giovedì 4 ottobre 2018

UNA FATICA FAMILIARE NELLA LAVORAZIONE DEI "PACHINO"

Pomodori "pachino" in essiccazione.
Le fotografie sono di ReportageSicilia

In un angolo di provincia ragusana battuta dal sole e dal vento del mare, oltre un muretto a secco che delimita una strada provinciale, un largo spiazzo di terra è il parcheggio di vecchi camion fermi lì da anni.
L'accesso è libero, malgrado la presenza di un paio di cani randagi consigli di distogliere più volte lo sguardo dal mirino della macchina fotografica.
L'occhio viene attirato dal verde petrolio di un paio di bassi teloni traforati che spuntano dalla cima di una vicina collinetta; fatti alcuni passi, vi si scopre la silenziosa attività di un gruppo di persone intente a dividere a metà rossi cumuli di pomodorini.



Sono i componenti di un intero nucleo familiare della zona: padre, madre, figli e cognati, impegnati da maggio a settembre nella raccolta e nel taglio del "pachino".
Il compito è durissimo, perché i teloni riescono a stento a mitigare i raggi di un sole cocente e perché gli insetti - attirati dal succo delle polpe - ronzano impazziti fra le ceste che raccolgono i pomodorini spaccati in due parti.
Poco distante, il prodotto così lavorato viene sistemato su una distesa di tavole in legno, ricoperte da vecchie lenzuola.



Rimarrà a seccare al massimo per un paio di giorni: è il tempo giusto per evitare che i raggi del sole possano bruciare le migliaia di pomodorini raccolti e tagliati con grande fatica. 
Uomini e donne lavorano almeno dieci ore al giorno ed il guadagno è minimo: una volta seccato, i "pachino" secchi saranno rivenduti per poche decine di centesimi al chilogrammo ad alcuni grossisti della Sicilia orientale.
In quest'angolo assolatissimo dell'Isola, il lavoro vive ancora all'ombra dello sfruttamento e della povertà, in condizioni igieniche incerte: una situazione che il passare dei decenni, purtroppo, ripresenta ancora in molte zone agricole della Sicilia

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