mercoledì 22 dicembre 2021

BREVE NOTA SULLA STORIA DELL'OLIO IN SICILIA

Raccolta delle olive in Sicilia.
Fotografie di Melo Minnella,
opera citata nel post


Una delle tracce più antiche del consumo delle olive in Sicilia, risalente al Neolitico antico, è stata trovata all'interno della Grotta dell'Uzzo, nell'area della riserva naturale dello Zingaro. Alla media età del Bronzo - il XIV secolo avanti Cristo - risalgono altre indicazioni che attestano la coltivazione degli ulivi nel siracusano, nella necropoli di Cozzo del Pantano. Queste ed altre indicazioni storiche sulla storia dell'olio nell'Isola si leggono nel bel libro "Olio Nostrum", scritto nel 2015 da Manfredi Barbera e Carlo Ottaviano ( AGRA, Roma ). Gli autori ricordano pure come la ricchezza di Agrigento nel V secolo avanti Cristo - premessa alla costruzione di un opulento complesso di templi - sia da riferire all'esportazione di olio a Cartagine ed in altri porti del Mediterraneo.


 

"L'olivo in Sicilia - aveva scritto qualche anno prima il geografo Ferdinando Milone in "Sicilia. La natura e l'uomo" ( Paolo Boringhieri, Torino, 1960 ) - è anche più antico della vite. Sembra che vi sia pervenuto dalle isole dell'Egeo, che sono il suo centro mediterraneo di dispersione, sin dai primi contatti con quel mondo, non troppo lontano neppure quando i battelli erano poco più di un guscio di noce. Sarebbe stato introdotto, secondo gli archeologi, ancor prima dell'arrivo dei coloni greci, i quali, tuttavia, ne avrebbero diffuso la pianta. Secondo Diodoro Siculo, olio sarebbe stato esportato dall'isola, ai tempi suoi; e Tucidide, assai prima di lui, ci descrive gli oliveti chiusi da muretti a secco. L'olivo doveva essere, nell'antichità, uno dei principali elementi del paesaggio siciliano. Del resto, è così ancora oggi; e caratteristiche sono le frequenti piante secolari dalle verdi chiome sopra colossali tronchi contorti... Secondo l'Amari, la coltivazione dell'olivo, decaduta, non era neppure rifiorita sotto gli arabi, anche se l'isola già allora doveva essere, forse, il principale centro di produzione del Mezzogiorno. Augusto Lizier, più di mezzo secolo fa, affermava che prima del Mille l'olivo doveva essere assai meno diffuso della vite, perché i documenti ne facevano poca menzione, e solo verso la metà di quel secolo il ricordo si fa più frequente. Del pari, mentre spesso veniva nominato il 'palmentum' per il vino, assai più di rado ricorre il nome del 'trapetum'. Ne deduce giustamente che la coltura dell'olivo dovesse essere molto più scarsa; e lo spiega con l'abbondanza dei maiali o delle greggi che non facevano sentire il bisogno dei grassi vegetali, ma anche con la necessità del lungo anticipo del capitale e del lavoro per il suo impianto...



Ancor oggi gli uliveti costituiscono una delle più importanti voci dell'agricoltura siciliana, sfidando l'impatto del cambiamento climatico degli ultimi anni; secondo dati nazionali Ismea e Unaprol, nel 2021 l'Isola ha prodotto oltre 42.000 tonnellate di olio, con un incremento del 30 per cento rispetto al 2020. Alla coltivazione ed alla raccolta delle olive, pratiche intese come aspetto primario della cultura contadina ed economica della Sicilia, hanno dedicato i loro scatti tutti i più importanti fotografi dell'Isola. Le fotografie riproposte da ReportageSicilia portano la firma di Melo Minnella. Furono pubblicate nel novembre del 1966 dalla rivista "Sicilia" edita dall'assessorato regionale al Turismo. Ignoti sono i luoghi della documentazione di Minnella, che nel raccontare il faticoso impegno nelle operazioni di raccolta di uomini, donne e bambini conferma il valore rituale e simbolico della produzione dell'olio, così come scritto da Predrag Matvejevic in "Breviario Mediterraneo" ( Garzanti, 1987 ):

"Anche gli attrezzi legati all'olio, come quelli per le attività delle saline, sono modesti: un canestro e una pressa che si chiamava in modo diverso a seconda dei vari paesi ( torchio: torkuo, torkul, turanj, tos muljaca o tìjesak ), il mulino e la macina da mulino, i colatoi più stretti e più larghi... In certi posti sono ancora gli asini che continuano a girare la macina dei frantoi... L'intenzione stessa di macinare le olive come il frumento mostra l'inseparabilità sul Mediterraneo dell'olio e della farina, del grasso e del pane. La produzione dell'olio non è solo un mestiere, è anche una tradizione. L'oliva non è solo un frutto: è anche una reliquia..."


L'ULTIMA PROMESSA SULL'ACQUA PERDUTA DI AGRIGENTO

"Il secchio vuoto ad Agrigento".
La fotografia di Nicola Sansone
è tratta dalla rivista "Il Mondo"
pubblicata il 7 settembre del 1965


L'ennesima annunciata fine della traversata del deserto per Agrigento e per altri 16 comuni del comprensorio porta la data del dicembre del 2023. E' la scadenza indicata dalla Regione per garantire il potenziamento delle reti idriche che dovrebbe risolvere lo storico problema dei razionamenti e delle turnazioni di acqua in questa provincia dell'Isola. L'aspettativa di porre termine al secolare male agrigentino segue decennali promesse di soluzioni mai arrivate; rassicurazioni fondate sull'erogazione dei finanziamenti della Cassa per il Mezzogiorno e, in decenni più recenti, sulle aspettative di un corretto funzionamento delle reti idriche, dei dissalatori e delle dighe: infrastrutture deficitarie per le carenze di manutenzione, i mancati collaudi, i furti. Fra gli agrigentini, fatalismo e rassegnazione hanno da tempo soppiantato la speranza di poter disporre di un regolare rifornimento di acqua: un argomento tirato fuori in passato ad ogni campagna elettorale, ed oggi non più in grado di suggestionare le scelte degli elettori.  Così quella che è stata una delle più ricche città della Magna Grecia, all'epoca dotata di un efficace sistema di distribuzione idrica per 200.000 abitanti - gli ipogei - continua ad essere il luogo simbolo della grande sete siciliana.


 

"L'eterno problema dell'acqua è ancora insoluto e la gente tace - ha scritto Francesco Pillitteri in "Con la testa all'indietro. Ricordi di un agrigentino" ( Kalos, Palermo, 2007 ) - la città è misera ed abbandonata all'incuria senza che i suoi abitanti si ribellino anche se non mancano occasione per vantarsi di essere figli della grande Akragas, di quella terra così ricca e bella nella sua lussuosa natura e nei suoi vetusti ed ammirati monumenti..." 


 

sabato 11 dicembre 2021

IL COMUNE CAMMINO DEI FENICI E DEI TONNI NEI MARI DI SICILIA

Pesca del tonno.
Pavimento settecentesco in maiolica
esposto al Museo Agostino Pepoli a Trapani.
Fotografie Ernesto Oliva-ReportageSicilia


"Una dissertazione letteraria, colta e a volte struggente". Così Matteo Collura definì il saggio introduttivo scritto nel giugno 1986 a Milano da Vincenzo Consolo al libro "La pesca del tonno in Sicilia" ( Sellerio, Palermo, 1986 ), aggiungendo che la caccia marina ai tonni "diventa una sorta di metafora della Sicilia, delle sue dominazioni, delle sue occasioni o risorse non sfruttate o sprecate".



Nell'analisi di Consolo della storia della pesca del tonno nel Mediterraneo, la Sicilia diventa centro ed epilogo del loro tragico destino di morte con il rito della mattanza ( dallo spagnolo "matar", uccidere ). E rifacendosi ai tempi più antichi di questa pesca, nel suo saggio lo scrittore messinese accomuna le rotte solcate dai fenici a quelle percorse dai grandi pesci pelagici:  

"Viene dunque a branchi dall'Atlantico, il tonno, oltrepassa la strettoia di Gibilterra e s'espande per il basso e l'alto Mediterraneo, per le coste nord-africane, per quelle sarde, corse, spagnole e francesi.



Ma in maggior numero viene a quell'isola grande che incontra al centro del suo cammino, alla Sicilia, incrocio e centro anche oggi d'ogni antica navigazione dell'uomo. E sembra, quello del tonno, lo stesso cammino dei fenici, che provenendo dall'opposta parte, dall'Oriente, sulle loro snelle e veloci navi dalle vele purpuree, dall'occhio apotropaico, grande e rotondo dipinto sull'alta prora, sulle loro navi-tonno, per le stesse coste navigavano, negli stessi luoghi approdavano, aprendo empori di scambi d'oggetti e di civilizzazione. 



E ci piace credere che questi disincantati e pratici mercanti, questi punici che posero a simbolo il tonno sulle loro monete, abbiano per primi apparecchiato un sistema di reti, una prima rudimentale tonnara non troppo lontano da quel piccolo porto di Mozia, ancora oggi intatto nelle sue banchine di tufo, nei suoi edifici intorno..." 

giovedì 9 dicembre 2021

L'INGANNO, IL DANNO E LA BEFFA DELLO STABILIMENTO FIAT A TERMINI IMERESE

Operai della SICILFIAT
di Termini Imerese.
Nelle due foto successive,
modelli di "500" in lavorazione.
Immagini tratte dal quotidiano "l'Ora",
opera citata nel post 


"Gli uomini che hanno avuto il privilegio di indossare la tuta della Fiat nella zona di Termini sono appena 750. Quanti premono per entrare?  Chi dice ottomila, chi venti duemila. L'ufficio di collocamento di Termini dice 60, e francamente non ci crediamo. La paga oscilla tra 110 e 140 mila lire, poco per una famiglia, meraviglioso per chi vive di espedienti o muore di fame o emigra. La giornata è di otto ore, troppe per chi sta alla catena di montaggio, un bel salto per chi lavora "da scuro a scuro", dall'alba al tramonto inoltrato. Quaranta minuti di riposo in otto ore - concessi non quando l'operaio ne ha bisogno ( una sigaretta, un panino, andare al gabinetto ) ma quando la direzione ha stabilito che gli toccano - volano come secondi, ma quale bracciante qui intorno non darebbe via tutte le pause che si concede con la zappa,  per riprendere fiato, e la lenta colazione all'ombra, e il lento camminare, tanto la giornata è così lunga che non finisce mai? E che cosa non è disposto a fare un sarto, un calzolaio, un bracciante, per cento quarantamila lire sicure sicure?"

Con questo impareggiabile attacco del pezzo, Giuliana Saladino iniziò sulle pagine de "l'Ora" - il 6 marzo del 1972 - un reportage all'interno della SICILFIAT di Termini Imerese. Lo stabilimento era in quel periodo nel pieno della sua attività, assemblando giornalmente e spedendo via mare  duecentotrenta "500" destinate ai mercati del Sud d'Italia, alla Sardegna ed alla Liguria. Nel marzo del 1970 era stata montata la prima vettura, dando corpo ad una produzione FIAT nel palermitano già prospettata - secondo quanto scritto da Matteo G.Tocco in "Libro nero di Sicilia" ( Sugar Editore, Milano, 1972 ), citando un articolo del "Giornale dell'Isola" di Catania del 6 novembre 1947 - addirittura nell'ottobre di quel lontano anno:

"La stampa siciliana annunciò con grande evidenza che l'assessore ai trasporti della Regione siciliana aveva ricevuto i dirigenti della Fiat, con i quali aveva avviato trattative per consentire l'impianto di un grande stabilimento industriale per la produzione di automobili. Per un momento, i palermitani sognarono la loro città trasformata in una Torino, centro di una grande industria automobilistica rivolta ai mercati mediterranei. I dirigenti della Fiat erano stati larghi di promesse, talché l'assessore Di Martino poté, con orgoglio, annunciare che "una importante ditta aveva acquistato una vasta estensione di terreno alla periferia di Palermo, per creare una grande officina"



Secondo Di Martino, la nuova fabbrica si accingeva a garantire migliaia di posti di lavoro; e la Pirelli si era già impegnata a garantire una fornitura di 80.000 copertoni completi di camere d'aria. Malgrado l'entusiasmo dell'assessore, il progetto era però destinato a progredire con fatica ed in ritardo rispetto ai tempi indicati nell'immediato secondo dopoguerra:

"Nell'aprile del 1966 - ha scritto ancora Tocco - si era ancora indecisi se lo stabilimento dovesse sorgere nella zona di Carini a est di Palermo, oppure in quella di Termini Imerese, a ovest. Cosa era avvenuto perché l'iniziativa venisse bloccata per quasi un ventennio? Era avvenuto che la FIAT aveva detto alla Regione che non avrebbe tirato fuori una lira per realizzare l'impianto, il quale avrebbe dovuto essere finanziato interamente dagli enti regionali. In quel momento, la Regione non era in grado di accogliere la richiesta. Gli strumenti di intervento non erano stati ancora creati. All'inizio degli anni Cinquanta, la FIAT tornò alla carica. Ma il governo regionale non si sentì di accogliere proposte che presupponevano finanziamenti pubblici al cento per cento. Inoltre, gli esponenti dell'industria torinese non parlavano di una fabbrica di automobili, ma di una fabbrica di montaggio di parti fabbricate a Torino e spedite in Sicilia. Questo significava che i programmi occupazionali che avrebbero potuto giustificare l'intervento finanziario della Regione si riducevano notevolmente. L'operazione risultava inoltre pericolosa perché non veniva previsto come risolvere il problema dei costi del trasporto del materiale da montare"

Con queste premesse indicate da Tocco, la prosecuzione dell'"operazione FIAT" nel palermitano avrebbe dovuto suggerire lungimiranti perplessità. La creazione di uno stabilimento di semplice assemblaggio non poteva infatti garantire la duratura validità dell'iniziativa. Inoltre, l'avvio di un'attività para industriale avrebbe comunque precluso - come in effetti è accaduto a Termini Imerese - qualsiasi altra ipotesi di sviluppo di un territorio ricco di potenzialità ambientali, turistiche ed agricole insieme: un lungo litorale balneabile ed una pianura ricca di agrumeti ed oliveti. Sin dagli inizi degli anni Cinquanta si era inoltre discussa la possibilità di impiantate nella zona un grande pastificio, riunendo numerosi produttori eredi di una attiva tradizione industriale locale: un progetto rimasto sulla carta che forse avrebbe meritato maggior fortuna.  Le strategie e gli interessi dell'industria torinese ebbero così alla fine la meglio, grazie ad un accordo con la SO.FI.S, la Società Finanziaria Siciliana costituita dopo una serie di scontri fra gruppi di potere isolani ed italiani allo scopo di gestire lo sviluppo industriale della Sicilia: un "carrozzone" politico-clientelare che già nel 1964 denunciava una perdita di oltre 4 miliardi di lire, pari al 50 per cento degli investimenti che, durante lo stesso anno, erano stati di 9 miliardi. Scriverà a questo proposito nel 1972 Michele Pantaleone in "L'industria del potere" ( Cappelli editore, Bologna ):

"L'attività della SO.FI.S è stata un contrasto tra gli interessi della Regione e le iniziative industriali del grande capitale italiano, tra i gruppi di potere nazionali e quelli siciliani, tra le correnti e sottocorrenti dei partiti della maggioranza ed anche delle opposizioni, tra governo della regione e amministratori della SO.FI.S..."



L'operazione SICILFIAT - società costituita nel gennaio del 1963 e annunciata alla stampa pochi giorni dopo dal manager Vittorio Valletta - nacque dunque nel solco di queste strategie distorte per lo sviluppo industriale di Termini Imerese; la casa torinese riuscì ad impiantarvi la sua fabbrica a "costo zero", e solo dopo una valutazione di convenienza politica: 

"L'accordo ( per costruire lo stabilimento a Termini Imerese, ndr ) - si legge ancora in "Libro nero di Sicilia" - poté essere raggiunto quando la SO.FI.S - al cui capitale sociale partecipava anche la FIAT - non poté sottrarsi alle pressioni torinesi. A Torino la preoccupazione dominante era costituita dai programmi di espansione dell'Alfa Romeo appartenente al gruppo IRI. Si volevano cioè creare unità di produzione, con un certo numero di occupati, per manovrarle politicamente quando l'IRI avesse autorizzato l'Alfa Romeo a realizzare nuovi impianti. Si ha ragione di ritenere che, se gli impianti dell'Alfa Sud fossero stati realizzati prima dell'accordo Sicilfiat, gli impianti di Termini Imerese non sarebbero mai sorti..."



Le condizioni poste dalla FIAT per avviare il progetto dello stabilimento termitano - un impianto di 400.000 mq. da ubicare nei pressi della centrale Tifeo dell'ENEL - non lasciavano spazio alle concessioni. Oltre ai finanziamenti della SO.FI.S. dovevano essere garantiti anche quelli della Cassa per il Mezzogiorno. Così avvenne quando l'azienda piemontese presentò ufficialmente la richiesta del terreno: era il marzo del 1966. La SO.FI.S si accollò il 15 per cento dell'investimento, la Cassa il restante 85. L'intesa prevedeva che la Regione provvedesse alle opere di urbanizzazione: strade, luce, acqua.  La FIAT si impegnò a costruire una pista di prova delle automobili di 1550 metri - mai allestita - e soprattutto, di concerto con il ministero del Lavoro, un centro di formazione per giovani addetti alle catene di montaggio. La struttura avrebbe dovuto organizzare trenta corsi di qualificazione per "operai montatori d'auto in serie"; ogni corso era stato pensato per 25 persone, per un totale di 750 unità lavorative che avrebbero dovuto trovare occupazione nel nuovo stabilimento. L'accordo per l'avvio dei lavori della fabbrica termitana - il cui progetto venne presentato a Bari, nel corso della Fiera del Levante, nel settembre del 1967 - prevedeva inoltre che il consorzio per l'area di sviluppo industriale assegnasse il terreno a prezzo di favore, con agevolazioni anche di carattere fiscale. Ai proprietari delle aree agricole fu imposto un compenso di 700 lire al mq, minacciando l'esproprio per pubblica utilità in caso di richieste più alte. L'accettazione delle condizioni poste dalla FIAT fu completa, giungendo a piegarsi all'evidenza del danno ambientale: nella scelta dell'ubicazione della fabbrica ebbe un peso anche la vicinanza al mare, indicato come sito per lo scarico degli scoli e degli spurghi industriali! L'operazione prese avvio nel maggio del 1968, nel pieno fermento delle contestazioni studentesche anche in Italia.  Il giorno 15, una cerimonia celebrò l'acquisto da parte della SICILFIAT dei terreni; con enfasi, "Il Giornale di Sicilia" sottolineò la coincidenza dell'evento con il 22° anniversario dell'autonomia regionale. Si parlò di un'epoca nuova di lavoro e benessere per la provincia di Palermo, grazie "ad un fiorire di molteplici sub-industrie e collaterali, medie, piccole ed anche artigianali, destinate ad operare nell'industria automobilistica". L'investimento complessivo di SICILFIAT per la costruzione dello stabilimento a Termini Imerese non è documentato da ReportageSicilia. Unico dato contabile certo è quello di un aumento di capitale della stessa SICILFIAT avvenuto nel novembre del 1967: da 50 milioni a due miliardi e mezzo di lire. Nel settembre del 1970 la FIAT comprò le quote di partecipazione della Regione, divenendo proprietaria dell'intero pacchetto delle azioni. A questo punto, come ha spiegato Diego Novelli in "Sicilia '71" ( GEP, Torino, 1971 ):

"L'organico degli operai è stato bloccato a quota 660, oltre ad un centinaio di impiegati ed una ventina di invalidi addetti alle mansioni di ufficio, fattorini, centralinisti, ecc. Le organizzazioni sindacali hanno convocato la FIAT davanti alla commissione comunale sul collocamento ( prevista dalla legge regionale siciliana ): in quella sede, i dirigenti della fabbrica hanno replicato di avere informato l'ufficio provinciale del lavoro di non avere più necessità di mano d'opera. Tutto ciò accadeva esattamente tre giorni prima che gli allievi degli ultimi 5 corsi di addestramento, cioò 125 operai, affrontassero gli esami. Contemporaneamente in fabbrica venivano accelerati i ritmi dei reparti lastro-ferratura e verniciatura, e veniva aumentata la velocità sulla "linea". Alcuni invalidi, assunti per altre mansioni, venivano inseriti nella catena di montaggio, pretendendo da loro il cento per cento della produzione. Questo di questi lavoratori sono stati licenziati per scarso rendimento ma, dopo la protesta delle organizzazioni sindacali, la FIAT è stata costretta a riassumerli..."



Con queste premesse, l'incerta storia dello stabilimento FIAT di Termini Imerese - una fabbrica che pure ha garantito occupazione a centinaia di operai palermitani per una quarantina di anni - non poteva che avere un epilogo scontato: la totale dismissione in conseguenza delle nuove strategie aziendali. Nel novembre del 2011 circa 700 operai imboccarono il tunnel di una cassa integrazione che si protrae ai nostri giorni. Ogni aspettativa di una riconversione produttiva si è finora rivelata illusoria. La speranza rappresentata nel 2016 dall'ingresso nello stabilimento della BLUTEC - una società satellite della stessa FIAT che ha intascato almeno 20 milioni di euro di fondi pubblici - si è infranta contro il muro di una inchiesta giudiziaria per bancarotta fraudolenta e riciclaggio. La possibilità di trovare valide alternative imprenditoriali in sede locale si scontra con la debolezza economica di un territorio che, cinquant'anni fa, ha ripudiato una vocazione agricola d'eccellenza e le potenzialità turistiche di un litorale sfregiato per sempre da una "zona industriale" in gran parte da anni abbandonata. Eppure, nel corso del suo reportage sulle pagine de "l'Ora", Giuliana Saladino aveva registrato dal direttore del nuovo stabilimento FIAT alcune considerazioni che nel 1972 avrebbero dovuto suggerire l'epilogo della storia della fabbrica di Termini Imerese:

"Prima bisogna collaudare, verificare. Questo - avvertì il dirigente D'Andrea - è uno stabilimento-pilota per la FIAT, il primo del genere in funzione nel meridione. Prima di pensare all'espansione, dobbiamo avere la certezza di avere risolto problemi enormi che ci stanno di fronte. Primo: salire in quote, secondo, ottimizzare i rifornimenti. Si parte da zero e il cammino è lungo. Avremmo bisogno di piccole aziende capaci di garantire qualità e affidabilità. Non ci sono. Cerco per esempio chi abbia delle piccole presse, dei padellari, ecco proprio dei padellari, ma non siamo ancora riusciti ad avere fonti di rifornimento locali per lo stampaggio di piccole cose, per il momento gli unici contatti sono per le pulizie, qualche trasporto, piccole riparazioni..."

"Sarà anche questa, pensiamo, una mostruosa cattedrale nel deserto?", scrisse allora Giuliana Saladino in conclusione del suo articolo, consegnando cinquant'anni fa una profetica visione ai lettori.



 


 

        

venerdì 3 dicembre 2021

LA TOMBOLA ROULETTE A TRAPANI DI EUGENIO NACCI

"La tombola-roulette a Trapani",
fotografia di Eugenio Nacci,
opera citata


Figura meno nota nel panorama piuttosto ricco dei fotografi siciliani del secondo Novecento ( da Sellerio a Leone, da Minnella a Martorana, da Scafidi a Scianna ), il trapanese Eugenio Nacci ( 1930-2009 ) gode oggi di una memoria che non rende onore alla sua capacità di raccontare la realtà di un territorio ricco di spunti antropologici di documentazione fotografica.

Noto per gli scatti che raccontarono il dramma del terremoto del Belìce, negli anni Sessanta Nacci ebbe modo di pubblicare alcuni scatti sulla rivista "Il Mondo". Quello riproposto da ReportageSicilia fece la sua comparsa sul settimanale diretto da Mario Pannunzio il 26 gennaio del 1965. La fotografia di Nacci, accompagnata dalla didascalia "Trapani. La tombola-roulette", colse la riunione di un gruppo di giocatori al cospetto di un banditore ambulante. E' probabile che la chiamata dei 90 numeri avvenisse in quell'occasione secondo la tradizionale smorfia della tombola trapanese: solo per ricordarne alcuni, l'uno è "Pippineddu", il 22 "u fuoddi", il 35 "u lampu", il 55 "u vecchiu", il 62 "u mortu ammazzatu", l'83 "a cuccìa", il 77 "u riavulu", il 90 "u spaventu".

martedì 30 novembre 2021

IL MISTERIOSO TEMPIO VEGETALE DEL FICUS DELL'ORTO BOTANICO A PALERMO

Foto non attribuite
tratte dalla rivista
"Sicilia"

edita dall'assessorato regionale al Turismo
nel giugno del 1954


"Gli alberi e le piante, a mano a mano che si scende verso il mare di Sicilia - scrisse Corrado Alvaro nell'agosto del 1953 - crescono fuor di misura: l'olivo gigantesco della costa, è scambiato per una pianta forestale; la ginestra dal tronco arboreo forma viali in qualche luogo; la cicuta, ad Agrigento, assume le proporzioni di una grande ombrellifera, la si può scambiare per il sambuco. Così una specie di cardi è di un turchino anilina, e questa pianta altrove inutile ai margini delle strade, è portatrice di un tenerissimo frutto tra le sue spine, un carciofo selvatico che è il più squisito della sua famiglia vegetale. L'arbusto dell'ibisco fiammante è davanti alle stazioni più modeste, ha il lusso dell'azalea, un'azalea smisurata.  E i ficus giganteschi che buttano le loro radici dall'alto dei rami verso la terra, come proboscidi di un elefante arboreo..."




Fra tutti i ficus osservati allora dallo scrittore calabrese in Sicilia, uno dei più noti per la sua maestosità ( insieme all'altro palermitano di piazza Marina ), è quello presente all'interno dell'Orto Botanico. Così ne scrisse Giulia Sommariva nel giugno del 1965 in un reportage intitolato "L'Orto Botanico di Palermo" pubblicato dalla rivista "Sicilia", edita dall'assessorato regionale al Turismo:
 
"Penetriamo nel boschetto dove un'unica pianta di Ficus Magnolioides costituisce da sola una sorta di foresta vergine estendendosi per una superficie di 900 mq.: dai rami giganteschi si dipartono innumeri radici aeree che, raggiunta la terra, s'ingrossano formando quasi altrettante colonne di un misterioso tempio vegetale: per le sue dimensioni colossali e per le radici pendule o serpeggianti rasoterra, questo Ficus s'impone come albero più spettacolare dell'Orto. Introdotto da uno stabilimento orticolo francese intorno al 1850 esso, grazie alla sua longevità, potrà ancora proseguire nel suo slancio costruttivo aprendosi di stagione in stagione alle nuove onde di linfa che salgono dalle radici..." 

lunedì 22 novembre 2021

domenica 21 novembre 2021

LA PERCEZIONE DI PANTELLERIA IN UNA PAGINA DI GIOSUE' CALACIURA

Il varo della motobarca "Francesco Rizzo",
destinata dal 20 giugno del 1954
al collegamento fra Trapani e Pantelleria.
Foto tratta da "Sicilia Turistica"
del luglio-agosto del 1954


Emergente dal Mediterraneo dai colori più cupi - il viola della sera , il blu della notte - Pantelleria è isola che da sempre attrae o sgomenta chi, per scelta o per ventura, abbia l'occasione di arrivarvi. In "Pantelleria. L'ultima isola" ( Editori Laterza, 2016 ), Giosuè Calaciura ne racconta l'anima, sottolineando l'immediata percezione del carattere estremo di una roccia vulcanica dal perimetro di 51 chilometri; un continente aspro e tagliente, distante 70 dall'Africa e 110 dalla Sicilia:

"Dai traghetti si percepisce subito che questo non è il mare addomesticato dei nostri arcipelaghi a portata di aliscafo, dove le agavi si specchiano come Narcisi nelle baiette placide dei bagni estivi e basta una voce per richiamare i bambini al pranzo dei ristoranti Miramare costruiti sulla  sabbia delle spiagge. Qui non ci sono spiagge. Il mare tra l'isola madre e Pantelleria con mezze parole, sicilianamente, fa intuire che è capace di furie oceaniche perché sta a guardia di due continenti e ha consumato e consuma avventure dello stesso respiro...

... Infine all'arrivo, entrando in porto, scansando gli scogli affioranti del molo cartaginese a ribadire che a Pantelleria l'approdo bisogna desiderarlo fortemente, nel sintomo conclamato e violento del nero ossidiana e del verde fosforescente dello Zibibbo, l'uva che altrove chiamano Moscato d'Alessandria, l'angoscia inesprimibile di avere messo nell'estremo conclusivo della Creazione e nello stesso tempo nel laboratorio dove la Natura sperimenta se stessa e il suo atto definitivo. Per alcuni il malessere è diventato panico..."

L'IGNOTA SORTE DELLA COPPA LIPTON VINTA DAI PIONIERI DEL PALERMO

Il capitano del Palermo, Ernesto Barbera
con la Coppa Lipton
trofeo andato disperso a Palazzo Riso.
Da messinastory1900.altervista.org


Tra i non pochi contributi inglesi alla storia siciliana fra Ottocento e primi anni del Novecento c'è anche quello che riguarda la diffusione del "football". Palermo, in particolare, offriva all'epoca residenza ad una comunità britannica pronta a sfruttare le risorse garantite dal commercio dello zolfo e del vino dolce di Marsala; legato a questi traffici, c'era poi un discreto movimento in porto di equipaggi di navi inglesi e maltesi già esperti nell'uso dei primi palloni in cuoio. Nelle soste fra un viaggio e l'altro, si ritrovavano in uno spiazzo pianeggiante chiamato il "pantano" - non lontano dall'ingresso del porto - offrendo ai palermitani il primo spettacolo organizzato di calci verso due rudimentali porte contrassegnate da pietre.  C'erano insomma le condizioni perché il "football" diventasse merce di importazione nell'Isola. Così, alla fine del 1897, su iniziativa di Giuseppe Whitaker nacque l'"Anglo Panormitan Football Club", con sede all'interno di Palazzo Mazzarino, in via Maqueda

La formazione del Palermo nel 1898.
Foto tratta dal quotidiano "Telestar" del 12 giugno 1968


Lo stesso Whitaker ne fu presidente; l'inglese Blake fu designato allenatore e insieme ad un consiglio direttivo furono scelti due guardialinee, i fratelli Crescimanno. Sono noti anche alcuni nomi dei primi giocatori: gli inglesi Pen ( agente in città della scozzese "Anchor Line" ), Woodrow Normann, il diplomatico francese De Gaston, il cavaliere Giorgio Anzon, il conte Guido Airoldi, Corrado e Valentino Colombo, Vincenzo, Roberto e Michele Pojero, Ignazio Majo, ed ancora Di Stefano, Macaluso, Giaconia, Cafiero e Cimino.   I primi colori sociali - copiati da quelli del Genoa, allora la più forte squadra italiana - furono il rosso ed il blu a quarti sulle maglie. Il campo di gioco si trovava nell'attuale zona fra la via Notarbartolo e Villa Sperlinga, su un terreno degli stessi Whitaker. Pochi mesi dopo - nell'aprile del 1898 - la denominazione della società diventò "Palermo Foot-ball and Cricket Club". Cambiò anche il luogo dove si disputavano le partite: il campo del Ranchibile, munito di regolari porte e di due rudimentali tribune per il pubblico.


 

Si deve al giornalista sportivo Mario Pasta una delle prime ricostruzioni dei primordi del club; ne scrisse nel giugno del 1968 sul quotidiano palermitano "Telestar", fornendo anche una ( ma non è l'unica ) spiegazione sulla particolare colorazione rosanero in seguito adottata nelle maglie:

"Durante una riunione a Palazzo Mazzarino i convenuti scorsero dalle finestre di una delle sale dell'abitazione dei Whitaker alcune vecchie maglie stese ad asciugare al sole. Per effetto delle frequentissime lavature, il rosso si era notevolmente stinto ed il blu aveva assunto un colore più scuro. Il rosa ed il nero furono quindi proposti come una trasfigurazione del rosso e del blu..."

L'attività dei primi anni rimase circoscritta a partite fra gli stessi soci o con squadre di marinai in transito dal porto. Nel 1903, si ricorda il primo evento memorabile nella storia del team rosanero: un incontro con i marinai inglesi della squadra navale inglese comandata dall'ammiraglio Willins. Furono disputate due partite, entrambe perse per 2 a 1 e 7 a 1, a dimostrazione della indiscussa superiorità britannica nel calcio di quegli anni. Nel frattempo a Messina - altra città portuale aperta alle frequentazioni inglesi - nel 1905 sorgeva un'altra società calcistica siciliana, denominata "Messinese": fu l'occasione per dare vita ad i primi accesissimi derby regionali, organizzati grazie all'istituzione di una Coppa Whitaker, messa in palio dallo stesso presidente del Palermo. La "Messinese" si rivelò tenace rivale, ma perse in casa per 3 a 1; dopo la vittoria, la foto ricordo dei giocatori rosanero - alcuni dei quali in abiti borghesi - fu scattata non sul campo, ma in uno studio fotografico. A testimonianza del pionierismo del calcio d'inizio Novecento, occorre ricordare che per raggiungere Messina appena in tempo per la partita, la squadra del Palermo si sobbarcò un viaggio di due giorni.

Il Palermo in campo nel 1903.
Fotografia tratta da "Telestar", opera citata


La pratica del football dilagava ormai in tutta Italia, alimentando la diffusione di tornei che, pur non potendo considerarsi dei veri e propri campionati nazionali, cominciarono a creare le prime rivalità calcistiche. Il Palermo fu il protagonista di uno di questi eventi, che, indirettamente, creò le premesse per un episodio diventato un "giallo" di natura non sportiva. Le premesse furono l'organizzazione di una sorta di Coppa dei Campioni fra i rosanero ed il Napoli, frutto di un'iniziativa di sir Thomas Lipton, a seguito del suo sbarco a Palermo nell'aprile del 1907:  vicenda così raccontata da Mario Taccari in "Palermo l'altro ieri" ( S. F. Flaccovio Palermo, 1966 ):

"Non si trattava ancora di attribuirsi un titolo e di cucirsi addosso uno scudetto, ma di guadagnarsi la mastodontica coppa che un ricchissimo estimatore delle imprese muscolari - manco a dirlo: un inglese - aveva appositamente fatto eseguire destinandola a premiare la società calcistica campione del Sud. L'ultima volta che ci avvenne di rivederlo, questo trofeo che nessuno sa più dove sia andato a finire, fu intorno al 1940, a Palazzo Riso, sede della federazione provinciale fascista ( a Palermo, n.d.r ). La rilevante mole argentea della 'Lipton Challenge Cup' posava su un solido piedistallo e si proporzionava alla vastità del salone che le dava ricetto. Era un bel lavoro artigianale di gusto liberty, adorno di non poche figurine simboliche sistemate a far corona alla statuina di un baffutissimo  calciatore in mutandoni, ergentesi al sommo del trofeo come un Leonida sulla più alta vetta dei monti di Tessaglia. La coppa senza rivali era stata posta in palio, dicevamo, da un creso delle isole britanniche, Lord Lipton, capitato a Palermo con suo panfilo, il cui equipaggio si trasformava spesso e volentieri in un agguerrito team calcistico. Quel personaggio ch'egli era, imbevuto d'anglico orgoglio, aveva vissuto nella pacifica persuasione che il football inglese fosse imbattibile e quando il Palermo nato ieri gli aveva strapazzato la squadra di bordo infliggendole una mezza dozzina di goals, il Lipton era rimasto, diremmo, folgorato dalla rivelazione di un 'wonderteam' che, a suo giudizio, avrebbe sbalordito il mondo calcistico tutto intero. Che si ingannasse a partito la storia adesso lo dice; ciò non toglie che gli sportivi palermitani debbano conservare grata memoria del prodigio baronetto che aveva creduto di potere affidare ai rosanero la difesa della ingombrante coppa intitolata a suo nome e che sembra gli costasse non meno di seimila lire: più di due milioni di adesso. Il trofeo fu disputato, come si è visto, tra Palermo e Napoli e furono i rosanero ad aggiudicarselo definitivamente nell'anno 1910 battendo gli azzurri del Vesuvio per quattro reti a una. Precisano i cronisti che i goleadors palermitani furono i signori Bonanno, Schimicci e Cambrici..."



La scomparsa della monumentale Coppa Lipton, conquistata dai rosanero nel 1915 - uno dei pochissimi trofei vinti dal Palermo nella sua ultra secolare storia - ha sottratto alla memoria la testimonianza del periodo pionieristico della sua storia. Sulla sorte, è possibile fare solo qualche supposizione: quella di un avvenuto furto, o di una perdita legata alla devastazione subita da Palazzo Riso durante i bombardamenti alleati. Qualunque sia la verità sulla fine di quello storico trofeo, è certo che l'attuale livello della squadra rosanero esclude l'ipotesi di poter riporre in una bacheca nuove coppe.   

giovedì 11 novembre 2021

ERCOLE PATTI ED UN REPORTAGE FRA GLI AMBULANTI SULLO STRETTO DI MESSINA

Fotografia di Federico Patellani.
Opera citata nel post


Nel maggio del 1952 Ercole Patti attraversò lo Stretto di Messina a bordo di uno dei traghetti che quotidianamente, dal 1 novembre del 1899 - fatti salvi eventi bellici o naturali - collegano la Sicilia alla Calabria. Colpì l'attenzione dello scrittore catanese la presenza a bordo di gruppi di pendolari del piccolo commercio alimentare: venditori di frutta, verdura o animali da cortile, personaggi dimenticati dell'economia rurale siciliana di quegli anni. Di loro, Patti così scrisse in un reportage - il titolo, "Arrivo nell'isola" - pubblicato nel dicembre dello stesso anno da "L'Illustrazione Italiana" in un fascicolo speciale natalizio dedicato alla Sicilia:

"Un curioso odore di Oriente circola nei sottopassaggi fra le travature metalliche del ponte inferiore che è pieno di folla. Donne con grandi cesti di frutta, di verdura, sacchetti, canestri, involti, panieri, hanno invaso i binari facendoli sparire sotto le loro vesti colorate e i loro variopinti bagagli. Tutta gente che svolge il suo quotidiano piccolo commercio tra Villa San Giovanni e Messina, tra Reggio Calabria e Messina. Vanno vendere i fichi, l'uva o l'insalata, secondo la stagione, facendo la spola tra l'isola e il continente.



Basta un cestino di uova fresche, pochi grappoli di uva o un paio di pollastri vivi legati per le zampe caldissime come avessero la febbre a trentanove, per giustificare la traversata del profondo mare che divide la Sicilia dall'Italia. Quasi a tutte le ore c'è un traghetto che parte e uno che torna tra Messina, Reggio e Villa, e sono tutti affollati. Le grosse macchine straniere dirette a Taormina o ad Agrigento, sistemate accanto ai vagoni incatenati al ponte, emergono tra una folla di panieri, galline e valige legate lo spago...



I turisti stranieri hanno tirato fuori dagli astucci di cuoio binocoli e macchine fotografiche e prendono di mira la costa siciliana; piazzano treppiedi, fanno ronzare apparecchi, girano manovelle. I siciliani che rientrano dal Nord passeggiano sul ponte e cominciano a fiutare l'aria nativa. Il dialetto circola per i ponti e le scalette del battello, fiorisce sulle labbra degli agenti di servizio. L'accento messinese del controllore che attraversa il ponte luminosissimo invaso dalla gran luce del mattino, si riconosce subito, non può lasciare dubbi..."

martedì 26 ottobre 2021

IL PROSSIMO VOLO DEI GRIFONI NEL PARCO DELLE MADONIE

Uno dei grifoni
ospitati nella voliera ad Isnello.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Sterminati dall'ingestione di stricnina aggiunta alle esche utilizzate per uccidere volpi e gatti selvatici - carogne poi diventate loro cibo - nel 1965 i grifoni scomparvero dai cieli della Sicilia. Fu una delle tante perdite del patrimonio faunistico dell'Isola, in anni in cui la completa assenza di una sensibilità per la tutela del territorio e della natura provocò danni ambientali irreparabili. Nei primi anni 2000, un tentativo di ripopolamento dei grifoni nell'area del Parco dei Nebrodi diede risultati positivi: una ventina di esemplari importati dalla Spagna trovarono il loro habitat ideale nel territorio di Alcara Li Fusi e delle Rocche del Crasto



Oggi la colonia di grifoni del messinese raggiunge le 170 unità; fra qualche anno, il ripopolamento potrebbe restituire questi rapaci anche al Parco delle Madonie, territorio che in passato è stato uno dei siti più frequentati dai grifoni in Sicilia. Il progetto per la loro reintroduzione è stato avviato pochi giorni fa nel territorio di Isnello. Una ventina di esemplari provenienti dal Parco dei Nebrodi sono stati posti all'interno di una capiente voliera. Vi rimarranno per un periodo di acclimatamento, al termine del quale i grifoni - a coppie - saranno liberati nei pressi del vicino massiccio montuoso di Pizzo Carbonara: un luogo ideale per la nidificazione, ricco di quella fauna selvatica che costituisce il cibo di questi redivivi frequentatori delle montagne siciliane. 



Il progetto di reintroduzione dei grifoni - che potrebbe essere riproposto anche nell'area palermitana della Rocca Busambra - è stato promosso dai Parchi dei Nebrodi e delle Madonie, con il contributo dell'Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Sicilia e del Rotary Club Sicilia-Malta, che ha finanziato l'allestimento della voliera.  

UN POETA FINLANDESE E GLI INTERROGATIVI SULL'OSPITALITA' SICILIANA

Il poeta finlandese Yryo Kaijarvi.
Nel 1951 scrisse della Sicilia nell'opera
"Viaggio in Italia".
Foto tratta da "Sicilia Turistica",
luglio-agosto 1954


L'innata ospitalità dei siciliani è uno dei luoghi comuni più radicati nell'opinione dei non siciliani; gli abitanti dell'Isola, esattamente al pari di tutti gli altri italiani, hanno nei confronti dell'ospite un atteggiamento variabile, dettato dalla loro personale affabilità e propensione all'accoglienza. Certo, in Sicilia ci sono fattori culturali ed ambientali che favoriscono la socializzazione tra le persone: il clima generalmente benevolo, i piaceri della gastronomia, le condizioni economiche che limitano modelli e logiche comportamentali a volte distorte dalla quotidianità della civiltà industriale.   Altre volte, l'ospitalità del siciliano si lega al sentimento dell'orgoglio, estremo sostegno a condizioni di vita giudicate svantaggiate ( pensiamo alla frequente necessità dell'emigrazione ): la disponibilità può nascere allora dalla volontà di non deludere le aspettative ed i bisogni del forestiero. 

Foto di Leonardo Von Matt,
pubblicata in "La Sicilia antica",
edito da Stringa Editore Genova nel 1964


In casi limite - come fa dire Leonardo Sciascia ad un Ippolito Nievo scettico dinanzi al servilismo di un barone che accoglie generosamente a pranzo Garibaldi - l'ospitalità può essere generata dal timore ( "Io direi, generale, che quest'uomo ha per noi tutto l'entusiasmo della paura... Mi son fatto ormai opinione sicura sui siciliani: e costui mi pare abbia molto da nascondere, da farsi perdonare; e forse ci odia..." ).



Fra gli stranieri che si sono posti qualche interrogativo sull'ospitalità dei siciliani figura il poeta finlandese Yrjo Kaijarvi. Traduttore nel suo Paese delle opere di Palazzeschi, autore di numerose conferenze sull'Italia in istituti culturali finnici, nel 1938 e nel 1949 viaggiò nell'Isola, riportando le sue impressioni in "Viaggio in Italia" ( Helsinki, 1951 ). In quest'ultimo saggio, Kaijarvi descrisse la Sicilia depressa del secondo dopoguerra; una condizione che appare evidente durante la sua visita ad Agrigento, nel corso della quale il poeta finlandese si imbatte nelle contorte logiche dell'ospitalità siciliana:

"La vita appare meschina e povera. Una profonda tristezza sembra posare su tutto come una pesante nuvola. L'Africa è vicina, là dall'altra parte del mare. Qui molte civiltà accavallatesi, o meglio affiancatesi, ed una più assorbita dell'altra, sono sempre presenti, Oriente e Occidente... L'aria è calda, ho sete, un bicchiere di vino mi farebbe bene, e così lungo la strada che conduce alle rovine del tempio di Giove entro nell'abitazione di un contadino: una desolante stanza di pietra, povera e nuda. 



Chiedo un bicchiere di vino. Egli me ne porta tutta una bottiglia. Quando mi offro di pagargliela, non ne vuol sapere: sono suo ospite. Non mi permette nemmeno di dare qualcosa ai suoi bambini. Grazie, contadino della Valle dei Templi, della tua calda gentilezza. Sembra che l'ospitalità in Sicilia sia una cosa naturale, eppure delicata: la si può facilmente offendere. Mi viene in mente uno studente siciliano conosciuto a Venezia. La seconda volta che ci trovammo andammo a passeggiare e chiacchierare in piazza San Marco, e lo pregai di bere con me un bicchiere di Cinzano. Naturalmente volli ad ogni costo pagare, e mi sentii dire: "Lei mi offende, in Italia lei è mio ospite". Solo dopo molto discutere riuscii a pagare. Un bel gesto? Forse. Forse no"        

lunedì 18 ottobre 2021

LA SCOPERTA DI HONOR FROST DELLA NAVE PUNICA A MARSALA

Fotografie dello scavo
archeologico subacqueo nel 1971
esposte all'interno
del Museo Archeologico Regionale Lilibeo Marsala


Il 9 agosto del 1971 una missione archeologica britannica guidata dalla ricercatrice subacquea Honor Frost, lavorando nell'area dello Stagnone di Marsala - a poche centinaia di metri da Mozia - individuò a poco più di tre metri di profondità il fasciame di una nave punica: una delle prime scoperte nel tratto di mare fra Tunisia e Sicilia. Come in tutte le storie dell'archeologia subacquea e dei reperti che giacciono sui fondali marini, la storia di questo eccezionale ritrovamento fa registrare un prologo poco noto; sembra infatti che il relitto fosse stato individuato nell'agosto del 1969 durante un dragaggio di sabbia compiuto da alcuni operai di una fabbrica di bottiglie di vetro. Nell'estate del 1970, Honor Frost - una pioniera nell'esplorazione subacquea dei relitti del mondo antico mediterraneo - avviò le prime campagne di studio nello Stagnone di Marsala, culminate, l'anno successivo, nella individuazione del fasciame dell'imbarcazione punica.



 



La nave, che fu forse un'imbarcazione da guerra, doveva avere una lunghezza di oltre trenta metri ed una larghezza di quasi cinque. Diversi materiali furono utilizzati per la sua costruzione: ferro, bronzo e rame per i chiodi, cera e piombo per la calafatura, legno di pino nero, di acero e di quercia per il fasciame. Nella parte più interna della chiglia furono recuperati trucioli di legno, segno forse che nel periodo del suo affondamento - stimato nel terzo secolo avanti Cristo - l'imbarcazione era stata costruita da pochissimo tempo. In diversi punti del fasciame furono individuati disegni, numeri e simboli grafici che indicano come lo scafo fosse stato "prefabbricato", assemblando le singole parti del progetto complessivo. Dai fondali, la spedizione inglese recuperò anche ossa umane di almeno due uomini e di un cane. Cinquant'anni dopo la scoperta del relitto, la nave punica dello Stagnone di Marsala - i cui resti sono visibili all'interno del Museo Archeologico Regionale Lilibeo Marsala  - necessitano di un nuovo intervento di restauro. La Fondazione Honor Frost ha offerto la sua collaborazione al progetto, che dovrebbe essere accompagnato da una ricostruzione in 3D del vascello: un altro contributo inglese alle conoscenze archeologiche in quest'area del marsalese dopo gli scavi avviati dalla famiglia Whitaker a Mozia

Esposizione
della nave punica all'interno
del Museo Archeologico Regionale Lilibeo Marsala.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia






Della scoperta della nave punica, Honor  Frost scrisse il 3 ottobre del 1972 sulla "Domenica del Corriere" un articolo in cui espose alcune considerazioni sull'importanza del ritrovamento:

"Il relitto - si legge nel reportage della Frost, intitolato "Era al primo viaggio la nave cartaginese affondata a Marsala" - è eccezionale per una serie di motivi. Innanzitutto le estremità appuntite della nave sono ben conservate, e questo è già straordinario perché, com'è noto, delle navi affondate si ritrovano di solito soltanto le parti mediane delle chiglie, o le fiancate, mentre tutto il resto, le estremità vive, appunto, va perduto, distrutto dal mare. In secondo luogo, il legno del fasciame è ottimamente conservato, a tal punto che si possono vedere i segni fatti sui pezzi dai costruttori. In terzo luogo, il materiale ritrovato potrà eventualmente consentire di ricostruire l'intera nave. Infine, questa è la prima nave cartaginese che sia oggetto di esplorazione. Perché, vi chiederete, trovare una nave punica dovrebbe essere più eccitante che trovare una nave greca o romana? La risposta va cercata nelle pagine degli storici antichi, come Polibio o Diodoro Siculo. Le guerre puniche furono combattute per la supremazia sui mari. Per costruire l'impero, i romani, che già controllavano tutte le vie di comunicazione terrestri, avevano bisogno di essere anche i padroni dei mari. Ma a quel tempo i mari, senza dubbio, erano dominati dai fenici, o meglio, dai loro successori, i cartaginesi. V'è da dire che la tecnologia dei romani non arrivava alla costruzione delle navi. Così, nel 260 avanti Cristo, per mettere in piedi una flotta di navi da guerra, i romani furono costretti a copiare una nave punica che avevano catturato. Riuscirono così bene che in soli due mesi costruirono ben 120 vascelli. Questa stessa produzione di massa implica una qualche forma di prefabbricazione: ecco perché i segni dei carpentieri sul relitto di Mozia sono così importanti. Studiati meglio dagli specialisti potrebbero risolvere il mistero.







Nella nostra attività abbiamo dovuto risolvere problemi tecnici non indifferenti. E' noto che il legno è un materiale difficile da preservare. La sabbia, facendo da copertura, lo protegge. Ma appena il legno è scoperto e viene in contatto con l'acqua marina, subisce l'azione dell'ossigeno e diventa scuro in pochi giorni. Ancor peggiore è l'effetto dell'aria: portato in superficie, il legno si restringe nel giro di qualche ora; oppure, se lo mettete in una vasca di acqua corrente, è attaccato dalle alghe e da altri organismi. Con tutte queste considerazioni in mente, si può immaginare che la decisione di sollevare i sei metri della poppa della nave punica non è stata presa alla leggera. Siamo stati, in parte, forzati dalle circostanze: la poppa emergeva dalla sabbia, e quindi era già minacciata dall'ossidazione. Inoltre, giaceva in un fondale di appena due metri e mezzo, ed era molto vicina alla spiaggia: abbiamo pensato che difficilmente avrebbe resistito alle tempeste invernali. Devo dire che la decisione di procedere nel recupero del relitto - una decisione per noi davvero storica - è merito del professore Vincenzo Tusa, sovrintendente alle antichità della Sicilia occidentale. Egli ha disposto che che il legname recuperato fosse immediatamente conservato in vasche appositamente costruite: in questi contenitori il materiale resterà almeno per tre anni, il tempo minimo per togliere in sale dal legno. Soltanto successivamente potrà cominciare il trattamento chimico. Allo stesso professor Tusa fa capo un'altra importante decisione: ogni pezzo di legno recuperato dal relitto è stato replicato in calchi di gesso. I risultati finora sono stati eccellenti, grazie all'abilità del professor Salvatore Andò, uno scultore che ha accettato volentieri il singolare compito. In questo modo gli specialisti potranno studiare senza ritardi tutti i reperti: e inoltre sarà assicurata la ricostruzione della nave. E' naturale che tutti coloro che hanno contributo al ritrovamento ed al recupero sognino una degna sistemazione finale dei risultati del loro lavoro. Per quanto mi riguarda, sarei felice se la nave punica che abbiamo ripescato dal mare fosse esposta vicino al luogo in cui il vascello affondò, magari in un museo apposito. Il lettore, a questo punto, sarà probabilmente curioso di conoscere l'esatta consistenza del relitto. Abbiamo trovato le estremità del così detto dritto di poppa, quattro intere ordinate ( le costole, trasversali rispetto alla chiglia, che da prua a poppa costituiscono l'ossatura principale della nave ), alcune tavole di tribordo ( la fiancata destra del bastimento, guardando la poppa ) ancora attaccate dalle ordinate, e numerosi sassi di zavorra ancora al loro posto fra le ordinate.

Oggetti di bordo
della nave punica.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia





La nave era inclinata a sinistra, di modo che le estremità opposte, sporgenti, delle ordinate, erano state consumate dall'acqua. Però le parti centrali di queste strutture, a contatto con la chiglia, erano intatte. La chiglia, nella sua parte centrale, era tutta ricoperta di sabbia, e affondava nel terreno per almeno tre metri. Quanto ai sassi di zavorra, fu per la loro presenza che il relitto rimase sul fondo dopo che la nave affondò. Quanto alle tecniche di scavo, abbiamo cercato, per quanto possibile, di non rimuovere la sabbia, proprio per evitare, come ho già spiegato, che il legno venisse in contatto con l'acqua del mare e subisse la temuta ossidazione. Per delimitare la zona delle ricerche mettemmo due blocchi di cemento da mezza tonnellata ai due lati del relitto, a distanza di circa trenta metri, in modo tale che un'ideale linea retta congiungente i due blocchi coincidesse con la linea della chiglia. E' chiaro che prima di rimuovere un qualsiasi pezzo sommerso abbiamo fatto gli opportuni rilevamenti, con misure precise, tutte segnalate in superficie e tutte riportate, in scala, sul progetto degli scavi che avevamo disegnato. Miss Mary Anderson, stava su un battello e provvedeva a trasferire sulla carta tutti i dati che raccoglievamo mediante uno strumento prezioso, dalla forma simile ad un grosso pettine. Per essere più esatti, questo strumento ci è servito per prendere le diverse sezioni del relitto sommerso: e quando i denti del "pettine" non potevano raggiungere certi parti poco accessibili della nave, ci servivamo di una striscia di piombo, come fanno spesso ingegneri ed architetti. Per esempio, spingevamo la striscia di piombo dentro la cavità della chiglia, in modo che il metallo prendesse la forma esatta della cavità: quindi riportavamo i vari profili su un'apposita materia plastica, in superficie. Del resto, non era molto difficile o complicato compiere questa operazione subacquea, perché la larghezza interna della chiglia era appena di sette centimetri. Infine, devo ricordare un altro strumento prezioso, che viene tecnicamente chiamato sorbona: è un tubo-aspiratore, azionato da una pompa ad aria, che praticamente "succhia" il materiale sommerso. Disegnato da Robert Sneath, ingegnere subacqueo della nostra equipe, lo strumento poteva essere manovrato da un piccolo canotto di gomma e senza eccessiva fatica.

Honor Frost,
l'archeologa inglese
che riportò alla luce la nave punica


C'è infine da ricordare un aspetto della nostra ricerca al quale suppongo che il pubblico sia molto sensibile. Che carico aveva la nave punica di Mozia? Premesso che finora abbiamo cercato soltanto a un'estremità della nave, tralasciando la vera e propria stiva, devo dire che abbiamo trovato una quantità di cocci di terracotta e di ceramica proprio dentro la cavità della chiglia. Questi frammenti erano, per l'esattezza, sotto i sassi di zavorra, e mischiati ad essi. I nostri due colleghi archeologi che lavoravano a terra, cioè il dottor Louis Lehmann e il signor Nigel Kerr, hanno anche fatto una classificazione dei diversi tipi di ceramica: erano ben quattordici. Tutti i vasi finora identificati sono del terzo secolo avanti Cristo, e, ad eccezione di uno solo, sono cartaginesi. I reperti più straordinari, tuttavia, non sono questi. Abbiamo infatti trovato foglie, ramoscelli, gusci di noci, sementi: appartenevano a piante fiorite 2300 anni or sono! Non basta: sotto un'asse c'era un rotolo di corda, nuovo, giallo e pulitissimo. Noterete che non ho ancora accennato alle anfore. In realtà ne abbiamo trovate alcune. Una era perfetta, intatta, con il tappo al suo posto. Tutte le altre erano danneggiate, e, cosa sorprendente, tutte diverse fra loro. Secondo me, la nave punica non portava un carico di anfore: come sapete, le anfore erano i contenitori del tempo, per l'olio, il vino, il miele, le granaglie. Il vascello era dunque un cargo? E se non era un cargo, che cosa poteva essere? Forse una nave da guerra, una di quelle navi che affondarono vicino alla costa siciliana durante la prima guerra punica? E' un segreto affascinante che dovremmo riuscire a svelare con ulteriori ricerche sul relitto di Mozia.