martedì 14 aprile 2015

VULCANO, L'INFERNO DI ZOLFO IN UN RACCONTO DI VITALIANO BRANCATI

Nel 1951 lo scrittore di Pachino descrisse lo scenario apocalittico dell'isola delle Eolie, fra bollori d'acqua, fumi di zolfo e "vigne dal colorito febbricitante"


L'istmo che unisce Vulcano a Vulcanello, nelle Eolie.
Sullo sfondo, Lipari.
Le fotografie del post vennero pubblicate
nel volume "Volto delle Eolie" edito nel 1951
da Flaccovio Editore Palermo
con testi di Vitaliano Brancati,
Fosco Maraini e Massimo Simili


La storia di Vulcano è stata per lungo tempo legata all'immagine di un'isola inospitale, di una zolla d'inferno galleggiante e sibilante di vapori bollenti, a cancellare ogni possibilità di vita umana.
L'orrido di quest'angolo delle Eolie si è mitigato soltanto agli inizi degli anni Cinquanta, quando lo sviluppo del turismo ha reso meno aspri i soggiorni a Vulcano.
In quel periodo nacquero le prime strutture alberghiere - la pensione della famiglia Conti, cresciuta intorno alla baracca di Enrico, venditore di cappelli, zoccoli, nonché barbiere e suonatore di chitarra - mentre nel 1950 l'esploratore Fosco Maraini così descriveva l'isola:



"è un lembo di stella, le sue rocce non sono rocce ma processioni di dromedari fusi, lotte d'iguanodonti torturati, sfaldarsi d'ornitorinchi lebbrosi, esplodere di giraffe in fiamme.
Il mare entra nelle viscere dell'isola, l'isola pugnala il mare coi suoi capi contorti. Dappertutto fumacchi e zolfi, vapori e anidridi"



Allo stesso periodo della descrizione di Vulcano fatta da Maraini si deve un reportage dell'isola dello scrittore pachinese Vitaliano Brancati.
Il suo resoconto venne pubblicato nel saggio "Volto delle Eolie", pubblicato da Flaccovio Editore Palermo nel 1951.


Il porto di Levante visto da Vulcanello

Il porto di Ponente


Il racconto è interessante perché ricostruisce le vicende storiche dell'isola fra la fine del secolo XIX e il XX, quando la proprietà di Vulcano passò dall'imprenditore scozzese di Glasgow James Stevenson - che ne sfruttava i borati - al suo tetro amministratore, certo Harley, e da quest'ultimo alla famiglia di Lipari dei Favaloro.
 Insieme al racconto di Brancati, ReportageSicilia ripropone nel post anche le fotografie pubblicate a corredo del testo.

"Da cinque giorni in quest'isola vulcanica - scrive Brancatia mezz'ora di barca da Lipari.
Il mare luccica da ogni parte, chiuso da ogni parte fra rupi nere, ritte, col le corna; dai crepacci, che si aprono mollemente e in silenzio, fuma lo zolfo; una spiaggia è tutta di zolfo, e l'acqua che la bagna va bollendo; nell'interno dell'isola, la terra è arida e nerastra, le canne vi nascono già fradice, il verde delle vigne è sospetto come il colorito dei febbricitanti.


Ancora il porto di Levante, visto dal cratere grande

Il corvo svolazza a uncino sulla campagna, e di tanto in tanto precipita come un'ancora che si sia staccata dalla catena.
Quest'isola ha una storia singolare.
I Borboni le regalarono a un signore inglese che non volle mai abitarla.
Mandò in sua vece sua un amministratore, un certo Harley, se ho capito bene il nome, un uomo gelido e decadente che sguinzagliò subito per tutta l'isola dei cani feroci il cui urlo e sgretolare di denti teneva al largo qualunque estraneo.
Si fece costruire un palazzo neoclassico, con portici e colonne, e spianò dei viali lunghissimi, per i quali, ogni pomeriggio, passava tintinnando con la quadriga di cavalli neri.
Era un uomo inospitale, e stabiliva immediatamente, fra sè e gli altri, una corrente di dispetto.


Ovini sulla terra arida di Vulcano

I cani, accarezzati dalla sua mano, lievemente pelosa e sempre con le dita strette, si facevano più feroci, come gatti strofinati contropelo; i barcaioli rispondevano al suo sguardo con la promessa di diventare il meno umani che riuscisse possibile alla loro indole mediterranea; i cavalli, appena egli li sfiorava con la frusta, s'abbassavano sui garetti, e volavano con il visibile intento di buttarsi a chiodo nel mare, all'orlo del quale però un urlo secco del padrone li arrestava e immobilizzava come simulacri. 
Un pomeriggio, i due figli di Harley, nonostante il divieto del padre, presero una barca e salparono per Lipari.
Il mare era furiosissimo, e l'odore dello zolfo, sbattuto giù dal vento, irritava le gole dei sempre esacerbati abitanti dell'isola, uomini o animali che fossero.
D'un tratto, la barca dei giovani Harley salì al cielo e ripiombò capovolta.


Getti di vapore sull'isola.
Dopo i Borboni,
l'imprenditore scozzese James Stevenson
fu uno dei proprietari di Vulcano,
sfruttandone i borati 

Harley, avvertito dai servi, era già sulla riva, con le braccia conserte e il frustino sotto l'ascella. I pochi marinai presenti, ansiosi di portare aiuto ai naufraghi, tirarono rapidamente e faticosamente un lungo barcone fuori della sabbia e lo spinsero fra gli urti spaventosi del mare.
Ma Harley li fermò con lo sguardo.
'No', disse, 'no!...'
I marinai mogi mogi ritirarono la barca sulla sabbia, si fecero il segno della croce e diedero le spalle al mare, acui invece Harley continuava a stare rivolto. Di tanto in tanto gettavano una sbirciatina sul viso di lui, cercando di leggervi cos'andasse accadendo ai due sciagurati rimasti in preda alle onde.
Ma il viso del padrone era impassibile, gli occhi vitrei non specchiavano nulla, il naso diritto sembrava, come sempre, vuoto d'aria e di respiro.
D'un tratto, una smorfia di dispetto vi si disegnò come un fulmine.
Harley si volse, salì con un salto sulla quadriga, frustò i cavalli e disparve.
Un minuto dopo, arrivarono stremati, zuppi, seminudi, pallidissimi, i due giovani figli.


Sopra e sotto,
le fumarole di Vulcano




La notte, il palazzo rimaneva illuminato: con l'intensità e la costanza di chi si applichi a uno studio, Harley beveva; ogni tanto, veniva sulla terrazza e s'appoggiava alla balaustra, perfettamente immoto, lasciandosi penetrare dal silenzio del mare e del cielo come dal gelo necessario al suo cuore freddissimo.
Un giorno però, mentre egli sedeva solo solo alla sua lunga tavola, i cani emisero un gemito: poco dopo, un crepaccio si aprì nel pavimento e un soffione di zolfo riempì la stanza di puzza e di luce verdastra.
Subito il soffitto s'inclinò, le colonne si contorsero, un fumo intollerabile avvolse ogni cosa.
Il cuore fa dei brutti scherzi. Per sessant'anni, il cuore di Harley era stato coperto di gelo: d'un tratto, esplose in un sentimento di paura.
Tutti gli animali che tremano, senza il soccorso e i freni della ragione, senza che un ricordo, una parola, un'idea venga a salvarli, ebbero in quest'uomo il peggiore esemplare di se stessi.
Harley fuggì a testa bassa verso la riva, si cacciò in una barca, respingendo a colpi di remo i cani che volevano seguirlo e di cui egli aveva ormai un misterioso fastidio come di complici pericolosi, e, remando col fiato tra i denti, sempre a testa bassa, s'allontanò verso Lipari.
Non volle mai più tornare a Vulcano che vendette a tre cittadini di Lipari.
Di questi, due dovettero contrarre gravi debiti per procurarsi la somma richiesta da Harley. Dopo pochi anni, scadenze e interessi li oppressero a tal punto che furono costretti a svendere le loro due parti a un certo signor Fav...
questi era un siciliano ricco, pigro e pieno di pregiudizi.
Per lui era importante possedere: mettere il proprio nome su una distesa di terra. Le cose disonorevoli erano due: vendere, perché voleva dire trovarsi in cattive acque; e coltivare eccessivamente le proprie terre, perché voleva dire spremerle, avere bisogno, supplicare alberi ed erbe di fargli la carità di una rendita straordinaria.
Con queste leggi, applicate con tanto scrupolo che egli non solo non coltivò eccessivamente le sue terre, ma non le coltivò affatto, il signor Fav. visse e morì.


Abitazioni primitive nella roccia di Vulcano

Oggi le proprietarie di due terzi di Vulcano sono due signorine anziane. I crateri di Vulcano sono due: ciascuna signorina Fav. ne possiede uno, con tutto il territorio circostante.
Non vogliono vendere e non vogliono coltivare. In questa terra arida, basta scavare per una profondità di quattro metri , come ha fatto un animoso italo-americano, il signor Ferlazzo, e l'acqua zampilla.
tre mesi di lavoro intenso, e quest'isola infernale sorriderebbe.
Ma qui non si coltiva quello che si possiede, né si vende quello che non si vuole coltivare.
Le due padrone abitano a Lipari e le sere d'estate guardano da lontano i loro crateri.
'E' il tuo che fuma?' dice una sorella all'altra.
'Si, è il mio. Ma mi pare che anche il tuo mandi puzza di zolfo'.
Seggono al balcone di una casa modesta e poggiano la fronte contro la ringhiera di ferro.
Non sognano, non sperano, non temono, non hanno bisogno di nulla.
In un simile stato, il sonno arriva subito: basta reclinare la testa e il cervello, vuoto di pensieri, si riempie di una tenebra densa.
Così s'addormentano. A distanza, dietro le loro palpebre abbassate, i due loro crateri si vanno riempiendo di luce lunare che, mista al verde e al rossigno della pietra, riverbera intorno una luce da oreficeria del diavolo".

   

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