domenica 11 ottobre 2015

CATANIA, L'ANTICAPITALE SICILIANA DI GIUSEPPE FAVA

In una pagina de "I Siciliani", l'analisi del giornalista sulla realtà sociale e sui vizi mentali della città che dietro l'ironia e l'attivismo nasconde il fallimento della sua volontà di grandezza

Immagini del porto di Catania.
Le fotografie del post sono di ReportageSicilia

Giuseppe Fava ( Palazzolo Acreide, 1925 Catania, 1884 ) è stato uno dei più sferzanti e lucidi osservatori dei vizi e dei malaffari siciliani del Novecento.
Per queste doti è stato ucciso a Catania, dove aveva scelto di vivere e lavorare con la piena consapevolezza della sua natura di città mistificatoria: una Catania insieme "avida, impaurita, intelligentissima", capace di irretire il giornalista di origini siracusane con la sua inquieta natura da meretrice:

"Io amo questa città - spiegò Fava nel saggio "I Siciliani" ( Cappelli editore, 1980 con un rapporto sentimentale preciso: quello che può avere un uomo che si è innamorato perdutamente di una puttana, e non può farci niente, sa che è puttana, è volgare, sporca, traditrice, si concede per denaro a chicchessia, è oscena, menzognera, volgare, e però è anche ridente, allegra, violenta, conosce tutti i trucchi e i vizi dell'amore e glieli fa assaporare, poi scappa subito via con un altro; egli dovrebbe prenderla mille volte a calci in faccia, sputarle addosso 'al diavolo, zoccola!', ma il solo pensiero di abbandonarla gli riempi l'animo di oscurità"






Nello stesso libro - testimonianza di passione civile e umana, frutto di un amore non retorico per la Sicilia e per i siciliani - Giuseppe Fava ha analizzato con lucidità il ruolo di anticapitale dell'isola rivestito da Catania rispetto a Palermo

"Catania è l'anticapitale per eccellenza come poteva essere Cartagine con Roma, Sparta contro Atene, come oggi Leningrado con Mosca, Barcellona con Madrid, Milano con Roma.
Della città anticapitale Catania ha tutte le caratteristiche sociali e mentali: anzitutto il complesso di inferiorità che tende a mascherarsi con l'ironia, l'attivismo febbrile con cui giustifica la sua pretesa alla supremazia, quindi l'amore per il denaro nel quale, in mancanza di un assoluto potere legislativo o esecutivo, identica il supremo potere della potenza, infine una concezione quasi gloriosa delle virtù che possiede e il disprezzo per tutte quelle altre virtù che invece le mancano.
Per completare: una costante vocazione alla disubbidienza, cioè una voluta ignoranza di tutte le regole, che essa contrabbanda per libertà...






E perciò accade che Catania non vive più in proiezione storica, il suo spirito non guarda al passato per misurarlo, e nemmeno all'avvenire per anticiparlo, ma semplicemente al presente, che è il suo presente, senza cioè nemmeno volgersi intorno per scrutare il presente degli altri, e quello che gli altri fanno, patimenti, errori, fallimenti, trionfi.
Al catanese non gliene frega niente.
Il catanese ha solo il suo presente, ineguagliabile, dentro il quale vive col respiro corto, centoventi pulsazioni al minuto come fosse scosso continuamente dalla febbre, dalla impazienza di avere tutto e subito.
Ecco perché, nel fallimento di uno splendido destino civile, il sogno e la possibilità d'essere il cuore del Mediterraneo, il denaro diventa la regola essenziale della vita e la violenza il suo stile.
In fondo, che il teatro sia l'unica, straripante, genuina forza di cultura popolare a Catania, significa proprio che il catanese è costretto ogni giorno a recitare se stesso, a giocare con se stesso, e soprattutto a rappresentarsi per potersi ridere in faccia!"

  

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