lunedì 13 ottobre 2025

LA CONTA DEL "RAIS" DELLE OMBRE DEI TONNI A FAVIGNANA

Il "rais"della tonnara di Favignana
guida la mattanza nel maggio del 1965.
Fotografia tratta dall'opera citata nel post


Nel maggio del 1965 il mensile "Atlante" edito dall'Istituto Geografico De Agostini di Novara pubblicò un reportage di R.Crocella dedicato alla mattanza dei tonni appena compiuta a Favignana. Una delle undici fotografie che illustrarono quel racconto mostra il "rais" intento a dare indicazioni ai tonnaroti che di lì a poco dovranno dare inizio alla mattanza dei tonni, momenti così descritti dal cronista:

"I pescatori, che scrutano continuamente l'acqua attraverso una finestrella vetrata sul fondo della barca, vedono entrare il gruppo e chiudono rapidamente la porta, tirando per mezzo di funi la rete adagiata sul fondo. Aprendo e chiudendo le successive porte, i tonni vengono ammassati nell'anticamera della morte, e si riapre l'ingresso in modo da poter accogliere altri gruppi. 



Un'operazione estremamente affascinante è il conto approssimativo che fa il "rais", dal vetro del fondo della barca, delle ombre affusolate che si muovono circolarmente sul fondo: il suo totale corrisponde sempre, per una specie di propiziatoria superstizione, a circa due terzi del totale dei tonni..."

LA RESISTENZA DI SALINA E DEGLI EOLIANI AI TERREMOTI

Casa a Salina.
Fotografia di Josip Ciganovic,
tratta dall'opera di Aldo Pecora "Sicilia"
( UTET, Torino, 1971 )


Tra il 23 ed il 29 dicembre del 1954, in coincidenza con un'eruzione dello Stromboli, l'isola di Salina fu colpita da un violento sciame sismico di 80 scosse che lesionarono numerose abitazioni e la chiesa parrocchiale nella frazione di LinguaAltri danni consistenti si registrarono nel centro abitato di Pollara, zona epicentro di quel sisma e di molti altri che hanno colpito Salina nel tempo. Il terremoto di quel dicembre del 1954, pur non provocando vittime, lesionò molti edifici di vecchia costruzione che vennero in seguito abbattuti. 

Lo sciame sismico di 71 anni fa non colse di sorpresa i salinesi, abituati come gli altri eoliani sin da bambini a convivere con le scosse di terremoto: fenomeni che non li hanno mai indotti ad abbandonare le loro isole. 

"Le isole Eolie - ha scritto a questo proposito Jakob Job nel saggio "Sicilia" ( Edizioni Silva Zurigo, 1971 ) -  hanno sempre condiviso le sorti dell'Italia meridionale e della Sicilia. Nonostante la continua minaccia dei vulcani, dei quali oggi solo Stromboli è ancora attivo, esse furono sempre ripopolate: alle popolazioni autoctone seguirono, come nell'intera Sicilia, i Greci, i Romani, i Saraceni, i Normanni. Terremoti ed eruzioni vulcaniche costrinsero abbastanza spesso gli abitanti ad abbandonare le loro residenze. 

Così, nell'anno 126 avanti Cristo, l'intera popolazione di Lipari fu trapiantata a Napoli. Ma sempre gli uomini misero piede sull'isola: la volontà di di ricostruire la vita fu più forte della minaccia degli elementi..."

domenica 12 ottobre 2025

L'AGRICOLTURA PANTESCA A RISCHIO DI ABBANDONO

Raccolta dello zibibbo a Mueggen,
a Pantelleria.
Fotografie
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


La raccolta dell'uva zibibbo è una delle attività agricole che fino ad oggi hanno costituito un segno distintivo della storia di Pantelleria. La coltivazione di questo frutto rappresenta anche la tutela di un secolare patrimonio di conoscenze che hanno permesso ai panteschi di impiantare le viti ad alberello in un ambiente modellato da centinaia di terrazzamenti e muretti a secco. La vite, posizionata in conche scavate nella terra per difenderla dal vento e dal caldo, cresce così bassa e resistente.

Da qualche anno, la diminuzione della manodopera necessaria a questa pratica, scoraggiata anche dai bassi salari, sta spingendo numerosi proprietari terrieri ad abbandonare questa coltura. La stessa tendenza riguarda altre due produzioni pantesche, quelle del cappero e delle olive. Di recente, il Parco Nazionale Isola di Pantelleria ed il Comune hanno prospettato l'ipotesi di alimentare l'occupazione nel comparto agricolo favorendo la stabile accoglienza di una ventina di famiglie straniere. 



Il progetto prevede la possibilità di favorire il loro inserimento nel tessuto sociale di Pantelleria e l'impiego lavorativo nei terreni coltivati. Nell'attesa di una applicazione di questo piano - la cui efficacia non appare comunque scontata - molti degli storici terrazzamenti panteschi destinati ad uso agricolo versano in stato di abbandono. 

martedì 23 settembre 2025

LA NOTTE DEL ROGO DOLOSO CHE DEVASTO' IL VILLINO FLORIO

L'incendio che ha semidistrutto
il Villino Florio, a Palermo.
Fotografia tratta dal quotidiano
"L'Ora" del 24 novembre del 1962


Alle 3.30 di una notte di pioggia, due persone salirono una scala a pioli poggiata su muro di cinta che a Palermo divide la via Pasculli dal giardino e dall'edificio del Villino Florio, disabitato da almeno 6 mesi e privo di energia elettrica per la morosità accumulata del proprietario. Con loro, gli intrusi trascinavano una latta di lamiera riempita di benzina ed un sacchetto pieno di stracci. Né il custode né la moglie, che dormivano in un alloggio esterno al Villino, ebbero ad accorgersi di nulla. A svegliarli, furono i rumori di vetri infranti e il crepitio delle fiamme che avvolgevano ormai irreparabilmente gli infissi, le intelaiature, i soffitti di quercia e mogano, gli scaloni, i pavimenti ed i preziosi arredi presenti sui tre piani edificati a partire dal 1899 da Ernesto Basile su commissione di Vincenzo Florio.

Il Villino Florio, oggi.
Fotografia
Ernesto Oliva-ReportageSicilia
©

 

Tre anni dopo lo smantellamento di Villa Deliella, quella notte fra il 23 ed il 24 novembre del 1962, Palermo subì uno dei più gravi sfregi al patrimonio architettonico del "Liberty". Le operazioni di spegnimento delle fiamme che avevano aggredito il Villino Florio - rallentate dalla necessità dei Vigili del Fuoco di rifornirsi più volte di acqua e dall'indisponibilità di autopompe con un getto capace di raggiungere le torrette più alte - si protrassero per 6 ore. La fotografia riproposta da ReportageSicilia - tratta dalla cronaca del rogo del quotidiano "L'Ora" pubblicata il 24 novembre - ricorda oggi il peso di quella devastazione dolosa.  Quando le fiamme furono domate, il Villino Florio apparve come una larva incenerita e sventrata. Solo 28 anni dopo, l'edificio di Ernesto Basile, privato nel frattempo di un vastissimo parco, sarebbe stato oggetto di un restauro, durato 25 anni: un intervento che ha potuto solo in parte riscattare una perdita che ha segnato "la quasi definitiva scomparsa - ha scritto Gianni Pirrone in "Palermo Liberty" ( Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma, 1971 ) - di interni e arredi Liberty a Palermo".  


    

domenica 21 settembre 2025

LE MANCATE SOLUZIONI AL PROBLEMA IDRICO DAL 1937 AI NOSTRI GIORNI

Fontana a Petralia Sottana.
Fotografia
Ernesto Oliva-ReportageSicilia©


"La sezione di Palermo del Servizio Idrografico Italiano, con l'aiuto finanziario del Banco di Sicilia, ha compiuto negli ultimi anni una preziosa indagine sulla disponibilità attuale sorgentizia della Sicilia. E' risultato che in quattro province, fra le nove dell'isola, la portata di acqua sorgentizia per chilometro quadrato è molto inferiore di un litro al minuto secondo, e precisamente: di 0,09 litri in provincia di Caltanissetta; di 0,09 in quella di Trapani; di 0,35 in quella di Enna; di 0,56 in quella di Agrigento.

Ma molte di queste sorgenti sono salmastre, solfuree e termali. Non si prestano alle irrigazioni agricole: tanto meno all'abbeveramento delle genti e del bestiame. Questa è la documentazione della sete cronica di un vasto territorio che si stende nel centro della Sicilia per 10.212 chilometri quadrati: i due quinti dell'intera superficie dell'isola...

Vi è anzitutto da pensare ad una più completa e razionale utilizzazione delle acque più scoperte e conosciute. E' un piano regolatore delle acque siciliane che si domanda: prima base del piano regolatore di tutta intera l'economia isolana... Sono da creare le opere di presa delle sorgenti. Molta acqua va già perduta alle origini e corrode invece, rovinandole nella sua illegittima corsa, le terre e le coltivazioni...

Sempre secondo l'indagine del Servizio Idrografico risulta che il patrimonio di acque sorgive non utilizzate in Sicilia raggiunge un volume di 6.632 litri al secondo. E' una quantità che rappresenta il 20 per cento della portata globale delle sorgenti conosciute dell'Isola che è di 32.894 litri al minuto secondo...

Mancano pure per le acque le opere di canalizzazione. Ma bisogna anche aumentare per molte regioni della Sicilia il volume, il patrimonio utile delle acque. Bisogna dunque moltiplicare i lavori di indagine, ricercare le acque profonde, mettere in valore le acque freatiche e  subalvee e creare, da per tutto dove si può, bacini di invaso, grandi e piccoli serbatoi con sbarramento di valli, cisterne di campagna per dissetare gli uomini e le terre nella stagione del fuoco e arginare intanto le devastazioni dell'acqua invernale che ruba la terra mentre precipita inutile. Bisogna infine creare e lanciare a tappe gli acquedotti.

C'è bisogno per l'acqua siciliana di coraggio, di lavoro paziente e ostinato, di capacità creative..." 



Al netto dei dati sulla disponibilità complessiva in Sicilia di acqua fornita da sorgenti per chilometro quadrato - dati che potrebbero non differire di molto da quelli indicati nel testo sopra riportato - si potrebbe pensare che questa analisi riassumi l'attuale situazione della crisi idrica sofferta dall'Isola. Il testo in questione risale invece al lontano 1937; lo scrisse Virginio Gayda, giornalista e saggista romano apertamente legato al regime fascista, al punto da essere considerato una sorta di "portavoce" di Mussolini. Le indicazioni di Gayda - inserite in un testo di ampia esaltazione propagandistica delle opere pubbliche allora promosse o solo prospettate dal fascismo - si leggono in uno dei dodici articoli dedicati alla Sicilia da lui pubblicati sul "Giornale d'Italia". Gli scritti furono in seguito raccolti nel saggio "Problemi siciliani" ( Roma, Tipografia "Il Giornale d'Italia", 1937 ), diventato così - spiegò Gayda nell'introduzione - la presentazione "di alcuni modi di essere della Sicilia e la rievocazione delle loro vicende ... in quanto sono parte essenziale del grande problema della vita e della potenza della Nazione nel suo continuo divenire...".

Ottantotto anni dopo il retorico scritto di Virginio Gayda, i temi da lui affrontati della siccità e dei limiti infrastrutturali nella gestione della risorsa acqua in Sicilia - oggi aggravati dalle conseguenze dei cambiamenti climatici - rimangono drammaticamente attuali. Non li ha risolti il fascismo, né, dopo di esso, i governi della Repubblica; né, tantomeno, li hanno affrontati in modo strutturale quelli della Regione Siciliana, che in questi mesi si trova ad affrontare il peso di guasti decennali. C'è il legittimo dubbio che, a fronte dei miliardi di vecchie lire e dei milioni di euro stanziati per potenziare le infrastrutture idriche nell'Isola, in poco meno di un secolo sia colpevolmente mancato quel lavoro "paziente ed ostinato" - noi aggiungeremmo anche l'aggettivo "onesto" - indicato da Virginio Gayda come unico metodo per risolvere la povertà idrica della Sicilia.

lunedì 15 settembre 2025

IL SUONATORE DI TROMBONE A CASTELBUONO

Fotografia
Ernesto Oliva-ReportageSicilia©

 

domenica 14 settembre 2025

LA CONCLUSIONE DEL VIAGGIO SICILIANO DI PIERRE SEBILLEAU

La Sicilia in un un disegno
pubblicato nel 1948 dal saggio
"I cinquant'anni del Teatro Massimo",
edito a Palermo da I.R.E.S 


Al termine del viaggio letterario offerto ai lettori del suo saggio "La Sicilia" edito in Italia da Cappelli Editore nel 1968, il francese Pierre Sèbilleau descrisse lo "stravagante e abbandonato capolavoro architettonico" di Villa Palagonia, a Bagheria. La scelta di terminare la narrazione dell'Isola con l'illustrazione dell'edificio un tempo abitato da Ferdinando Francesco Gravina, principe di Palagonia, parve a Sèbilleau il miglior modo per offrire una possibile chiave finale di lettura della contraddittoria identità della Sicilia:

"Ho fatto in modo che la vostra ultima passeggiata palermitana e siciliana vi conducesse a questa seducente follia, per dissuadervi un'ultima volta dal dare al vostro viaggio una conclusione troppo razionale, troppo cartesiana, e dal formulare, sulla Sicilia, uno di quei giudizi manichei, "in bianco e nero", contro i quali vi ho messo in guardia fin dalle prime pagine di questo libro.

Ma una precauzione del genere sarà, ormai, senza dubbio, inutile. Adesso voi conoscete la Sicilia. Sorriderete quando alcuni presuntuosi vi diranno di avere scoperto la verità su questo paese in cui Pirandello ha compreso che ciascuno aveva la sua. Quando alcuni insoddisfatti gemeranno davanti a voi: "Che bel paese sarebbe se...", alzerete le spalle, come faceva il "Gattopardo" quando il suo cappellano gli faceva discorsi del genere.

Insorgerete contro quei biliosi che vi diranno di non avere visto in Sicilia che miseria, ma compatirete un poco gli entusiasti che non l'hanno vista affatto. Abituati come vi siete, ormai, ai contrasti siciliani, vi sembrerà del tutto naturale che l'Isola triangolare possa essere luminosa e scura, immensamente ricca e immensamente povera. Paradiso terrestre e paese fra i meno sviluppati d'Europa. Voi la vedete adesso come realmente è, terra e immagine dell'uomo, cioè con pregi e difetti, e in cui l'uomo che è in voi, quale esso sia, ha conosciuto in pieno la gioia di vivere.

Voi sapete adesso di amare la Sicilia. E' questa, a mio avviso, la sola conclusione, e la migliore, che possiate dare al vostro viaggio..." 


mercoledì 10 settembre 2025

I DRAMMATICI "FATTI DELL'ACQUA" A MUSSOMELI

Mussomeli.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia©


"Gli uomini qui portano, senza eccezione, una mantellina di panno blu munita di cappuccio, di foggia così uniforme da sembrare quella di un collegio... La forma del paese è a pan di zucchero, costruito intorno al cono di un colle, a 740 metri di altitudine... con strade ripide e strette, attorcigliate come visceri nel ventre del paese..."

Era un piovoso mese di febbraio del 1954 quando l'inviato del "Corriere della Sera" Ferdinando Chiarelli così descrisse Mussomeli in un articolo che raccontò quelli che nel paese nisseno sono ancor oggi ricordati come i "Fatti dell'acqua": la morte di Giuseppina Valenza, 72 anni, Onofria Pellitteri, di 50, Vincenzina Messina, di 26 e del 16enne Giuseppe Cappalonga. L'eccidio fu il drammatico epilogo di una protesta popolare che il 17 febbraio di quell'anno portò centinaia di persone a radunarsi dinanzi al vecchio Municipio, in piazza Firenze. Da giorni, la popolazione di Mussomeli chiedeva il ritorno della distribuzione idrica nelle abitazioni della parte più alta del paese e l'annullamento degli esosi canoni di pagamento dell'acqua - 6.250 lire per il biennio 1953-1954 - richiesti dall'Ente Acquedotti Siciliani. Nei mesi precedenti, il Comune di Mussomeli aveva inutilmente cercato di porre fine alle perdite della rete urbana che garantiva l'erogazione di appena 700 metri cubi di acqua per 17.000 abitanti: un progetto vanificato dalla richiesta negata di un mutuo da 50 milioni di lire. Dopo il passaggio di gestione del servizio idrico cittadino, l'EAS non aveva ancora eseguito gli invocati interventi di rifacimento della rete. L'acqua arrivava nelle case solo per un paio di ore al giorno, uscendo a filo dai rubinetti: così, quella richiesta del canone - intempestiva e beffarda - aveva finito con l'esasperare centinaia di famiglie.

In tarda mattina, poco prima di una riunione fra il sindaco Sorce ed il Prefetto di Caltanissetta - preceduta da un incontro interlocutorio fra lo stesso Sorce ed una delegazione di cittadini -  la folla di dimostranti scesa nuovamente in strada iniziò un lancio di pietre contro l'edificio comunale. Sembra che l'eccitazione della protesta avesse fatto pronunciare frasi minacciose contro il sindaco. Un gruppo di Carabinieri, dopo avere inutilmente chiesto ai manifestanti di allontanarsi,  esplose allora sette candelotti lacrimogeni; nell'improvviso caos, le tre donne ed il ragazzo rimasero schiacciati nei pressi di via della Vittoria dalla convulsa corsa dei fuggitivi. Altre decine furono i feriti, e fra questi un bambino di 7 anni, ricoverato in ospedale con un grave trauma cranico.



Ai funerali delle vittime dei "Fatti dell'acqua", celebrati il giorno dopo a spese del Comune, prese parte l'intero paese.

"In quattro bare di abete di cui una, la più piccola, il falegname non aveva fatto in tempo a verniciare di nero per la fretta, le vittime di Mussomeli - scrisse ancora Ferdinando Chiarelli - sono state portate al camposanto questa mattina alle 11 sotto la pioggia. Non sono state sepolte. Le hanno deposte in fila nella camera mortuaria, sul pavimento di vecchi mattoni, in attesa dell'autopsia. Una folla di diecimila persone le aveva seguite dalla chiesa parrocchiale fino ai cancelli del cimitero, davanti ai quali era poi rimasta per un pezzo impietrita, la testa nascosta sotto il cappuccio dei mantelli per ripararsi dall'acqua, così silenziosa che non si udiva uno scalpiccio, né un singhiozzo, ma soltanto il rumore della pioggia nel folto dei grandi cipressi. Soltanto più tardi, poco prima che la folla si decidesse a risalire nel paese, si è udito vociare iroso: qualcuno stava tentando di distruggere la corona di fiori inviata dal Municipio. E' stato un breve sussulto, l'ultimo guizzo di una fiammata di odio ormai apparentemente spenta..."

L'eccidio di Mussomeli provocò allora le inevitabili polemiche politiche fra democristiani e comunisti, arrivando sino al Parlamento nazionale e coinvolgendo il presidente del Consiglio e ministro dell'Interno, Scelba. Fu istituita una commissione d'inchiesta, che alla fine delle audizioni non individuò responsabilità per la morte delle tre donne e del ragazzo. Il 19 ottobre di quello stesso 1954, il Tribunale di Caltanissetta condannò invece 27 dei 44 manifestanti sottoposti al fermo per oltraggio aggravato e continuato. Le pene più pesanti - con sospensione condizionale - furono inflitte al locale segretario della Camera del Lavoro Salvatore Guarino - 9 mesi e 15 giorni - Francesco Catania, Salvatore Mancuso e Diego Seminatore, tutti condannati a 8 mesi e 15 giorni.  



Settantuno anni dopo i "Fatti dell'Acqua", Mussomeli e la provincia di Caltanissetta continuano a soffrire un'atavica crisi idrica. Le aspettative di forniture regolari e della disponibilità di moderne reti di distribuzione rimangono ancora disattese. Si è forse anche persa la voglia e la capacità di rivendicare civilmente il diritto all'acqua nella Sicilia del 2025. Così, l'assuefazione è oggi la prospettiva peggiore per il futuro di un'Isola e dei suoi abitanti che si stenta a definire realmente al passo con il vivere nel diritto ai beni primari.

sabato 6 settembre 2025

LA BAGHERIA "MESSICANA" DI CORRADO SOFIA

Villa Branciforti a Bagheria


In un articolo pubblicato l'undici febbraio del 1950 sul settimanale "Il Mondo" intitolato "Caviale e barocco" e dedicato a Renato Guttuso, il giornalista e saggista netino Corrado Sofia accostò così al Messico l'ambiente e l'architettura di Bagheria:

"Bagheria è il più curioso angolo di Messico che si trovi in Sicilia. Il barocco coloniale spagnolo abbonda in alcune ville; insieme al colorito degli abitanti, alle agavi, alle piante spinose indica la segreta lontana parentela di questa isola.

Una parentela indefinibile di cui non si hanno indicazioni più esatte che le trazzere, le cantilene, i polverosi scirocchi. Migrazioni, influenze, dominazioni spagnuole non basterebbero a definirla. Un substrato profondo, un sedimento nel sangue affiora nella pittura. Come si spiegherebbe questa tendenza pittorica che hanno in comune due popoli?



La stessa vivezza e primitività nei colori, lo stesso gusto nell'accoppiare e contrapporre rossi, gialli, verdi, turchini. Soltanto una indagine alla maniera di Lawrence potrebbe darci degli elementi: poiché si sa che Lawrence, per spingersi più avanti nella conoscenza dell'uomo, dalla Sicilia se ne andò in Messico: da Taormina si trasferì a Taos, "per fare un passo più avanti"..."


L'immagine riprodotta nel post di Villa Branciforti a Bagheria è tratta dall'opera di Sabina Montana "O corte a Dio. Prime architetture barocche a Bagheria: Villa Branciforti Butera", Plumelia, 2010, Bagheria-Palermo

domenica 31 agosto 2025

VILLAROEL ED I CARATTERI DEI SICILIANI NELL'OPERA DI VERGA

Una fotografia di Giovanni Verga.
Nel post, anche una scena di
"Cavalleria Rusticana"
disegnata da Edoardo Calandra
e la scrivania in casa Verga.
Le fotografie sono tratte
dall'opera "L'Illustrazione del Medico",
opera citata nel post 


"Il siciliano, con tutte le varianti e le deformazioni inevitabili, è tipicamente cupo, restio, egocentrico. Sotto le apparenze morbide, cedevoli, remissive c'è un irriducibile nòdulo di orgoglio che si oppone o reagisce alla violenza e alla sopraffazione fisica e morale della vita e della storia. Il siciliano è un testardo timido ed ha timidi l'audacia inconsulta o la disdegnosa fierezza..."

Così il critico letterario e scrittore catanese Giuseppe Villaroel descrisse il carattere dei siciliani in un articolo dedicato a Giovanni Verga pubblicato nel gennaio del 1948 dalla rivista bimestrale "L'Illustrazione del Medico" ( Laboratori Maestretti, Milano ). 




"Il mondo verghiano - aggiunse Villaroel - è popolato di personaggi di siffatta natura, da "Jeli il pastore" a "Padron Toni" a "Mastro Don Gesualdo", ai fratelli Trao: gente semplice, ma dura, capace di soffrire in silenzio, di resistere al sacrificio, ma salvaguardando sempre la propria personalità. Anche la rinuncia è un atto di superbiosa alterigia..."


CALTAGIRONE, PASSATO E FUTURO DEI CERAMISTI CHE SI ASSOCIANO

Ceramista a Caltagirone.
Foto tratta dall'opera
"Questa nostra Sicilia"
di A.Rigoli, L.Cibella e S.Cibella,
S.I.A.C.E Palermo, 1976


Fu nel secolo XVI che le ceramiche di Caltagirone - già prodotte nel periodo della dominazione musulmana in Sicilia, grazie alla presenza di numerose cave di argilla - ebbero larga diffusione in tutta l'Isola. Spente in quei decenni le fornaci delle maggiori città costiere - a Palermo, Messina e Siracusa - "si mantengono attive quelle di centri minori o lontani dai porti, pressocchè impossibilitati ad acquistare ceramiche di importazione, come ad esempio, Caltagirone..." ( Antonino Buttitta, "La terra colorata", saggio pubblicato nell'opera "I colori del sole. Arti popolari in Sicilia", S.F. Flaccovio Editore, Palermo, 1985 ).

Già prima di allora, a Caltagirone erano attive tre corporazioni di ceramisti, ciascuna specializzata in una specifica lavorazione. Gli "stazzonari", chiamati anche "ciaramitari", si occupavano della fabbricazione di tegole e laterizi; i "quartarari", modellavano al tornio brocche destinate alla conservazione dell'acqua ( "quartare", "bummuli" e "'nziri" ); i "cannatari" producevano invece vasellame di terracotta invetriata e ceramica generica.

Ancora nel secolo XIX, Caltagirone ebbe due maestri di cui si conserva memoria: Giacomo Bongiovanni e Giuseppe Vaccaro, capaci di modellare figure in terracotta che rappresentavano una serie di personaggi della società rurale e urbana della Sicilia di allora.

Oggi - in una Sicilia che tradizionalmente rifiuta l'associazionismo - il futuro della produzione delle ceramiche calatine affida la sua tutela alla recente costituzione dell'"Associazione Produttori Ceramica di Caltagirone". Il consorzio riunisce 14 aziende locali, allo scopo di ottenere il marchio IGP ( Indicazione Geografica Protetta ), fronteggiando così la diffusione di ceramiche definite "di Caltagirone" prodotte lontano dai laboratori della cittadina catanese. 

martedì 19 agosto 2025

IL MIRACOLO DELLA "SANTUZZA" CHE ISPIRO' L'ELOGIO DI GOETHE

Fotografie di
Federico Patellani,
opera citata nel post


In un "Fascicolo Speciale" pubblicato in occasione del Natale del 1952 e dedicato alla Sicilia, la rivista "L'Illustrazione Italiana" diede conto della fede dei siciliani verso i santi patroni: da Sant'Agata a San Corrado, da Santa Lucia a Sant'Alfio. L'argomento fu esaminato in un reportage che curiosamente - e a differenza degli altri presenti nel periodico - venne firmato con le semplici iniziali dell'autore: M.R.

Buona parte dell'articolo in questione tratta della devozione dei palermitani nei confronti di Santa Rosalia, che secondo la tradizione nel 1625 liberò Palermo dalla peste. Accompagnato dal fotoreporter Federico Patellani, l'anonimo cronista scrisse il racconto dopo avere visitato il Santuario della "Santuzza", sulle pendici di monte Pellegrino



All'interno della grotta che conserva la teca con la statua della santa e gli ex voto che ne celebrano la fama di patrona, M.R. attribuì ai palermitani l'opinione secondo cui un famoso giudizio espresso da Goethe sul monte Pellegrino sia stato il frutto di un miracolo di Rosalia:  

"Fra i pellegrini del passato venuti quassù in visita al Santuario c'è anche Goethe, il quale ha descritto il monte Pellegrino come "il più bel promontorio del mondo". Una tale asserzione, secondo i palermitani, rappresenta uno dei tanti miracoli di Santa Rosalia: dopo essersi scelto questo monte per guardare dall'alto la sua città, per avere un occhio sui marinai che si spingono al largo sui fragili legni, quelli che partono in cerca di fortuna, quelli che vanno a costruirsi lontano una nuova esistenza, ha guidato la mano di Goethe, ha scritto per mano sua che è il più bel sito dell'universo..."

venerdì 15 agosto 2025

IL VOLTO LUSITANO DEL PAESAGGIO MARINO DI CEFALU'

Fotografia
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


"Cefalù ha una dimestichezza così naturale con il mare, così modesta nelle abitudini, da ricordare certi angoli costieri lusitani. Ed è singolare - ha considerato Matteo Collura ( "Cefalù", Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta, 2012 ) - che si possa dire questo di un paese il cui aspetto rupestre sembra avere il sopravvento su tutto. 



Mare e pietra, ( ... ) volendo significare un connubio naturale che incanta gli amanti del mare e nello stesso tempo quanti, come me, prediligono il paesaggio rupestre"



giovedì 14 agosto 2025

IL "TRIONFO DELLA MORTE" PALERMITANO CHE ( FORSE ) ISPIRO' PICASSO

Fotografia
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Il "Trionfo della Morte", esposto dal 1953 all'interno di Palazzo Abatellis, a Palermo, è una delle opere d'arte più enigmatiche presenti in Sicilia; e per la mancata attribuzione - un tema di irrisolto confronto fra studiosi - e per l'ipotesi ( una suggestione sinora mai diventata documentata certezza ) che questo affresco possa avere ispirato il "Guernica" di Picasso.

Il pittore e scultore di Malaga eseguì la sua opera nel 1937, poche settimane dopo il devastante bombardamento della città basca da parte di aerei tedeschi ed italiani. Il debito di ispirazione di Picasso nei confronti del "Trionfo della Morte" sarebbe suggerito dalle analogie presenti nelle due strutture compositive e in alcuni comuni dettagli anatomici del cavallo, in particolare la testa. Su come Picasso abbia fatto dell'affresco palermitano un modello di riferimento le ipotesi offrono più variabili. La prima, indica la possibilità che l'artista spagnolo - che nel 1917 raggiunse per la prima volta l'Italia, visitando Roma, Firenze, Napoli e Pompei - abbia conosciuto il "Trionfo della Morte" palermitano attraverso una fotografia della collezione Alinari datata 1910



In un'intervista concessa al "Corriere della Sera" nel gennaio del 1998, Jean Clair, all'epoca direttore del Museo Picasso di Parigi, non escluse l'ipotesi - in verità, tiepidamente - che durante quel viaggio l'autore di "Guernica" possa avere raggiunto anche Palermo. Qui Picasso potrebbe avere avuto l'occasione di osservare l'affresco quattrocentesco ancora conservato all'interno di Palazzo Sclafani, prima del suo distacco e di un temporaneo trasferimento all'interno della Sala delle Lapidi di Palazzo Pretorio. In quell'intervista, Clair suggerì l'ipotesi che Picasso conobbe il "Trionfo della Morte" tramite una riproduzione pubblicata da un libro o da una rivista; ma infine, scelse quella secondo cui la fonte di ispirazione di "Guernica" sia stato un altro "Trionfo della Morte" attribuito al fiammingo Pieter Bruegel il Vecchio e conservato al Museo del Prado di Madrid:

"Picasso vide quel dipinto proprio durante la guerra civile spagnola. Anche se viveva a Parigi, nel 1936 venne nominato, dai repubblicani, direttore onorario del Prado. Non si può però escludere che lo stesso Bruegel abbia eseguito il suo "Trionfo" dopo un viaggio compiuto in Italia fra il 1552 ed il 1555, nel corso del quale sbarcò anche a Palermo. La sua opera è del 1562-1563. E' possibile, quindi, che il fiammingo abbia visto l'opera siciliana e che, a sua volta, Picasso, guardando quella del Prado e avendola "digerita", l'abbia fatta sua. Si potrebbe pensare che Picasso lavorò a "Guernica" avendo in mente il "Trionfo" palermitano, filtrato attraverso Bruegel il Vecchio. Le vie dell'arte sono infinite..."



Infine, ad accrescere la suggestione dell'ipotesi che accosta il "Trionfo della Morte" palermitano al nome di Picasso, c'è da ricordare una testimonianza riferita anni fa da Fabio Carapezza. Il figlio adottivo di Renato Guttuso ha affermato che il pittore di Bagheria - che ebbe modo di frequentare l'artista spagnolo - chiese proprio a Picasso se il "Guernica" fosse stato ispirato dall'affresco oggi conservato a Palazzo Abatellis. Picasso avrebbe confermato la circostanza. Non è però chiaro se abbia precisato se la scoperta sia avvenuta al cospetto dell'opera o grazie alla visione di una semplice fotografia. Chissà se un giorno un archivio o una fonte documentaria potranno sciogliere questo che è solo uno dei tanti interrogativi che rendono l'opera palermitana del secolo XV un affascinante affresco di misteri. 

 

sabato 9 agosto 2025

GLI AGRICOLTORI DELLE SALINE DI TRAPANI

Fotografie
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


"Si scorge dall'alto di Erice, ai piedi del monte, lunga nella bassa penisola falcata che si stende sul mare, la fragile Trapani. Sembra stretta, quella città, da una parte e dall'altra, da grandi lastre di vetro, risplendenti nel sole, che sono i bassi bacini, le squadrate saline, punteggiate dai coni tronchi dei mulini a a vento sopra gli argini..."

Così Vincenzo Consolo descrisse il paesaggio della saline di Trapani nel saggio "Sicilia teatro del mondo", edito nel 1990 a Torino da Nuova Eri Edizioni Rai. Si racconta che siano stati i Fenici - popolo di mercanti in grado di creare decine di empori commerciali nel Mediterraneo dell'antichità - ad avviare la produzione trapanese del sale: un prodotto allora essenziale per la conservazione degli alimenti di origine animale.

L'attività prosegue ancor oggi, con il supporto di una meccanizzazione che non potrà mai cancellare del tutto le figure dei "salinari": agricoltori del mare muniti di scarponi di gomma, vanghe, pale e carriole.

Le vasche delle saline di Trapani, insieme a quelle di Marsala, superano i 1.000 ettari: una superficie sopravvissuta alla speculazione edilizia operata nel territorio nel secondo dopoguerra e che quest'anno dovrebbero produrre 140.000 tonnellate di sale, l'unico in Italia ad avere ricevuto il riconoscimento IGP.



Il prodotto - compreso quello pregiato ricavato dalla crosta esposta direttamente al sole, denominato "fiore di sale" - verrà esportato anche in Giappone, Canada e, con l'incognita rappresentata dai dazi, negli Stati Uniti

Quest'anno la raccolta del prodotto, che a Trapani vanta ottimali quantità di magnesio e sodio, è stata avviata con qualche settimana di anticipo. La si ripeterà a settembre, continuando un'attività di produzione e raccolta che negli ultimi sessant'anni non si è mai fermata. 



L'ultima volta, accadde nell'autunno del 1965, quando una disastrosa alluvione sommerse i cumuli di sale ed i macchinari, ricoprendo le vasche di melma: uno scenario oggi inimmaginabile al cospetto delle luccicanti "grandi lastre di vetro" descritte 25 anni dopo quella devastazione da Vincenzo Consolo.  

lunedì 28 luglio 2025

LA BREVE EPOPEA DEL CORALLO AL LARGO DI SCIACCA

Barca di Sciacca.
Fotografia tratta da opera citata nel post


"Fra il 1875 ed il 1880 - si legge nell'opera "La Sicilia. Quindici anni di autonomia regionale", edita a Roma nel luglio del 1960 furono pescate 6.219 tonnellate di corallo per un valore complessivo di 44 milioni di lire. Parteciparono alla pesca 4.669 barche tra quelle di Sciacca e di altri compartimenti e 46.000 pescatori..."

Così V. Porrello Cassar descrisse la corsa al corallo che per cinque anni, sul finire dell'Ottocento, fra i mesi di febbraio ed ottobre, alimentò le attività economiche degli armatori di Sciacca e di altre flotte pescherecce siciliane e d'oltre Stretto ( Porto Empedocle, Trapani, Mazara del Vallo, Licata, Termini Imerese, Torre del Greco ed Alghero ).

Sembra che la scoperta casuale del primo e più esteso banco corallifero di Sciacca - nel maggio del 1875, 12 miglia al largo di Capo San Marco, su un fondale profondo fra i 148 ed i 200 metri - sia stata opera di tale Alberto Maniscalco.  In seguito, ricerche mirate portarono alla individuazione di altri due giacimenti - nell'agosto del 1878 e nel gennaio del 1880 - rispettivamente a 27 e 45 miglia da Sciacca

Si trattava di una varietà di corallo nero rimasto in profondità per lungo tempo, durante il quale il "Corallium rubrum"  assorbe maggiori quantità di sostanze organiche, la cui rimozione necessità di lavaggi con sostanze ossidanti.

"Parve a molti - ha scritto Salvatore Costanza in "Coralli talismani sacri e profani", Catalogo della mostra "L'arte del corallo in Sicilia" svoltasi a Trapani al Museo Regionale "Pepoli" nel 1986 ( Novecento, Palermo, 1986 ) - di potere impiegare nuovi capitali in un'impresa che prometteva immensi lucri; e di spingersi fino ad organizzare alcune compagnie armatoriali... Ora il pescatore non lavorava più per proprio conto, ma alle dipendenze degli armatori, che lo ingaggiavano per la campagna di pesca a salario fisso ( da 127 a 150 lire per l'intera campagna, e, se a giornata, con una lira e 70 centesimi, senza altro compenso in natura )..."

La questione dei compensi sfociò presto nel malcontento di molti pescatori trapanesi assoldati per la racconta del corallo. Nel 1880 minacciarono lo sciopero; ma ben altre circostanze incombevano sulle aspettative di trarre ingenti guadagni dall'estrazione degli arboscelli al largo della costa di Sciacca



"Ben presto - ha scritto ancora Costanza - si constatò la scarsa qualità del corallo pescato in quei banchi, che non era neppure compensato dalla sua eccezionale copiosità. Anzi, fu proprio l'abbondanza del grezzo immesso sul mercato a farne precipitare il prezzo, tanto che l'armamento delle barche coralline riuscì alla fine per gli armatori antieconomico..."

Nel 1887, i pescatori e gli armatori di corallo di Livorno sollecitarono provvedimenti per limitare la pesca del corallo a Sciacca; e nel 1891, quelli di Torre del Greco, forse spinti da alcuni speculatori finanziari di Genova, convinsero il ministero dell'Agricoltura e del Commercio a vietare del tutto l'attività di estrazione dai tre banchi siciliani. Il provvedimento venne revocato nel gennaio del 1892, quando la grande corsa al corallo di Sciacca - esauritasi  in meno di due decenni - poteva di fatto considerarsi conclusa.

sabato 19 luglio 2025

UN LEGAME STORICO E GENETICO FRA GLI ULIVI SICILIANI E QUELLI LIBANESI

Ulivi a Castelluzzo, nel trapanese.
Fotografie
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


La Sicilia è al centro di quel Mediterraneo che, come ha ricordato Giuseppe Barbera in "Sicilia. Alberi e paesaggi" ( Libri della Natura, 2024, Milano ), "secondo gli studiosi, è il mare degli uliveti".

Nell'Isola, scrive ancora Barbera, "la pianta è presto coltivata ( quella selvatica era da sempre presente tra i cespugli della macchia ) come testimoniano non tanto le pagine degli scrittori, i disegni sulle anfore, i resti archeologici, i documenti di archivio, ma loro, proprio loro, gli alberi..."



L'origine di una delle varietà di olive diffuse nella Sicilia della provincia di Trapani - la Nocellara del Belìce - testimonia la comune storia di questa coltura, la cui diffusione si deve alle migrazioni ed ai commerci che i diversi popoli, per millenni, hanno portato avanti nel Mediterraneo.



Studi genetici hanno infatti stabilito un legame fra la cultivar Nocellara del Belice e la Baladi, originaria del Libano ed ancor oggi molto diffusa nel Paese da cui i Fenici partirono fra il IX e l'VIII secolo avanti Cristo per colonizzare le coste della Sicilia occidentale.  

lunedì 14 luglio 2025

LA SICILIA DESERTICA DI LUIGI GIANOLI, IL GIORNALISTA CON LA VENA DI SCRITTORE

Il latifondo siciliano.
La fotografia è tratta dall'opera
di Ferdinando Milone
"Sicilia. La natura e l'uomo",
edita nel 1960 a Firenze da Bollati-Boringhieri


Esistono giornalisti capaci di esprimere un sicuro talento letterario, oltre le imprecisioni, i vizi di forma ed i limiti di documentazione che accompagnano il mestiere quotidiano di molti cronisti. Uno di questi giornalisti di talento del Novecento italiano è stato il brianzolo Luigi Gianoli, che nel secondo dopo guerra fu un'apprezzata firma della "Gazzetta dello Sport": "l'unico là dentro - ha scritto nel 2024 Franco Bonera in "Pezzi di colore", Ultra Editore, Roma - a potersi fregiare a buon diritto del titolo di scrittore". 

Ai colleghi più giovani, spiegava che "divertirsi mentre si scrive è il vero segreto per scrivere bene". Fu proprio l'applicazione di questo insegnamento che negli anni Ottanta gli valse il riconoscimento di un "Premio Sain Vincent" e di "Una penna per lo sport".

Gianoli - che fra i suoi estimatori ebbe Gianni Brera, Dino Buzzati, Mario Soldati e Gianni Mura - scrisse soprattutto di cavalli e di ippica: una vocazione giornalistica e saggistica legata alla qualifica di ufficiale del Reggimento di Cavalleria Savoia rivestita durante la campagna di Russia. Per la "Gazzetta dello Sport" pubblicò a suo nome anche articoli dedicati alla Targa Florio. Fu probabilmente in quelle occasioni che Gianoli ebbe modo di scoprire la Sicilia: Messina, Ganzirri, Aci Trezza, l'Etna, Agrigento, Cefalù Palermo, così come è testimoniato da un reportage pubblicato nel settembre del 1965 dalla rivista "Sicilia", edita dall'assessorato regionale al Turismo.



In quelle pagine, il giornalista monzese così descrisse l'Isola delle province più interne, riarsa dal sole e con un paesaggio che gli richiamò l'aspetto dei deserti:  

"E il paesaggio dell'interno? Onde d'un mare rappreso, quasi del colore della sabbia, senza un albero, sovente senza una casa, dove s'ergono improvvisi picchi montani, come immense conchiglie abbandonate dal diluvio. E si continua a camminare, ad andare, forse perché presentiamo che, una volta fermi in un luogo, non avremmo più la forza di ripartire..." 

 

GIOVANNI ARTIERI E L'IMPRESSIONE DEL TERMINE DI TRAPANI

Paesaggio di Trapani.
Fotografia
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Giornalista e saggista napoletano, autore di migliaia di articoli e reportage per vari periodici ( "Il Mattino", "La Gazzetta del Mezzogiorno", "Il Tempo", "La Stampa" ), nel dicembre del 1961 Giovanni Artieri riferì sulla rivista "Sicilia" edita dall'assessorato regionale al Turismo le sue impressioni sul paesaggio di Trapani, "città nitidissima e con una nobile gelosia dell'antico":

"Appiattita su una lingua di terra, Trapani si scopre improvvisa. Saline, prati, alberate, riquadri di orti; il giro dei mulini a vento pone nell'immobilità stupita il palpito delle vele. Di fronte, la meraviglia delle Egadi, attruppate e impazienti di entrare in porto...



A Trapani s'avverte, infatti, il senso del termine. Orizzonti bassi e vaporanti, arie bianche e remote, pianure a riva di mare: segno della terra disposta ad estenuarsi e scomparire..."