venerdì 10 novembre 2017

LO SCONOSCIUTO GENIO LETTERARIO DI EZIO D'ERRICO

Una rara immagine dell'agrigentino Ezio D'Errico
tratta dal quotidiano "Stampa Sera" del 23 luglio del 1963.
Le altre fotografie di Gangi sono di ReportageSicilia
Pittore astrattista, scrittore di gialli, giornalista, scrittore e commediografo dell'assurdo: la statura artistica e le esperienze culturali di Ezio D'Errico, nato ad Agrigento il 5 luglio del 1892 e morto a Roma il 20 aprile del 1972, sono ancor oggi apprezzate da pochi cultori di un personaggio dimenticato soprattutto in Sicilia ( anche la notizia della sua morte venne ignorata o meritò poche righe sui quotidiani isolani ).
L'oblio nella terra di origine si deve principalmente al fatto che D'Errico lasciò Agrigento in giovane età, esprimendo la sua varia vena artistica e letteraria fra Parigi, Torino e Roma.
Eppure, Ezio D'Errico - che si definiva "un europeo esiliato in Italia" - ha meritato giudizi di assoluta eccellenza fra i pochi cultori della sua produzione.
Andrea Camilleri ne ha lodato la "genialità rinascimentale", mentre Martin Esslin - affermato critico teatrale anglo-ungherese - lo indicò come "unico autore italiano, dopo Pirandello, che abbia raggiunto una levatura nel teatro contemporaneo di livello internazionale".



Un simile giudizio procurò all'autore agrigentino fama e riconoscimenti soprattutto all'estero: Germania, Inghilterra, Francia e Paesi sudamericani.
Ad accrescere l'eccezionalità del personaggio, D'Errico è stato capace di contraddire il dato secondo cui i maggiori scrittori dell'Isola  sono stati incapaci di porre al centro delle proprie opere luoghi e tematiche non siciliane.
Una traccia della vastissima produzione letteraria di Ezio D'Errico  - quasi una preziosa pepita, rivelatrice anche della sua ispirazione artistica - si trova nelle pagine della rivista "Sicilia" edita nel settembre del 1954 dall'Assessorato Regionale al Turismo e Spettacolo.
Il racconto di un incontro a Gangi con Don Calcedonio Spitaleri - irrazionale figura di guaritore, agronomo e singolare esperto di cultura siciliana - offre a D'Errico una rara occasione di scrivere della sua terra. 
Quasi in omaggio alla dichiarata propensione dell'autore per i sortilegi, il testo prende il titolo di "Vita segreta della Sicilia": 

"Molti anni fa, durante una delle mie tante visite, mi trovai a Gangi, un paese arroccato su uno dei due grandi contrafforti di quella spina dorsale rocciosa che parte da Messina, e a Nicosia si biforca per dar più forza all'ossatura dell'Isola.
Quivi conobbi Don Calcedonio Spitaleri, detto 'u prufissuri', il cui biglietto di visita si fregiava, oltre che di una stemma nobiliare, di questa dicitura:

'Astruologo, Erborista e Magnetizzatore di armali' ( Animali )



Don Calcedonio commerciava in grasso di marmotta, radici ed erbe medicamentose, ipnotizzava vecchi galli e guariva le pecore dalla morva.
Questo, ufficialmente.
In separata sede dava consigli su questioni di amore e di interesse, sulle colture agricole più convenienti in relazione alle annate, alle eclissi di sole e di luna, alle stelle e ai venti.
Quando entrava in confidenza con uomini di cultura, si abbandonava a disquisizioni storico-filosofiche del più alto interesse per chiunque avesse uno spirito aperto alle libere speculazioni mentali.
Fu appunto durante uno di questi conversari, ch'io mi feci finalmente un concetto chiaro del rapporto, insospettato fino allora, intercorrente fra le quattro stagioni e le dominazioni straniere in Sicilia.




'Aviti a sapiri', mi disse Don Calcedonio, che nei tempi antichi, quando la Sicilia si chiamava Sicania, ed era attaccata al continente, c'era un'unica stagione calda lungo le coste e fredda al centro, per causa della circolazione interna del vulcano dell'isola Giulia, che era un vulcano marino mentre l'Etna era una montagna e buttava soltanto acqua, perché tutti i fiumi uscivano dai suoi fianchi.
Questa unica stagione si conservò invariata durante la dominazione dei Fenici, dei Cartaginesi e dei Romani.
Nel Medioevo, con l'arrivo degli Arabi, prese a rinforzare lo scirocco ( Don Calcedonio diceva scilocco ) e perciò molte regioni, che prima erano a clima temperato, diventarono più calde, mentre gli acquazzoni si fecero più radi.
Insomma, con gli Arabi si cominciò a parlare di estate, per distinguere questa stagione da quella delle piogge, finchè all'arrivo dei Normanni, caldo e freddo si alternarono con una regolarità che permise di differenziare l'inverno dall'estate.
Come salì al trono di Napoli Carlo d'Angiò, e nell'Isola giunsero i Provenzali, si delineò una stagione di mezzo, leggera e volubile, elegante e prepotente come i 'francisi', e fu la primavera.
Ma si dovette aspettare la dominazione spagnola di Pietro d'Aragona, per sentir parlare di una quarta stagione, languida e malinconica, che fu poi denominata autunno.




Le spiegazioni di Don Calcedonio Spitaleri, molto più pittoresche e fiorite di quanto non abbia potuto rendere nella mia versione italiana, mi convinsero subito, per l'assenza totale di logica a contrasto con la loro alta significazione poetica.
Don Calcedonio parlava lento, fissandosi la punta delle scarpe, e solo ogni tanto le sue palpebre convesse come quelle di un gufo, si alzavano, scoprendo occhi d'antracite la cui fulgida fissità faceva cadere in catalessi i galli e turbava le ragazze.
Intanto le sue dita gialle di nicotina si agitavano a mescolare le stagioni come un mazzo di carte da gioco.
Qui si conviene ch'io confessi al lettore la mia atavica diffidenza per le scienze esatte, e la mia vocazione per le intuizioni fantastiche lampeggianti nelle zone misteriose dell'inconscio.
L'istinto che regola la vita degli animali, i sogni premonitori che anticipano il futuro, il presentimento di un ciclo biologico che ci riporta infinite volte sulla Terra, e l'eternità sferica del tempo-spazio, sono state sempre per me le basi di un sistema personale, che solo in determinate occasioni fingo, per opportunità, di ricoprire con la vernice di una cultura scolastica atta a non allarmare i benpensanti.
Di qui la mia inclinazione irresistibile per le allegorie, per l'ermeneutica, per i simboli e per i sortilegi.
Di qui il mio amore per le bestie, che non possono essere capite da chi non ha il senso della poesia e del mistero, e la mia diffidenza per gli uomini pratici, furbi, ordinati, logici e intransigenti che, sia detto per inciso, furono certamente scacciati dal Paradiso terrestre per avere voluto distinguere il bene dal male, in contrasto al saggio divieto di assaggiare i frutti dell'albero della conoscenza.



Naturalmente, l'esser nato nell'Ottocento ( secolo nobilissimo preso a gobbo con troppa faciloneria dagl'irriverenti giovani d'oggi ), ha colorito l'immagine che mi sono fatta delle quattro stagioni siciliane, di un romanticismo che non ha niente a che fare coi Saraceni e coi Provenzali , coi Normanni o con gli Spagnoli.
Sarà perché ho vissuto nell'Isola ai tempi della prima Targa Florio, quando si andava soltanto in carrozzella ( costava meno che andare a piedi ) e a Palermo Delagrange starnazzava col suo catafalco di tela e di bambù sui prati della Favorita, che la primavera siciliana veste per me i panni della Gigi di Colette, e perde la testolina fra i muri freschi dei primi villini di Mondello, sulle ali di una romanza di Tosti raschiata dal grammofono a tromba.
Primavera col diploma di Magistero, il ciclo di tulle cilestrino e rosa confetto, e i fili del telegrafo pronti per le rondini.
Primavera piccolo borghese, più Capuana che Verga, più vaniglia che zagara, più Gasparina Torretta che Santuzza.
La primavera siciliana è breve come l'adolescenza delle fanciulle isolane che non hanno il tempo di posare il velo della Prima Comunione, che già devono confezionare quello da sposa, e appena deposta la bambola, cullano il primo nato.



L'estate è invece un dramma orgiastico splendente come il sangue, ardente come un braciere, affascinante come una piaga.
L'estate è il solstizio decapitato, opunzie sfregiate da cicatrici, l'abbacinante calura che sbianca il cielo, l'odore di strinato sulle groppe fumide, il lezzo delle alghe putrefatte, l'insonnia delle notti nell'ipnosi della luna arancione, il fiato che sa di tuberose.
L'estate piomba sull'Isola come una meteora di fuoco, risuona come un gong fra le rupi azzurre e il mare vermiglio per la carneficina della mattanza ( questa corrida acquatica con la fiocina al posto della picca ).
L'estate ronza di fuchi e di calabroni, tonfa di mortaretti, rulla di tamburi, squilla di campane, odora di ragia, di incenso e di pepe.
Estenuati giungono i siciliani a un autunno elegante, senza nebbie, e con quel poco di acquerugiola appena necessaria per dissetare i giardini arruffati di liane e stellati di gelsomino.
Allora le fanciulle si vestono di panno color tabacco biondo, pergamena, sabbia, tortora e foglia secca, rialzando i toni con qualche vezzo di corallo o con vecchi monili di granata, e ammorbidendo polsi e collarini con strisce di castoro.
Non ce ne sarebbe bisogno, come non ci sarà bisogno della pelliccia d'inverno , ma si desidera appunto il superfluo, e le belle siciliane spiano ogni giorno l'asticciola del termometro, per scoprirvi quel minimo di abbassamento che giustifichi il visone.
In mancanza di meglio si accontentano di guarnizioni di persiano, per veleggiare almeno con la fantasia verso nordici approdi, col cuore trafitto dalle ultime mandolinate.
Ogni tanto capita persino un Natale col cielo coperto, e allora le 'meravigliose' di Palermo e gli 'incredibili' di Catania esultano.
L'incauto 'inghilese' che in quel giorno osasse passeggiare per Taormina in maniche di camicia, verrebbe guardato severamente.



I siciliani coccolano il loro breve inverno con la cura gelosa del del collezionista, e lo sorvegliano come fanno gli allevatori per gli esemplari rarissimi.
Hanno le nevi dell'Etna, è vero, ma si stagliano contro un cielo implacabilmente azzurro e sembra neve dipinta.
Fra dicembre e gennaio, sulle coste che guardano l'Africa, i forestieri fanno il bagno, e i nativi crollano il capo e li gratificano di 'foddi'.
In febbraio, qualcuno svegliandosi all'alba, crede di vedere gli alberi inzuccherati di brina, ma sono i mandorli che incominciano a fiorire.
Le stagioni siciliane sono tuttavia quattro, e soltanto la gente di poca fede può metterlo in dubbio, ma fanno parte della vita segreta dell'Isola, e vanno decifrate in base al calendario delle sagre, alla sapienza spicciola dei proverbi popolari, al volo degli uccelli migratori, all'abbaiamento dei cani e ai telegrammi fosforescenti delle lucciole che tracciano punti e linee nell'oscurità, quando, per dirla con Blaise Cendras, 'le ciel est comme la tente déchirée d'un cirque pauvre, dans lage de pecheurs...'"













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