso ovest, poi, in confuso e precipitoso disordine, e in numero poco apprezzabile, verso est.
Intorno al caffè di Baracchetta s'intrecciavano supposizioni e interrogativi d'ogni genere:
"Sbarcano?" si chiedevano i monfortesi. 
"Macché! I tedeschi, dove li metti?"
"La radio inglese ha detto che ci sono di già tutti, gli americani con i negri, i francesi coi marocchini, gli inglesi con se stessi: almeno la smettessero con quel tamburo del malaugurio..."
I siciliani non subivano invasioni soltanto da qualche secolo e un'ammonitrice saggezza consigliò di nascondere i beni rimasti. Nello stesso tempo furono cremate divise fasciste, fiocchi, scudetti, bottoni.
In casa del medico don Giacomo Ciardello affluiva lo stato maggiore dei cervelli locali; alla sua esperienza facevano capo i dubbi che s'agitavano nelle coscienze dei più.
Il suo campiere, don Tanu, un gigante biondo, riaffiorato certamente da geni normanni, diceva alla compagnia che gli stava intorno:
"Quando arriveranno li 'ngresi non potrò che dirgli benedicite!, tanto, a me" - e rovesciava le tasche - "questo possono prendere... Don Nicola, piuttosto" - e si rivolgeva al potestà Cumino - "sì che ha da temere, a causa dei fasci d'oro sul cheppì e sulle spalline...".
"Villano disfattista" - inveiva l'altro - "ringrazia il tuo padrone se non mangi confino da colazione a cena...".
Don Giacomo Ciardello rigirava il suo torace massiccio sulla poltrona di vimini: "Silenzio vi ci vuole, e prudenza. Questo è il momento di pensare a ben altro".
Il marchesino Pontedoro sussultava nel triplo mento congesto:
"Ma come si fa a non parlare, come si fa... se c'è la quiete che precede la tempesta! Li pensate i marocchini, don Giacomo? Chi ci difenderà se non c'è Re nè regno! Siamo nella mani di Dio... Voi, don Giacomo, che siete il nostro patriarca, consigliateci... consigliateci...".
"Marchesino" - rispondeva il Dottore - "non c'è miglior posto delle mani di Dio e, dato che vi ci trovate, il meglio da fare è d'acquietarvi..." .
Non trascorse molto che l'alba rivelò un primo plotone di americani che dormivano morbidamente sui sassi sel sentiero.
In men che non si pensi le porte furono sbarrate, le ragazze spinte in fretta e furia nei catoi, i magazzini.
Ai balconi dei Pontedoro, visibili da ogni dove, furono sbandierate lenzuola in segno di resa, e si attese con trepidazione il chiarirsi degli eventi. Ma non accadde nulla, se si eccettua che, all'intimazione di consegnarli, fucili, pistole e armi d'ogni genere andarono a concimare le radici degli ulivi più grossi, e che si mangiò pane bianco, troppo bianco per essere pane. 
Quella notte, dalle corazzate alleate, al largo di Milazzo, fu lanciato un vituperio di cannonate che, scavalcando i Peloritani, stridettero sui monfortesi, rannicchiati nei letti a pregare calorosamente il loro protettore San Giorgio, affinchè i vini gagliardi di Sicilia non facessero per caso degradare d'una sola linea la mira ai cannonieri.
Dopo di che, i liberatori non aggiunsero fastidi: avevano altro da pensare, mentre, arrampicandosi su per la penisola, perseguivano quelle teste dure, ma frangibili, dei tedeschi.

Quando la guerra cessò di infierire sulla Sicilia, come rondini al nido tornarono gli sbandati di tutte le armi: i talloni sanguinanti per il gran camminare, le nudità coperte a via di spilli e legami, ognuno con una storia di morte da raccontare.
Dimenticata ogni paura e ogni considerazione sulla fragilità del vivere, nei monfortesi si risvegliarono gli odi di famiglia, abilmente camuffati da beghe politiche.
Anche loro, avendo cantato per più di vent'anni, sempre in coro, sempre lo stesso motivo, pensarono che era giunto il momento di tentare degli 'a solo'. E la malattia politica esplose violenta alle elezioni comunali.
L'elettorato si divise in una maggioranza detta dei Crociferi, e nell'opposizione, che si appostò dietro il contrassegno della 'Fronda d'ulivo con tre frutti'. In mezzo fluttuarono gli indecisi, provenienti da tutte le nostalgie.
Al Rosario, piano che s'apre al respiro della valle, dove è dolce sostare la sera, l'avvocato Maggio così commentava, con altri, il momento politico:
"Appare lampante che che i più notevoli candidati sono, da una parte, don Giacomo Ciardello, coi Trombetta, i Maccherone, i Trifilò e con la sua più fedele clientela; dall'altra parte il buon Dio, molto umilmente rappresentato dal nipote di padre don Lucio, Ninetto Cardò; un simbolo, dietro al quale smaniano di legittime preoccupazioni, oltre al venerabile zio, l'arciprete Scuzzera, con la matura signorina Catina, presidentessa delle 'Figlie di Maria', e un folto contorno di sagrestani, fedeli, donnette dell'ora del Rosario e penitenti".
Ninetto Cardò tutto s'aspettava dal destino tranne che divenire un'insegna; ruolo non difficile, in verità, che non gli fu fatto pesare.
"Non puoi perdere" - lo rincuorava il reverendo zio - "solo pochi folli hanno ardito porsi contro l'Eterno. Noi siamo con Lui e con la Santa Croce...".
E già intorno a Ninetto Cardò una piccola folla s'andava tanto più infittendo quanto più si faceva strada la convinzione che il sindaco sarebbe stato lui, lui soltanto. E non pochi toccavano con mano la realizzazione di certi non manifesti progetti.
Non che il medico Ciardello avesse un men nutrito seguito: egli che accarezzava idee di sinistra, stava a cavallo di due mondi, separati da inconciliabili ed ancestrali rancori, per avere sposato donna Vannina, una 'spillacchia' figlia di un signorotto.
Divìde et impéra: don Giacomo avrebbe potuto con salomonica saggezza imperare, se non l'avessero avversato gli inserimenti nocivi dei parenti e quello della moglie che, con una personale politica e col battito pretenzioso dei suoi fianchi, ritmava e condizionava i suoi propositi. E non si faceva illusioni: 
"Quelli hanno dalla loro tutti i Santi, accaparrati al completo" diceva riferendosi al partito dei Crociferi "e a me non restano che diavoli... Guardatela, donna Catina, la capomastra della confratenità: da sola può fare eleggere tutta una Camera...".
La signorina Catina, colossale e compunta, col rosario e la veletta nera perennemente stretti sotto il braccio, in ogni ora del giorno pronta per le devozioni, catechizzava a fior di labbra i fedeli: "Donna Rò...o donna Rosa, non macchiatevi di disobbedienza al Signore, chè scomunica vi fate!". 
Poi sussurrava: "E' la gente del demonio, quella del dottore...guardate la moglie di Trombetta, scollacciata che è una tentazione: quella, il peccato ce l'ha nel più profondo...".
"Dove...dove?" chiedeva l'altra, incuriosita.
"Nel cuore... nel cuore..." rispondeva donna Catina "dove altro volete che stia il peccato?" E la lasciava incredula e perplessa.
Poi andava alla canonica per spiegare la dottrina: "Bambine, cantiamo Viva Gesù... Viva Gesù... Un momento, ditelo alle vostre mamme di votare per Gesù, numero dodici..." e riprendeva la cantilena "Viva Gesù, Viva Gesù...".
Di ritorno, passava dalle comari: "Sia lodato... comare Terè... Sia lodato... comare Nunziata..." e, abbassando la voce fino ad un soffio sul viso delle altre: 
"Pensate un pò se quelli dell'ulivo, tutti nemici giurati di Dio, possano avere faccia di chiedere il voto a voi, che siete delle sante... Con chi si è messo don Giacomo? con un branco d'anime perse! E lui forse è sposato in chiesa con donna Vannina? E il brigante Portello, di chi era cugino? E la figlia di donna Tàlia Maccherone, di chi è figlia? Mia no, di certo... Deus misericordia, Deus misericordia..." e se ne andava portandosi dietro la sua potenza.
Il giuoco politico allignava come nuovo passatempo tra le le donne, costrette da una domenica all'altra in un quadro di solite voci, di passi uguali, tra il malinconico acciottolìo dei muli che apre e chiude il giorno, per cui si può odiare anche il sospetto di rimanerci dentro per tutta la vita. 
Immerse nella lotta, rinsanguavano chiacchiere e malignità, sfogando, così, bili inghiottite da tempo.
Don Giacomo Ciardello si sentiva annegare nel suo stesso dubbioso elettorato, di fronte allo scoglio dei potenti rivali. 
Gente come i Maccarrone, i Trombetta e i Trifilò, lo sostenevano non tanto per convinzione, quanto per il piacere d'avversare i bigotti, loro nemici naturali, ritenuti detrattori e malelingue.
la casa di don Giacomo era divenuta un 'riconco' di notizie. 
Il cuore del medico sussultava un pò verso l'alto, un pò verso terra, nel demoralizzante balletto che aveva come centro la sua persona.
"I Cavatòi girano verso i Crociferi...".
"Don Nino, il ferraro, è andato in parrocchia a confessarsi...". 
La lotta rivelò toni drammatici, specialmente quando lo zelante arciprete giunse ad impedire che , pur con la punta della sua elegante scarpetta, donna Tàlia Maccherone entrasse in chiesa, a causa delle sue braccia nude fino al gomito.
"Non adontatevi, signora Tàlia..." la consolava il Trombetta "pochi centimetri delle vostre braccia stuzzicano quanto tutta la Venere di Milo, e l'arciprete è così sensibile...". 
Ma Nenè e Checco Maccherone, per l'oltraggio subìto, imperversavano, minacciando carneficine. 
Don giacomo sentiva scivolarsi i voti tra le dita. "Le cabine dovranno pur parlare..." sospirava. "Abbiamo nemici, ma anche amici, di talloni di Achille, gli avversari non difettano...".
E rievocava una faccenda riguardante una trazzera che lo zelo di alcuni amministratori aveva cementato con cura, come al passeggio di via Maqueda a Palermo.
L'umido e il muschio avendo invischiato i muli, fino a farli stramazzare, erano nati l'irriducibile scontento dei loro proprietari e frequenti imprecazioni: 
"L'Immacolata Concezione ha da pensarci... Spillacchi mangiatori dei poveri! Si lisciano il terreno di sotto ai piedi, davanti alle loro case, e a noi il carico va a rompicollo! Ma, non potrebbero lucidarsi le corna... piuttosto?".
Anche queste lamentele facevano da sostegno politico a don Giacomo. Peraltro, i comizi fluivano con generale soddisfazione e massima eleganza. Gli oratori si lanciavano, come palle da tennis, accuse e difese, discutevano problemi d'armoniosa e comoda convivenza, con prospettive di rinascita cittadina, costantemente declamando magagne di parte opposta, vere o inventate, ignote o palesi agli occhi degli esterrefatti ascoltatori.
La sera precedente le votazioni, i Crociferi vollero dare il colpo di grazia a quelli della Fronda, mettendoli di fronte al quadro di San Cono, che veniva a dargli una mano emigrando, per sentieri da conigli, da una parrocchia all'altra.
Il sovrumano avversario, portato in trionfo da braccia robuste, avanzava suscitando, sulle pendici lontane dei monti, falò, preghiere, suoni di ciaramelle.
Nessuno avrebbe potuto travisare il divino messaggio, pensava l'arciprete, e sentiva alitare la vittoria sulla sua testa, e, se non fosse accaduto quanto accadde, l'avrebbe vista d'un sùbito appollaiata nella sua spalla.
Giunti ai limiti geografici della loro parrocchia, i portatori di Pellegrino si rifiutarono di consegnare il quadro a quelli di Monforte: loro, e soltanto loro, dovevano giungere in piazza tra i mortaretti e la musica.
La questione, sorta, come fungo malefico, là dove era avvenuto l'incontro tra canti d'alleluia, finì in una generale bastonatura, alla presenza della sacra Immagine scaricata frettolosamente al bordo della strada.
Per quanto i monfortesi avessero vinto la giostra, il loro apparire in piazza in un grumo d'abiti sbertucciati, d'occhi pesti e di crini selvosi, fece calare di colpo il livello dei voti al partito dei Crociferi.
Né il brusio dei rosari, le campanelle suonate con lena, la babele dei venditori ambulanti, le avide bevute di gassose, poterono tamponare il salasso. Nonostante ciò, in casa del medico Ciardello, addizionati i malumori, e sottratte le defezioni, si dileguavano ad una ad una le ingannevoli speranze che precedono il trapasso.
"Perderemo", sospirava don Giacomo... "ma guardando in faccia il nemico fino all'ultimo".
L'indomani, senza premure, i monfortesi si recarono alle urne. per le strade un silenzio gravido d'interrogativi, incontri e saluti diplomatici, ognuno con la propria intenzione ben ferrata dentro lo stomaco.
La signorina Catina accompagnava, portandoli quasi di peso, vecchietti reperiti nei dimenticatoi, che rinverdivano in questo modo la loro presenza tra i vivi.
Alla sezione, i fedeli di Ciardello cernevano il grano dal loglio: Lorio il lungo, da scrutatore, scrutava veramente, attraverso gli spifferi della mal connessa cabina, e nulla gli era più manifesto degli altrui segreti. E li elencava a Checco Maccherone che porgeva le schede: "Questo sì, questo no...", e il maggior numero era dei no.
Entrò la 'Nchiola, le guance infuocate sulle sei o sette collane, il seno esplodente nel piacere della rivalsa sulla pubblica condanna che le pesava sui fianchi. Guardò tutti con piglio spavaldo. "Io non faccio misteri... voto corona!", disse con arroganza.
Un vecchietto, scrutatore dei Crociferi: "Voi siete lo scandalo del paese..." le obiettò "e il Signore non lo vuole il vostro voto"
una risataccia fu la risposta. Quando venne fuori dalla cabina, sbandierando la sua scheda, lorio il lungo le disse: "Ma come, anche col 'riuzzo' vi siete coricata?" e la guardò con compatimento, mentre quella se ne andava, sculettando rabbiosamente.
Poi l'ingresso fu occultato dall'imponenza di don Cosimo Fiore, maresciallo dei carabinieri a riposo, un riposo che durava quasi dal tempo di Umberto I. 
Era molto amico di don Giacomo e a lui devoto per il perenne conforto alla sua ormai malcerta salute. 
Gli aveva promesso il voto, ma era stato carabiniere del re, ed in tal veste aveva prestato solenne, anche se remoto, giuramento. Nell'uscire, il maresciallo fece un gesto d'intesa a don Lorio, come per una congiura; l'altro gli rispose con un amaro sorriso, sussurrando: "Che faccia di granito... anche lui si è coricato con sua maestà, non me lo leva di testa nessuno!...".
I voti, in casa Ciardello, stillarono, finchè si spensero.
A don Giacomo, un pò per la fatica un pò per la boccata di fiele, venne un gran galoppo di febbre; donna Vannina era agli attacchi nervosi, urlava maledicendo il prossimo vicino e lontano.
Natàla, la serva, spremeva limoni per tutti, di tanto in tanto cambiando il fazzoletto umido alla fronte di don Giacomo.
In cima alla collina, per le vedette che aspettavno il segnale del 'solfarolo', dovendo dare il via ai fuochi per l'evviva, nello strano caso di una vittoria, ci fu un nulla di fatto.
Intorno a don Giacomo, come per una veglia funebre, s'alternavano i Maccarone, i Trifilò e gli altri della Fronda d'ulivo con tre frutti. Finchè, dopo avere trangugiato il Gloria dell'arciprete, suonato a tutto trasporto di campane, e i colpi dei mortaretti in piazza, fu lasciato coi suoi pensieri.
Donna vannina mugolava: "Non me lo aspettavo questo tradimento, ladri della mia pace!... Alla prossima influenza ci vedremo...".
E giù limonate, a non finire."


Veduta aerea di Milazzo, in una fotografia tratta dall'opera del TCI "Marine del Tirreno e delle Isole",
edita a Milano nel 1964.
Sotto, una firma autografa della Recupero Maugeri




   


  


  


     

Nessun commento:

Posta un commento