domenica 26 aprile 2020

L'ANGLISTA ED IL PERDUTO SAPORE DELLE TRIGLIE DI SEGESTA

Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia

"Di certi sapori ho preso coscienza solo ora che li ho perduti.
E questo accade perché li ricerco accanitamente, e non li ritrovo.
E ormai so di non poterli trovare mai più.
L'ultima occasione stinge ormai nel ricordo di molti anni fa in Sicilia, sotto il tempio di Segesta..."

Non sappiamo se, in un giorno imprecisato di qualche decennio fa, il professore romano Gabriele Baldini - autorevole anglista del tempo - fosse capitato in Sicilia per smentire la strampalata tesi sulle origini messinesi di William Shakespeare.
Certamente, Baldini - sposato con Natalia Ginzburg e frequente collaboratore del "Corriere della Sera", "Il Messaggero", "Il Mondo", "Belfagor" ed altri periodici - ebbe modo di conservare memoria di quel viaggio per un inatteso pranzo al cospetto di uno dei più bei templi dell'Isola


  
"Era mezzogiorno - ricordò sul "Corriere della Sera, il primo marzo del 1966 - e avevo lasciato la Seicento sul ciglio dello stradone.
M'ero passeggiato dentro e fuori il tempio, deserto.
L'inverno non era ancora finito.
Il cielo non era proprio sgombero.
Nell'aria era sospeso un temporale che poi non ruppe.
Il tempio riceveva una luce diffusa e opaca da non si sa dove.
Ma scendendo per un sentiero vhe si snodava sotto mi scontrai, in fondo a una valletta, in qualcuno che non c'era prima: tree uomini attorno a un piccolo fuoco d'arbusti che guizzava tra due mattoni.
Avevano abiti scuri e cappelli neri calati su volti chiusi.
Uno, forse due, avevano gambali.
Ritta, repentina, alle spalle, la linea azzurrina delle canne dei fucili.
Erano cacciatori, forse.
Forse briganti.
Supposizione, quest'ultima, improbabile, infondata e certo ridicola: e affiorò solo per la decisione, quasi la violenza con cui mi rivolsero l'invito di dividere il loro pasto.
Ero solo, rifiutare, anche nel modo più gentile, sarebbe stato non già offensivo per loro ma pericoloso per me.
M'offersero pochi, semplicissimi cibi: una fetta d'un grosso pane piatto, triglie ai ferri, un bicchiere di vino bianco.
Il vino era limpido, forte e molto secco ma non tanto che non vi balenasse, al fondo, la dolcezza del velluto.
Le triglie mi furono portate appena tolte dalla gratella, su una fetta di pane.


Imitandoli, staccai la polpa con le mani, e l'avvicinai alle labbra.
L'assaporai con un resto appena di diffidenza, poi l'addentai, la masticai, e con la più studiata della lentezza la inghiotii.
E fui bene attento a trattenere, anche se per pochi attimi, quell'ultima occasione di attingere la comunione con la natura.
Capii che i miei denti erano ancora quelli di un uomo, e che alla mia lingua era concesso, forse per l'ultima volta, di ignorare i privilegi della civiltà surgelata.
Apparve una seconda bottiglia.
I nostri lineamenti presero a distendersi.
Spuntò qualche reciproco complimento.
Le labbra si incurvarono al sorriso.
Si fecero ritrarre in una fotografia.
La minaccia del temporale si allontanò galoppando dietro i cipressi.
Un breve delirio avvolse la persona per qualche istante d'abbandono.
Una sonnolenza tranquilla dapprima quietò e poi rinfrancò lo spirito, che ritrovò l'energia di un giovinetto sgambettante alla scoperta del mondo..."

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