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Operai della SICILFIAT di Termini Imerese. Nelle due foto successive, modelli di "500" in lavorazione. Immagini tratte dal quotidiano "l'Ora", opera citata nel post |
"Gli uomini che hanno avuto il privilegio di indossare la tuta della Fiat nella zona di Termini sono appena 750. Quanti premono per entrare? Chi dice ottomila, chi venti duemila. L'ufficio di collocamento di Termini dice 60, e francamente non ci crediamo. La paga oscilla tra 110 e 140 mila lire, poco per una famiglia, meraviglioso per chi vive di espedienti o muore di fame o emigra. La giornata è di otto ore, troppe per chi sta alla catena di montaggio, un bel salto per chi lavora "da scuro a scuro", dall'alba al tramonto inoltrato. Quaranta minuti di riposo in otto ore - concessi non quando l'operaio ne ha bisogno ( una sigaretta, un panino, andare al gabinetto ) ma quando la direzione ha stabilito che gli toccano - volano come secondi, ma quale bracciante qui intorno non darebbe via tutte le pause che si concede con la zappa, per riprendere fiato, e la lenta colazione all'ombra, e il lento camminare, tanto la giornata è così lunga che non finisce mai? E che cosa non è disposto a fare un sarto, un calzolaio, un bracciante, per cento quarantamila lire sicure sicure?"
Con questo impareggiabile attacco del pezzo, Giuliana Saladino iniziò sulle pagine de "l'Ora" - il 6 marzo del 1972 - un reportage all'interno della SICILFIAT di Termini Imerese. Lo stabilimento era in quel periodo nel pieno della sua attività, assemblando giornalmente e spedendo via mare duecentotrenta "500" destinate ai mercati del Sud d'Italia, alla Sardegna ed alla Liguria. Nel marzo del 1970 era stata montata la prima vettura, dando corpo ad una produzione FIAT nel palermitano già prospettata - secondo quanto scritto da Matteo G.Tocco in "Libro nero di Sicilia" ( Sugar Editore, Milano, 1972 ), citando un articolo del "Giornale dell'Isola" di Catania del 6 novembre 1947 - addirittura nell'ottobre di quel lontano anno:
"La stampa siciliana annunciò con grande evidenza che l'assessore ai trasporti della Regione siciliana aveva ricevuto i dirigenti della Fiat, con i quali aveva avviato trattative per consentire l'impianto di un grande stabilimento industriale per la produzione di automobili. Per un momento, i palermitani sognarono la loro città trasformata in una Torino, centro di una grande industria automobilistica rivolta ai mercati mediterranei. I dirigenti della Fiat erano stati larghi di promesse, talché l'assessore Di Martino poté, con orgoglio, annunciare che "una importante ditta aveva acquistato una vasta estensione di terreno alla periferia di Palermo, per creare una grande officina"
Secondo Di Martino, la nuova fabbrica si accingeva a garantire migliaia di posti di lavoro; e la Pirelli si era già impegnata a garantire una fornitura di 80.000 copertoni completi di camere d'aria. Malgrado l'entusiasmo dell'assessore, il progetto era però destinato a progredire con fatica ed in ritardo rispetto ai tempi indicati nell'immediato secondo dopoguerra:
"Nell'aprile del 1966 - ha scritto ancora Tocco - si era ancora indecisi se lo stabilimento dovesse sorgere nella zona di Carini a est di Palermo, oppure in quella di Termini Imerese, a ovest. Cosa era avvenuto perché l'iniziativa venisse bloccata per quasi un ventennio? Era avvenuto che la FIAT aveva detto alla Regione che non avrebbe tirato fuori una lira per realizzare l'impianto, il quale avrebbe dovuto essere finanziato interamente dagli enti regionali. In quel momento, la Regione non era in grado di accogliere la richiesta. Gli strumenti di intervento non erano stati ancora creati. All'inizio degli anni Cinquanta, la FIAT tornò alla carica. Ma il governo regionale non si sentì di accogliere proposte che presupponevano finanziamenti pubblici al cento per cento. Inoltre, gli esponenti dell'industria torinese non parlavano di una fabbrica di automobili, ma di una fabbrica di montaggio di parti fabbricate a Torino e spedite in Sicilia. Questo significava che i programmi occupazionali che avrebbero potuto giustificare l'intervento finanziario della Regione si riducevano notevolmente. L'operazione risultava inoltre pericolosa perché non veniva previsto come risolvere il problema dei costi del trasporto del materiale da montare"
Con queste premesse indicate da Tocco, la prosecuzione dell'"operazione FIAT" nel palermitano avrebbe dovuto suggerire lungimiranti perplessità. La creazione di uno stabilimento di semplice assemblaggio non poteva infatti garantire la duratura validità dell'iniziativa. Inoltre, l'avvio di un'attività para industriale avrebbe comunque precluso - come in effetti è accaduto a Termini Imerese - qualsiasi altra ipotesi di sviluppo di un territorio ricco di potenzialità ambientali, turistiche ed agricole insieme: un lungo litorale balneabile ed una pianura ricca di agrumeti ed oliveti. Sin dagli inizi degli anni Cinquanta si era inoltre discussa la possibilità di impiantate nella zona un grande pastificio, riunendo numerosi produttori eredi di una attiva tradizione industriale locale: un progetto rimasto sulla carta che forse avrebbe meritato maggior fortuna. Le strategie e gli interessi dell'industria torinese ebbero così alla fine la meglio, grazie ad un accordo con la SO.FI.S, la Società Finanziaria Siciliana costituita dopo una serie di scontri fra gruppi di potere isolani ed italiani allo scopo di gestire lo sviluppo industriale della Sicilia: un "carrozzone" politico-clientelare che già nel 1964 denunciava una perdita di oltre 4 miliardi di lire, pari al 50 per cento degli investimenti che, durante lo stesso anno, erano stati di 9 miliardi. Scriverà a questo proposito nel 1972 Michele Pantaleone in "L'industria del potere" ( Cappelli editore, Bologna ):
"L'attività della SO.FI.S è stata un contrasto tra gli interessi della Regione e le iniziative industriali del grande capitale italiano, tra i gruppi di potere nazionali e quelli siciliani, tra le correnti e sottocorrenti dei partiti della maggioranza ed anche delle opposizioni, tra governo della regione e amministratori della SO.FI.S..."
L'operazione SICILFIAT - società costituita nel gennaio del 1963 e annunciata alla stampa pochi giorni dopo dal manager Vittorio Valletta - nacque dunque nel solco di queste strategie distorte per lo sviluppo industriale di Termini Imerese; la casa torinese riuscì ad impiantarvi la sua fabbrica a "costo zero", e solo dopo una valutazione di convenienza politica:
"L'accordo ( per costruire lo stabilimento a Termini Imerese, ndr ) - si legge ancora in "Libro nero di Sicilia" - poté essere raggiunto quando la SO.FI.S - al cui capitale sociale partecipava anche la FIAT - non poté sottrarsi alle pressioni torinesi. A Torino la preoccupazione dominante era costituita dai programmi di espansione dell'Alfa Romeo appartenente al gruppo IRI. Si volevano cioè creare unità di produzione, con un certo numero di occupati, per manovrarle politicamente quando l'IRI avesse autorizzato l'Alfa Romeo a realizzare nuovi impianti. Si ha ragione di ritenere che, se gli impianti dell'Alfa Sud fossero stati realizzati prima dell'accordo Sicilfiat, gli impianti di Termini Imerese non sarebbero mai sorti..."
Le condizioni poste dalla FIAT per avviare il progetto dello stabilimento termitano - un impianto di 400.000 mq. da ubicare nei pressi della centrale Tifeo dell'ENEL - non lasciavano spazio alle concessioni. Oltre ai finanziamenti della SO.FI.S. dovevano essere garantiti anche quelli della Cassa per il Mezzogiorno. Così avvenne quando l'azienda piemontese presentò ufficialmente la richiesta del terreno: era il marzo del 1966. La SO.FI.S si accollò il 15 per cento dell'investimento, la Cassa il restante 85. L'intesa prevedeva che la Regione provvedesse alle opere di urbanizzazione: strade, luce, acqua. La FIAT si impegnò a costruire una pista di prova delle automobili di 1550 metri - mai allestita - e soprattutto, di concerto con il ministero del Lavoro, un centro di formazione per giovani addetti alle catene di montaggio. La struttura avrebbe dovuto organizzare trenta corsi di qualificazione per "operai montatori d'auto in serie"; ogni corso era stato pensato per 25 persone, per un totale di 750 unità lavorative che avrebbero dovuto trovare occupazione nel nuovo stabilimento. L'accordo per l'avvio dei lavori della fabbrica termitana - il cui progetto venne presentato a Bari, nel corso della Fiera del Levante, nel settembre del 1967 - prevedeva inoltre che il consorzio per l'area di sviluppo industriale assegnasse il terreno a prezzo di favore, con agevolazioni anche di carattere fiscale. Ai proprietari delle aree agricole fu imposto un compenso di 700 lire al mq, minacciando l'esproprio per pubblica utilità in caso di richieste più alte. L'accettazione delle condizioni poste dalla FIAT fu completa, giungendo a piegarsi all'evidenza del danno ambientale: nella scelta dell'ubicazione della fabbrica ebbe un peso anche la vicinanza al mare, indicato come sito per lo scarico degli scoli e degli spurghi industriali! L'operazione prese avvio nel maggio del 1968, nel pieno fermento delle contestazioni studentesche anche in Italia. Il giorno 15, una cerimonia celebrò l'acquisto da parte della SICILFIAT dei terreni; con enfasi, "Il Giornale di Sicilia" sottolineò la coincidenza dell'evento con il 22° anniversario dell'autonomia regionale. Si parlò di un'epoca nuova di lavoro e benessere per la provincia di Palermo, grazie "ad un fiorire di molteplici sub-industrie e collaterali, medie, piccole ed anche artigianali, destinate ad operare nell'industria automobilistica". L'investimento complessivo di SICILFIAT per la costruzione dello stabilimento a Termini Imerese non è documentato da ReportageSicilia. Unico dato contabile certo è quello di un aumento di capitale della stessa SICILFIAT avvenuto nel novembre del 1967: da 50 milioni a due miliardi e mezzo di lire. Nel settembre del 1970 la FIAT comprò le quote di partecipazione della Regione, divenendo proprietaria dell'intero pacchetto delle azioni. A questo punto, come ha spiegato Diego Novelli in "Sicilia '71" ( GEP, Torino, 1971 ):
"L'organico degli operai è stato bloccato a quota 660, oltre ad un centinaio di impiegati ed una ventina di invalidi addetti alle mansioni di ufficio, fattorini, centralinisti, ecc. Le organizzazioni sindacali hanno convocato la FIAT davanti alla commissione comunale sul collocamento ( prevista dalla legge regionale siciliana ): in quella sede, i dirigenti della fabbrica hanno replicato di avere informato l'ufficio provinciale del lavoro di non avere più necessità di mano d'opera. Tutto ciò accadeva esattamente tre giorni prima che gli allievi degli ultimi 5 corsi di addestramento, cioò 125 operai, affrontassero gli esami. Contemporaneamente in fabbrica venivano accelerati i ritmi dei reparti lastro-ferratura e verniciatura, e veniva aumentata la velocità sulla "linea". Alcuni invalidi, assunti per altre mansioni, venivano inseriti nella catena di montaggio, pretendendo da loro il cento per cento della produzione. Questo di questi lavoratori sono stati licenziati per scarso rendimento ma, dopo la protesta delle organizzazioni sindacali, la FIAT è stata costretta a riassumerli..."
Con queste premesse, l'incerta storia dello stabilimento FIAT di Termini Imerese - una fabbrica che pure ha garantito occupazione a centinaia di operai palermitani per una quarantina di anni - non poteva che avere un epilogo scontato: la totale dismissione in conseguenza delle nuove strategie aziendali. Nel novembre del 2011 circa 700 operai imboccarono il tunnel di una cassa integrazione che si protrae ai nostri giorni. Ogni aspettativa di una riconversione produttiva si è finora rivelata illusoria. La speranza rappresentata nel 2016 dall'ingresso nello stabilimento della BLUTEC - una società satellite della stessa FIAT che ha intascato almeno 20 milioni di euro di fondi pubblici - si è infranta contro il muro di una inchiesta giudiziaria per bancarotta fraudolenta e riciclaggio. La possibilità di trovare valide alternative imprenditoriali in sede locale si scontra con la debolezza economica di un territorio che, cinquant'anni fa, ha ripudiato una vocazione agricola d'eccellenza e le potenzialità turistiche di un litorale sfregiato per sempre da una "zona industriale" in gran parte da anni abbandonata. Eppure, nel corso del suo reportage sulle pagine de "l'Ora", Giuliana Saladino aveva registrato dal direttore del nuovo stabilimento FIAT alcune considerazioni che nel 1972 avrebbero dovuto suggerire l'epilogo della storia della fabbrica di Termini Imerese:
"Prima bisogna collaudare, verificare. Questo - avvertì il dirigente D'Andrea - è uno stabilimento-pilota per la FIAT, il primo del genere in funzione nel meridione. Prima di pensare all'espansione, dobbiamo avere la certezza di avere risolto problemi enormi che ci stanno di fronte. Primo: salire in quote, secondo, ottimizzare i rifornimenti. Si parte da zero e il cammino è lungo. Avremmo bisogno di piccole aziende capaci di garantire qualità e affidabilità. Non ci sono. Cerco per esempio chi abbia delle piccole presse, dei padellari, ecco proprio dei padellari, ma non siamo ancora riusciti ad avere fonti di rifornimento locali per lo stampaggio di piccole cose, per il momento gli unici contatti sono per le pulizie, qualche trasporto, piccole riparazioni..."
"Sarà anche questa, pensiamo, una mostruosa cattedrale nel deserto?", scrisse allora Giuliana Saladino in conclusione del suo articolo, consegnando cinquant'anni fa una profetica visione ai lettori.