giovedì 25 giugno 2020

PANTELLERIA, L'ISOLA DELL'ATTRAZIONE O DELLA FUGA

Una scogliera di Pantelleria.
Foto di Nino Teresi,
pubblicata nel settembre del 1970
dalla rivista "Sicilia"

L'ultima volta che ho messo piede a Pantelleria in aereo è stata la prima ed unica volta che ho sperimentato la paura provocata da una discesa fra violente raffiche di vento, accompagnate da una serie di interminabili cadute nel vuoto dell'ATR 42 seguite da una brusca risalita e dall'annuncio di un forzato ritorno a Palermo.
Se il mio viaggio non fosse stato reso necessario da motivi di lavoro, mi sarei risparmiato - qualche ora dopo - il brivido di un secondo tentativo di atterraggio sulla pista pantesca caparbiamente messo a segno dal pilota.
L'accaduto mi ha fatto riflettere su un'opinione corrente che circola su Pantelleria; quella secondo cui quest'isola aspra e nera di roccia vulcanica, priva di spiagge, con un mare blu cobalto, un lago luccicante incassato fra le colline, una montagna che supera gli 800 metri di altezza, una campagna ricca di frutti e di "dammusi" arabi abitati da milanesi, possa suscitare in un nuovo visitatore stati d'animo contrastanti.
Più di altre isole siciliane, cioè, Pantelleria si ama o si detesta, proprio per la forza dominante del paesaggio e di una natura in cui gli elementi padroni sono il vento, il mare e le rocce modellate dal fuoco vulcanico.
Di questo carattere di Pantelleria ha così scritto Giosuè Calaciura:

"Pantelleria - si legge in "Pantelleria. L'ultima isola" ( Editori Laterza, 2016 )- è diversa da tutte le altre per conformazione e sentimento, isola di magnetismi di poli opposti che si respingono, si attraggono, la mantengono galleggiante.
Contraddizioni palpabili, a volte sino al rifiuto.
Al molo, nei pomeriggi di 'malura' di pesce perché la corrente è 'cuntrariusa', o perché anche le creature acquatiche restano sgomente dei luoghi del sottomare, i pescatori di canna si raccontano leggende di viaggiatori sbarcati che nell'urgenza del loro malessere hanno trascinato i trolley lungo tutta la banchina, sono entrati nell'ufficio Siremar e hanno acquistato i biglietti per il loro ritorno immediato con lo stesso traghetto all'isola madre, a Trapani, nell'incongruenza di quanto sembri più rassicurante la Sicilia, tutto il mondo, da Pantelleria..."    
  

martedì 23 giugno 2020

RITARDI, GIRI VIZIOSI E INTERESSI DI PARTITO NEL VARO DELLA COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA

Una carta geografica della Sicilia centrale
in dotazione nel 1963
 alla Commissione parlamentare d'inchiesta sulla mafia.
Opera citata

Fra il 1867 ed il 1910, lo Stato italiano diede corso a cinque diverse inchieste sulla criminalità mafiosa in Sicilia: un cancro che ancora ai nostri giorni - malgrado un secolo di arresti, condanne e confische di beni - continua a lasciare tracce vitali ed evidenti sulla società e sull'economia dell'Isola.
L'esigenza di dovere analizzare le cause e individuare le complicità che favoriscono la violenza mafiosa è nata quindi già pochi anni dopo l'unità d'Italia.
La nascita dello Stato repubblicano non ha risolto la questione che ancor oggi impegna magistrati e forze dell'ordine.
Dal secondo dopoguerra, anzi, la mafia ha rafforzato la sua vitalità - pensiamo ai tanti eccidi ed alle stragi, paragonabili ad atti di terrorismo -  e la capacità di penetrazione nel sistema degli enti pubblici e dell'economia locale, spesso godendo della copertura di pezzi delle istituzioni.
Messo alle strette dai più gravi delitti - l'eccidio Dalla Chiesa, quelli Falcone e Borsellino, ad esempio - lo Stato si è  spesso in passato limitato ad attendere che la mafia si manifestasse con azioni di eccezionale violenza, prima di imporre una reazione necessaria a contenere l'idea di una eccessiva debolezza dei governi.
Sono così nati specifici gruppi investigativi ed istituite misure giudiziarie destinate a limitare il potere violento di Cosa Nostra.


Il fascicolo della Commissione
riguardante Salvatore Lucania,
alias "Lucky Luciano"

La linea dell'attendismo è stata applicata anche per il varo della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla mafia: rimandato per anni, venne infatti deciso in tutta fretta nel 1963, pochi giorni dopo la strage palermitana di Ciaculli, costata la vita a sette fra carabinieri, poliziotti e soldati dell'Esercito. 
Di una inchiesta sulle attività del crimine organizzato in Sicilia si era discusso sin dal 1948, quando il comunista Giuseppe Berti presentò alla Camera - il 14 settembre di quell'anno - un progetto di legge per l'istituzione di una Commissione parlamentare.
La maggioranza di governo bocciò allora la proposta.
Lo stesso disegno di legge, presentato nel novembre del 1958 da Ferruccio Parri e Simone Gatto - durante i mesi di una sanguinosa  faida a Corleone fra i clan Navarra e Liggio, che avrebbe visto affermarsi quest'ultimo, con l'appoggio di Riina e Provenzano - incontrò all'inizio una forte opposizione.


Donato Pafundi, primo presidente
della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla mafia.
In precedenza, aveva ricoperto gli incarichi di
procuratore generale e e presidente onorario di Cassazione

Portato in discussione nell'aprile del 1961 davanti la prima Commissione permanente del Senato, il provvedimento venne ancora una volta respinto.
Il disegno di legge Parri-Gatto fu però riproposto l'anno successivo, quando un voto unanime dell'Assemblea regionale siciliana ne sollecitò l'approvazione.
Prima di arrivare al voto del 30 marzo del 1962, la stessa Assemblea aveva discusso una mozione socialista ed un'interpellanza comunista.
La prima impegnava il presidente della Regione - che in base allo Statuto dell'Autonomia è responsabile dell'ordine pubblico in Sicilia ( funzione in realtà mai espletata ) - a riferire all'Assemblea sugli accertamenti compiuti sulla mafia, e chiedeva la costituzione di una Commissione d'inchiesta.
L'interpellanza comunista invitava il presidente della Regione ad esercitare pressioni istituzionali per sollecitare un'inchiesta parlamentare della Camera e del Senato sulla criminalità mafiosa nell'Isola.
La proposta d'inchiesta presentata da Parri e Gatto al Senato, fu approvata l'11 aprile del 1962.
Alla Camera dei Deputati si avviò il 28 novembre dello stesso anno la discussione su un'altra proposta di legge, che venne approvata il 12 dicembre.
Tuttavia - mentre le cronache siciliane continuavano a riferire omicidi e attentati di chiara matrice mafiosa - la nomina della Commissione venne ancora rimandata al 28 aprile del 1963, il giorno prima dello scioglimento delle Camere per le elezioni.
La Commissione potè finalmente iniziare i suoi lavori il 6 luglio del 1963, 6 giorni dopo la strage di Ciaculli.
Vincolati al segreto d'ufficio, ciascun commissario fu dotato di una ristampa della vecchia relazione finale sullo stato delle condizioni economiche e sociali in Sicilia firmata nel 1875 dall'onorevole Romualdo Bonfadini: un documento in cui la mafia non veniva indicata come un'associazione a delinquere, ma come una "prepotenza diretta ad ogni scopo di male".
Del nuovo organismo parlamentare fecero parte cinque siciliani: il democristiano Giuseppe Alessi, il socialista Vincenzo Gatto, il missino Angelo Nicosia, i comunisti Nicolò Rosario Cipolla e Girolamo Li Causi


Il boss di Corleone, Luciano Liggio.
Le altre foto ritraggono, nell'ordine,
Vincenzo Rimi, capomafia di Alcamo,
Salvatore Greco e Angelo La Barbera,
entrambi di Palermo





La sofferta storia della istituzione di una Commissione parlamentare nata in ritardo sui tempi e con profonde divisioni interne venne così riassunta il 3 dicembre 1967 dal Livio Pesce sul settimanale "Epoca":   
         
"Nel 1958 - si legge in un articolo intitolato "I segreti della mafia" illustrato dalle fotografie ora riproposte da ReportageSicilia - i senatori Parri e Simone Gatto propongono un'inchiesta parlamentare sulla mafia.
Il relativo disegno di legge viene approvato quattro anni dopo, alla fine del 1962.
A presiedere la Commissione è chiamato l'onorevole Paolo Rossi, socialdemocratico.
Ma la Commissione stessa non entra in azione, arriva la fine della legislatura.
Il Parlamento si scioglie e tutto resta fermo.
Dopo le elezioni dell'aprile del 1963 si riprende il discorso.
Pafundi, alto magistrato in pensione, non fa parte del Parlamento, essendo risultato primo fra i non eletti dopo il senatore democristiano Zotta, suo cugino.
La Commissione è sempre ferma e, anzi, Paolo Rossi va a presiderne un'altra, quella dei 'Diciannove' per l'Alto Adige.
Intanto muore Zotta e Pafundi entra al Senato.
Quindici giorni dopo, l'onorevole Giovanni Leone gli telefona e gli dice:

'Pafundi, devi rendere un servizio allo Stato'
'Quale?'
'Assumere la presidenza della Commissione antimafia'

L'ex magistrato protesta che lui 'non è un politico', gli rispondono 'meglio così'.
Alla fine, accetta.
La Commissione, formata da 13 democristiani, compreso il presidente, 8 comunisti, 4 socialisti, 2 socialdemocratici, il senatore a vita Parri ed un missino, s'insedia ma solo formalmente.
I comunisti sono decisi a dar battaglia ai democristiani, ben sapendo che la mafia si attacca al potere come le mosche al miele.
E i democristiani sono altrettanto decisi a difendere il loro partito da ogni 'speculazione', vera o presunta.
Tutto rischia di invischiarsi nelle sabbie mobili della politica.
Ma a un certo punto, è proprio la mafia a rompere questo giro vizioso con un delitto più clamoroso degli altri: la strage di Ciaculli del 30 giugno 1963, che costa la vita a sette carabinieri e soldati, fra cui un ufficiale.
Ne nasce un'ondata di indignazione generale che mette in moto l'Antimafia..."

mercoledì 10 giugno 2020

UN ELENCO DI 'NCIURIE DI PESCHERECCI MAZARESI

Pescherecci di Mazara del Vallo.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia

L'uso delle "nciurie" - i soprannomi dati a singole persone o famiglie - è ancora diffuso in molte comunità dell'Isola, sia nei piccoli centri urbani che nelle periferie urbane.
In un godibile volume che raccoglie centinaia di testimonianze sulla storia dei pescatori di Mazara del Vallo, edito dal Comune nel 2016 ( "Mazara del Vallo, la voce del suo mare" ) Flora Savona Marrone riferisce una lista di "nciurie" assegnate dai mazaresi ai pescherecci, "antropomorfizzati ed identificati con un soprannome" - scrive nella prefazione Antonino Cusumano - "più che con il loro nome ufficialmente registrato e fissato sulla fiancata dello scafo".

Alcune di queste vecchie "nciurie" di barche si spiegavano con le loro caratteristiche costruttive e, talora, con i difetti di funzionamento:

"Lu Cazzottu" e "Lu Cutugnu", perché erano corte e grosse; "Testa 'Nfunnu", perché aveva la prua molto bassa; "La Peccatrice", perché aveva la prua larga e grossa; "La Cunculina", perché aveva la forma di una bagnarola; "Lu Carrumattu", perché era lunga e grossa; "La Caserma di Carrabbinieri", perché aveva la cabina molto alta; "Buchi Buchi""Boogie Woogie", ndr ), perché il motore faceva ballare la barca; "Dechè Dechè" e "Scim Sciam", perché i motori, mal funzionanti, facevano questi rumori.

Altre barche, ricorda Flora Savona Marrone, erano appellate per le abitudini degli equipaggi o dei proprietari:

"Lu Cufuneddru", perché a bordo tutti fumavano la pipa; "La Munnizza", perché era poco pulita; "Fatti avanti e poche parole", perché il proprietario, appassionato dell'opera dei pupi, quando assisteva agli spettacoli gridava al saraceno, "Fatti avanti e poche parole!"; "La Rattarola", perché i proprietari grattavano soldi da tutte le parti; "Lu Va e Veni", perché portava pochi pesci e l'equipaggio entrava ed usciva dal porto continuamente; "T'ascippu la testa", perché se un ragazzo saliva a bordo mentre la barca era ormeggiata, il proprietario gli gridava minacciosamente "O scinni, o t'ascippu la testa".


Altre barche, invece, meritarono la loro "nciuria" per episodi rimasti impressi nella memoria dei pescatori mazaresi:

"L'ultimu jornu di carnalivaru", perché arrivò in porto l'ultimo giorno di un carnevale; "La 'Nnamurata", perché il proprietario si era innamorato; "Minchia chi è laria!", perché un marinaio, battendo la testa mentre si trovava a bordo, esclamò dolorante la fatidica frase.

martedì 9 giugno 2020

L'ISOLA DEI CONIGLI ED IL RICORDO DELL'UCCISIONE DI UNA FOCA MONACA

L'isola dei Conigli, a Lampedusa.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Fra i luoghi della Sicilia che in passato hanno vantato la frequente presenza della rara foca monaca figura Lampedusa.

Il ricordo di questo mammifero si perde oggi nella memoria dei più anziani lampedusani ed è attestato dalla lettura di brevi cronache giornalistiche di tempi remoti.
Una di queste risale all'aprile del 1896 e descrive l'uccisione di una foca monaca - definita "un mostro marino" solitamente non presente a Lampedusa - nei pressi dell'isola dei Conigli

"Nell'isola di Lampedusa è stato pescato un mostro marino, e in un modo che pare un capitolo del romanzo di 'Robinson Crosuè'.
Un contadino, camminando sulla spiaggia dell'isola, udì un rumore strano e sconosciuto.
Guardatosi attorno per conoscere la causa di quel rumore, vide che all'imboccatura di una grotta dell'isola dei Conigli, scoglio lontano dalla costa lampedusana una ventina di metri, disteso sulla morbida alga del mare, dormiva tranquillamente un animale di forme colossali.
Il contadino corse subito ad un vicino casolare e, armatosi di un fucile carico a palla, scaraventò sul mostro due fucilate che colpirono a segno.



L'animale ucciso è lungo tre metri, pesa quasi 150 chilogrammi, ha quattro zampe ed unghie molto sviluppate, bocca relativamente piccola, armata di robusta dentatura, è sfornito di baffi, ha pelle di color plumbeo con peluggine assai lucente al dorso, mentre alla base presentasi giallastra, senza pelatura.
Pare trattasi di una enorme foca, il che sarebbe un fenomeno straordinario, poiché le foche non vivono in questi mari"