mercoledì 22 dicembre 2021

BREVE NOTA SULLA STORIA DELL'OLIO IN SICILIA

Raccolta delle olive in Sicilia.
Fotografie di Melo Minnella,
opera citata nel post


Una delle tracce più antiche del consumo delle olive in Sicilia, risalente al Neolitico antico, è stata trovata all'interno della Grotta dell'Uzzo, nell'area della riserva naturale dello Zingaro. Alla media età del Bronzo - il XIV secolo avanti Cristo - risalgono altre indicazioni che attestano la coltivazione degli ulivi nel siracusano, nella necropoli di Cozzo del Pantano. Queste ed altre indicazioni storiche sulla storia dell'olio nell'Isola si leggono nel bel libro "Olio Nostrum", scritto nel 2015 da Manfredi Barbera e Carlo Ottaviano ( AGRA, Roma ). Gli autori ricordano pure come la ricchezza di Agrigento nel V secolo avanti Cristo - premessa alla costruzione di un opulento complesso di templi - sia da riferire all'esportazione di olio a Cartagine ed in altri porti del Mediterraneo.


 

"L'olivo in Sicilia - aveva scritto qualche anno prima il geografo Ferdinando Milone in "Sicilia. La natura e l'uomo" ( Paolo Boringhieri, Torino, 1960 ) - è anche più antico della vite. Sembra che vi sia pervenuto dalle isole dell'Egeo, che sono il suo centro mediterraneo di dispersione, sin dai primi contatti con quel mondo, non troppo lontano neppure quando i battelli erano poco più di un guscio di noce. Sarebbe stato introdotto, secondo gli archeologi, ancor prima dell'arrivo dei coloni greci, i quali, tuttavia, ne avrebbero diffuso la pianta. Secondo Diodoro Siculo, olio sarebbe stato esportato dall'isola, ai tempi suoi; e Tucidide, assai prima di lui, ci descrive gli oliveti chiusi da muretti a secco. L'olivo doveva essere, nell'antichità, uno dei principali elementi del paesaggio siciliano. Del resto, è così ancora oggi; e caratteristiche sono le frequenti piante secolari dalle verdi chiome sopra colossali tronchi contorti... Secondo l'Amari, la coltivazione dell'olivo, decaduta, non era neppure rifiorita sotto gli arabi, anche se l'isola già allora doveva essere, forse, il principale centro di produzione del Mezzogiorno. Augusto Lizier, più di mezzo secolo fa, affermava che prima del Mille l'olivo doveva essere assai meno diffuso della vite, perché i documenti ne facevano poca menzione, e solo verso la metà di quel secolo il ricordo si fa più frequente. Del pari, mentre spesso veniva nominato il 'palmentum' per il vino, assai più di rado ricorre il nome del 'trapetum'. Ne deduce giustamente che la coltura dell'olivo dovesse essere molto più scarsa; e lo spiega con l'abbondanza dei maiali o delle greggi che non facevano sentire il bisogno dei grassi vegetali, ma anche con la necessità del lungo anticipo del capitale e del lavoro per il suo impianto...



Ancor oggi gli uliveti costituiscono una delle più importanti voci dell'agricoltura siciliana, sfidando l'impatto del cambiamento climatico degli ultimi anni; secondo dati nazionali Ismea e Unaprol, nel 2021 l'Isola ha prodotto oltre 42.000 tonnellate di olio, con un incremento del 30 per cento rispetto al 2020. Alla coltivazione ed alla raccolta delle olive, pratiche intese come aspetto primario della cultura contadina ed economica della Sicilia, hanno dedicato i loro scatti tutti i più importanti fotografi dell'Isola. Le fotografie riproposte da ReportageSicilia portano la firma di Melo Minnella. Furono pubblicate nel novembre del 1966 dalla rivista "Sicilia" edita dall'assessorato regionale al Turismo. Ignoti sono i luoghi della documentazione di Minnella, che nel raccontare il faticoso impegno nelle operazioni di raccolta di uomini, donne e bambini conferma il valore rituale e simbolico della produzione dell'olio, così come scritto da Predrag Matvejevic in "Breviario Mediterraneo" ( Garzanti, 1987 ):

"Anche gli attrezzi legati all'olio, come quelli per le attività delle saline, sono modesti: un canestro e una pressa che si chiamava in modo diverso a seconda dei vari paesi ( torchio: torkuo, torkul, turanj, tos muljaca o tìjesak ), il mulino e la macina da mulino, i colatoi più stretti e più larghi... In certi posti sono ancora gli asini che continuano a girare la macina dei frantoi... L'intenzione stessa di macinare le olive come il frumento mostra l'inseparabilità sul Mediterraneo dell'olio e della farina, del grasso e del pane. La produzione dell'olio non è solo un mestiere, è anche una tradizione. L'oliva non è solo un frutto: è anche una reliquia..."


L'ULTIMA PROMESSA SULL'ACQUA PERDUTA DI AGRIGENTO

"Il secchio vuoto ad Agrigento".
La fotografia di Nicola Sansone
è tratta dalla rivista "Il Mondo"
pubblicata il 7 settembre del 1965


L'ennesima annunciata fine della traversata del deserto per Agrigento e per altri 16 comuni del comprensorio porta la data del dicembre del 2023. E' la scadenza indicata dalla Regione per garantire il potenziamento delle reti idriche che dovrebbe risolvere lo storico problema dei razionamenti e delle turnazioni di acqua in questa provincia dell'Isola. L'aspettativa di porre termine al secolare male agrigentino segue decennali promesse di soluzioni mai arrivate; rassicurazioni fondate sull'erogazione dei finanziamenti della Cassa per il Mezzogiorno e, in decenni più recenti, sulle aspettative di un corretto funzionamento delle reti idriche, dei dissalatori e delle dighe: infrastrutture deficitarie per le carenze di manutenzione, i mancati collaudi, i furti. Fra gli agrigentini, fatalismo e rassegnazione hanno da tempo soppiantato la speranza di poter disporre di un regolare rifornimento di acqua: un argomento tirato fuori in passato ad ogni campagna elettorale, ed oggi non più in grado di suggestionare le scelte degli elettori.  Così quella che è stata una delle più ricche città della Magna Grecia, all'epoca dotata di un efficace sistema di distribuzione idrica per 200.000 abitanti - gli ipogei - continua ad essere il luogo simbolo della grande sete siciliana.


 

"L'eterno problema dell'acqua è ancora insoluto e la gente tace - ha scritto Francesco Pillitteri in "Con la testa all'indietro. Ricordi di un agrigentino" ( Kalos, Palermo, 2007 ) - la città è misera ed abbandonata all'incuria senza che i suoi abitanti si ribellino anche se non mancano occasione per vantarsi di essere figli della grande Akragas, di quella terra così ricca e bella nella sua lussuosa natura e nei suoi vetusti ed ammirati monumenti..." 


 

sabato 11 dicembre 2021

IL COMUNE CAMMINO DEI FENICI E DEI TONNI NEI MARI DI SICILIA

Pesca del tonno.
Pavimento settecentesco in maiolica
esposto al Museo Agostino Pepoli a Trapani.
Fotografie Ernesto Oliva-ReportageSicilia


"Una dissertazione letteraria, colta e a volte struggente". Così Matteo Collura definì il saggio introduttivo scritto nel giugno 1986 a Milano da Vincenzo Consolo al libro "La pesca del tonno in Sicilia" ( Sellerio, Palermo, 1986 ), aggiungendo che la caccia marina ai tonni "diventa una sorta di metafora della Sicilia, delle sue dominazioni, delle sue occasioni o risorse non sfruttate o sprecate".



Nell'analisi di Consolo della storia della pesca del tonno nel Mediterraneo, la Sicilia diventa centro ed epilogo del loro tragico destino di morte con il rito della mattanza ( dallo spagnolo "matar", uccidere ). E rifacendosi ai tempi più antichi di questa pesca, nel suo saggio lo scrittore messinese accomuna le rotte solcate dai fenici a quelle percorse dai grandi pesci pelagici:  

"Viene dunque a branchi dall'Atlantico, il tonno, oltrepassa la strettoia di Gibilterra e s'espande per il basso e l'alto Mediterraneo, per le coste nord-africane, per quelle sarde, corse, spagnole e francesi.



Ma in maggior numero viene a quell'isola grande che incontra al centro del suo cammino, alla Sicilia, incrocio e centro anche oggi d'ogni antica navigazione dell'uomo. E sembra, quello del tonno, lo stesso cammino dei fenici, che provenendo dall'opposta parte, dall'Oriente, sulle loro snelle e veloci navi dalle vele purpuree, dall'occhio apotropaico, grande e rotondo dipinto sull'alta prora, sulle loro navi-tonno, per le stesse coste navigavano, negli stessi luoghi approdavano, aprendo empori di scambi d'oggetti e di civilizzazione. 



E ci piace credere che questi disincantati e pratici mercanti, questi punici che posero a simbolo il tonno sulle loro monete, abbiano per primi apparecchiato un sistema di reti, una prima rudimentale tonnara non troppo lontano da quel piccolo porto di Mozia, ancora oggi intatto nelle sue banchine di tufo, nei suoi edifici intorno..." 

giovedì 9 dicembre 2021

L'INGANNO, IL DANNO E LA BEFFA DELLO STABILIMENTO FIAT A TERMINI IMERESE

Operai della SICILFIAT
di Termini Imerese.
Nelle due foto successive,
modelli di "500" in lavorazione.
Immagini tratte dal quotidiano "l'Ora",
opera citata nel post 


"Gli uomini che hanno avuto il privilegio di indossare la tuta della Fiat nella zona di Termini sono appena 750. Quanti premono per entrare?  Chi dice ottomila, chi venti duemila. L'ufficio di collocamento di Termini dice 60, e francamente non ci crediamo. La paga oscilla tra 110 e 140 mila lire, poco per una famiglia, meraviglioso per chi vive di espedienti o muore di fame o emigra. La giornata è di otto ore, troppe per chi sta alla catena di montaggio, un bel salto per chi lavora "da scuro a scuro", dall'alba al tramonto inoltrato. Quaranta minuti di riposo in otto ore - concessi non quando l'operaio ne ha bisogno ( una sigaretta, un panino, andare al gabinetto ) ma quando la direzione ha stabilito che gli toccano - volano come secondi, ma quale bracciante qui intorno non darebbe via tutte le pause che si concede con la zappa,  per riprendere fiato, e la lenta colazione all'ombra, e il lento camminare, tanto la giornata è così lunga che non finisce mai? E che cosa non è disposto a fare un sarto, un calzolaio, un bracciante, per cento quarantamila lire sicure sicure?"

Con questo impareggiabile attacco del pezzo, Giuliana Saladino iniziò sulle pagine de "l'Ora" - il 6 marzo del 1972 - un reportage all'interno della SICILFIAT di Termini Imerese. Lo stabilimento era in quel periodo nel pieno della sua attività, assemblando giornalmente e spedendo via mare  duecentotrenta "500" destinate ai mercati del Sud d'Italia, alla Sardegna ed alla Liguria. Nel marzo del 1970 era stata montata la prima vettura, dando corpo ad una produzione FIAT nel palermitano già prospettata - secondo quanto scritto da Matteo G.Tocco in "Libro nero di Sicilia" ( Sugar Editore, Milano, 1972 ), citando un articolo del "Giornale dell'Isola" di Catania del 6 novembre 1947 - addirittura nell'ottobre di quel lontano anno:

"La stampa siciliana annunciò con grande evidenza che l'assessore ai trasporti della Regione siciliana aveva ricevuto i dirigenti della Fiat, con i quali aveva avviato trattative per consentire l'impianto di un grande stabilimento industriale per la produzione di automobili. Per un momento, i palermitani sognarono la loro città trasformata in una Torino, centro di una grande industria automobilistica rivolta ai mercati mediterranei. I dirigenti della Fiat erano stati larghi di promesse, talché l'assessore Di Martino poté, con orgoglio, annunciare che "una importante ditta aveva acquistato una vasta estensione di terreno alla periferia di Palermo, per creare una grande officina"



Secondo Di Martino, la nuova fabbrica si accingeva a garantire migliaia di posti di lavoro; e la Pirelli si era già impegnata a garantire una fornitura di 80.000 copertoni completi di camere d'aria. Malgrado l'entusiasmo dell'assessore, il progetto era però destinato a progredire con fatica ed in ritardo rispetto ai tempi indicati nell'immediato secondo dopoguerra:

"Nell'aprile del 1966 - ha scritto ancora Tocco - si era ancora indecisi se lo stabilimento dovesse sorgere nella zona di Carini a est di Palermo, oppure in quella di Termini Imerese, a ovest. Cosa era avvenuto perché l'iniziativa venisse bloccata per quasi un ventennio? Era avvenuto che la FIAT aveva detto alla Regione che non avrebbe tirato fuori una lira per realizzare l'impianto, il quale avrebbe dovuto essere finanziato interamente dagli enti regionali. In quel momento, la Regione non era in grado di accogliere la richiesta. Gli strumenti di intervento non erano stati ancora creati. All'inizio degli anni Cinquanta, la FIAT tornò alla carica. Ma il governo regionale non si sentì di accogliere proposte che presupponevano finanziamenti pubblici al cento per cento. Inoltre, gli esponenti dell'industria torinese non parlavano di una fabbrica di automobili, ma di una fabbrica di montaggio di parti fabbricate a Torino e spedite in Sicilia. Questo significava che i programmi occupazionali che avrebbero potuto giustificare l'intervento finanziario della Regione si riducevano notevolmente. L'operazione risultava inoltre pericolosa perché non veniva previsto come risolvere il problema dei costi del trasporto del materiale da montare"

Con queste premesse indicate da Tocco, la prosecuzione dell'"operazione FIAT" nel palermitano avrebbe dovuto suggerire lungimiranti perplessità. La creazione di uno stabilimento di semplice assemblaggio non poteva infatti garantire la duratura validità dell'iniziativa. Inoltre, l'avvio di un'attività para industriale avrebbe comunque precluso - come in effetti è accaduto a Termini Imerese - qualsiasi altra ipotesi di sviluppo di un territorio ricco di potenzialità ambientali, turistiche ed agricole insieme: un lungo litorale balneabile ed una pianura ricca di agrumeti ed oliveti. Sin dagli inizi degli anni Cinquanta si era inoltre discussa la possibilità di impiantate nella zona un grande pastificio, riunendo numerosi produttori eredi di una attiva tradizione industriale locale: un progetto rimasto sulla carta che forse avrebbe meritato maggior fortuna.  Le strategie e gli interessi dell'industria torinese ebbero così alla fine la meglio, grazie ad un accordo con la SO.FI.S, la Società Finanziaria Siciliana costituita dopo una serie di scontri fra gruppi di potere isolani ed italiani allo scopo di gestire lo sviluppo industriale della Sicilia: un "carrozzone" politico-clientelare che già nel 1964 denunciava una perdita di oltre 4 miliardi di lire, pari al 50 per cento degli investimenti che, durante lo stesso anno, erano stati di 9 miliardi. Scriverà a questo proposito nel 1972 Michele Pantaleone in "L'industria del potere" ( Cappelli editore, Bologna ):

"L'attività della SO.FI.S è stata un contrasto tra gli interessi della Regione e le iniziative industriali del grande capitale italiano, tra i gruppi di potere nazionali e quelli siciliani, tra le correnti e sottocorrenti dei partiti della maggioranza ed anche delle opposizioni, tra governo della regione e amministratori della SO.FI.S..."



L'operazione SICILFIAT - società costituita nel gennaio del 1963 e annunciata alla stampa pochi giorni dopo dal manager Vittorio Valletta - nacque dunque nel solco di queste strategie distorte per lo sviluppo industriale di Termini Imerese; la casa torinese riuscì ad impiantarvi la sua fabbrica a "costo zero", e solo dopo una valutazione di convenienza politica: 

"L'accordo ( per costruire lo stabilimento a Termini Imerese, ndr ) - si legge ancora in "Libro nero di Sicilia" - poté essere raggiunto quando la SO.FI.S - al cui capitale sociale partecipava anche la FIAT - non poté sottrarsi alle pressioni torinesi. A Torino la preoccupazione dominante era costituita dai programmi di espansione dell'Alfa Romeo appartenente al gruppo IRI. Si volevano cioè creare unità di produzione, con un certo numero di occupati, per manovrarle politicamente quando l'IRI avesse autorizzato l'Alfa Romeo a realizzare nuovi impianti. Si ha ragione di ritenere che, se gli impianti dell'Alfa Sud fossero stati realizzati prima dell'accordo Sicilfiat, gli impianti di Termini Imerese non sarebbero mai sorti..."



Le condizioni poste dalla FIAT per avviare il progetto dello stabilimento termitano - un impianto di 400.000 mq. da ubicare nei pressi della centrale Tifeo dell'ENEL - non lasciavano spazio alle concessioni. Oltre ai finanziamenti della SO.FI.S. dovevano essere garantiti anche quelli della Cassa per il Mezzogiorno. Così avvenne quando l'azienda piemontese presentò ufficialmente la richiesta del terreno: era il marzo del 1966. La SO.FI.S si accollò il 15 per cento dell'investimento, la Cassa il restante 85. L'intesa prevedeva che la Regione provvedesse alle opere di urbanizzazione: strade, luce, acqua.  La FIAT si impegnò a costruire una pista di prova delle automobili di 1550 metri - mai allestita - e soprattutto, di concerto con il ministero del Lavoro, un centro di formazione per giovani addetti alle catene di montaggio. La struttura avrebbe dovuto organizzare trenta corsi di qualificazione per "operai montatori d'auto in serie"; ogni corso era stato pensato per 25 persone, per un totale di 750 unità lavorative che avrebbero dovuto trovare occupazione nel nuovo stabilimento. L'accordo per l'avvio dei lavori della fabbrica termitana - il cui progetto venne presentato a Bari, nel corso della Fiera del Levante, nel settembre del 1967 - prevedeva inoltre che il consorzio per l'area di sviluppo industriale assegnasse il terreno a prezzo di favore, con agevolazioni anche di carattere fiscale. Ai proprietari delle aree agricole fu imposto un compenso di 700 lire al mq, minacciando l'esproprio per pubblica utilità in caso di richieste più alte. L'accettazione delle condizioni poste dalla FIAT fu completa, giungendo a piegarsi all'evidenza del danno ambientale: nella scelta dell'ubicazione della fabbrica ebbe un peso anche la vicinanza al mare, indicato come sito per lo scarico degli scoli e degli spurghi industriali! L'operazione prese avvio nel maggio del 1968, nel pieno fermento delle contestazioni studentesche anche in Italia.  Il giorno 15, una cerimonia celebrò l'acquisto da parte della SICILFIAT dei terreni; con enfasi, "Il Giornale di Sicilia" sottolineò la coincidenza dell'evento con il 22° anniversario dell'autonomia regionale. Si parlò di un'epoca nuova di lavoro e benessere per la provincia di Palermo, grazie "ad un fiorire di molteplici sub-industrie e collaterali, medie, piccole ed anche artigianali, destinate ad operare nell'industria automobilistica". L'investimento complessivo di SICILFIAT per la costruzione dello stabilimento a Termini Imerese non è documentato da ReportageSicilia. Unico dato contabile certo è quello di un aumento di capitale della stessa SICILFIAT avvenuto nel novembre del 1967: da 50 milioni a due miliardi e mezzo di lire. Nel settembre del 1970 la FIAT comprò le quote di partecipazione della Regione, divenendo proprietaria dell'intero pacchetto delle azioni. A questo punto, come ha spiegato Diego Novelli in "Sicilia '71" ( GEP, Torino, 1971 ):

"L'organico degli operai è stato bloccato a quota 660, oltre ad un centinaio di impiegati ed una ventina di invalidi addetti alle mansioni di ufficio, fattorini, centralinisti, ecc. Le organizzazioni sindacali hanno convocato la FIAT davanti alla commissione comunale sul collocamento ( prevista dalla legge regionale siciliana ): in quella sede, i dirigenti della fabbrica hanno replicato di avere informato l'ufficio provinciale del lavoro di non avere più necessità di mano d'opera. Tutto ciò accadeva esattamente tre giorni prima che gli allievi degli ultimi 5 corsi di addestramento, cioò 125 operai, affrontassero gli esami. Contemporaneamente in fabbrica venivano accelerati i ritmi dei reparti lastro-ferratura e verniciatura, e veniva aumentata la velocità sulla "linea". Alcuni invalidi, assunti per altre mansioni, venivano inseriti nella catena di montaggio, pretendendo da loro il cento per cento della produzione. Questo di questi lavoratori sono stati licenziati per scarso rendimento ma, dopo la protesta delle organizzazioni sindacali, la FIAT è stata costretta a riassumerli..."



Con queste premesse, l'incerta storia dello stabilimento FIAT di Termini Imerese - una fabbrica che pure ha garantito occupazione a centinaia di operai palermitani per una quarantina di anni - non poteva che avere un epilogo scontato: la totale dismissione in conseguenza delle nuove strategie aziendali. Nel novembre del 2011 circa 700 operai imboccarono il tunnel di una cassa integrazione che si protrae ai nostri giorni. Ogni aspettativa di una riconversione produttiva si è finora rivelata illusoria. La speranza rappresentata nel 2016 dall'ingresso nello stabilimento della BLUTEC - una società satellite della stessa FIAT che ha intascato almeno 20 milioni di euro di fondi pubblici - si è infranta contro il muro di una inchiesta giudiziaria per bancarotta fraudolenta e riciclaggio. La possibilità di trovare valide alternative imprenditoriali in sede locale si scontra con la debolezza economica di un territorio che, cinquant'anni fa, ha ripudiato una vocazione agricola d'eccellenza e le potenzialità turistiche di un litorale sfregiato per sempre da una "zona industriale" in gran parte da anni abbandonata. Eppure, nel corso del suo reportage sulle pagine de "l'Ora", Giuliana Saladino aveva registrato dal direttore del nuovo stabilimento FIAT alcune considerazioni che nel 1972 avrebbero dovuto suggerire l'epilogo della storia della fabbrica di Termini Imerese:

"Prima bisogna collaudare, verificare. Questo - avvertì il dirigente D'Andrea - è uno stabilimento-pilota per la FIAT, il primo del genere in funzione nel meridione. Prima di pensare all'espansione, dobbiamo avere la certezza di avere risolto problemi enormi che ci stanno di fronte. Primo: salire in quote, secondo, ottimizzare i rifornimenti. Si parte da zero e il cammino è lungo. Avremmo bisogno di piccole aziende capaci di garantire qualità e affidabilità. Non ci sono. Cerco per esempio chi abbia delle piccole presse, dei padellari, ecco proprio dei padellari, ma non siamo ancora riusciti ad avere fonti di rifornimento locali per lo stampaggio di piccole cose, per il momento gli unici contatti sono per le pulizie, qualche trasporto, piccole riparazioni..."

"Sarà anche questa, pensiamo, una mostruosa cattedrale nel deserto?", scrisse allora Giuliana Saladino in conclusione del suo articolo, consegnando cinquant'anni fa una profetica visione ai lettori.



 


 

        

venerdì 3 dicembre 2021

LA TOMBOLA ROULETTE A TRAPANI DI EUGENIO NACCI

"La tombola-roulette a Trapani",
fotografia di Eugenio Nacci,
opera citata


Figura meno nota nel panorama piuttosto ricco dei fotografi siciliani del secondo Novecento ( da Sellerio a Leone, da Minnella a Martorana, da Scafidi a Scianna ), il trapanese Eugenio Nacci ( 1930-2009 ) gode oggi di una memoria che non rende onore alla sua capacità di raccontare la realtà di un territorio ricco di spunti antropologici di documentazione fotografica.

Noto per gli scatti che raccontarono il dramma del terremoto del Belìce, negli anni Sessanta Nacci ebbe modo di pubblicare alcuni scatti sulla rivista "Il Mondo". Quello riproposto da ReportageSicilia fece la sua comparsa sul settimanale diretto da Mario Pannunzio il 26 gennaio del 1965. La fotografia di Nacci, accompagnata dalla didascalia "Trapani. La tombola-roulette", colse la riunione di un gruppo di giocatori al cospetto di un banditore ambulante. E' probabile che la chiamata dei 90 numeri avvenisse in quell'occasione secondo la tradizionale smorfia della tombola trapanese: solo per ricordarne alcuni, l'uno è "Pippineddu", il 22 "u fuoddi", il 35 "u lampu", il 55 "u vecchiu", il 62 "u mortu ammazzatu", l'83 "a cuccìa", il 77 "u riavulu", il 90 "u spaventu".