domenica 2 agosto 2015

RICORDI NETINI DI CORRADO SOFIA

L'"aria greca" e le facezie della vita quotidiana di Noto in una pagina del giornalista pubblicata nel 1953 dalla rivista "Tutta Sicilia"


Lo scenografico edificio
del convento del SS. Salvatore a Noto.
La fotografia è di Ezio Quiresi
ed insieme alle altre immagini del post è tratta
dal volume "Sicilia", edito dal TCI nel 1961
per la collana "Attraverso l'Italia"


Il nome di Corrado Sofia ( Noto, 1906-1997 ) appartiene a quella eccellente schiera di giornalisti, saggisti e uomini di penna siciliani messi impropriamente in ombra dai più noti scrittori dell'isola del Novecento.
A riscattarne il ricordo è stato Corrado Stajano, netino per parte di padre e lucidissimo narratore di vicende, luoghi e personaggi di Noto e della Sicilia.
Stajano incontrò per la prima volta Sofia nel 1992, nella sala grande di palazzo Ducezio
Conobbe allora un distinto signore "con i suoi capelli bianchi, il suo bastoncino dal pomo d'argento" tornato per sempre a Noto ( in una casa tra i gelsomini e gli eucalipti, a Serra di Vento ) dopo una lunga carriera trascorsa a Roma ed all'estero.
Anni dopo, lo avrebbe ricordato così in "Patrie smarrite - Racconto di un italiano" ( Garzanti, 2001 ):

"Avevo sentito parlare di Corrado Sofia forse da sempre, giornalista illustre e colto. 
Viaggiatore nell'Etiopia di Ailé Selassié, nella Cina di prima e dopo Mao Tse-tung, nel'Unione Sovietica degli anni Trenta. Ne aveva cavato articoli per i grandi giornali e libri.
Aveva scritto sulla Sicilia e su Noto.


Passeggiata solitaria lungo la via Nicolaci,
nei pressi di palazzo Villadorada.
Fotografia di Ezio Quiresi, opera citata

Intellettuale dei tempi del fascismo, legato al gruppo solito riunirsi al Caffè Aragno, che faceva, appunto, la fronda da caffè, con Amerigo Bartoli, Vincenzo Cardarelli, Mino Maccari, Gian Gaspare Napolitano, Alfredo Mezio, Sandro De Feo, Ercole Patti.
Aveva scritto sul 'Tevere', il quotidiano razzista di Telesio Interlandi, siciliano di Chiaramonte Gulfi che dirigerà poi anche il giornale più odioso e torbido dei tempi del fascismo, 'La difesa della razza'.
Ma Corrado Sofia era soltanto una persona gentile, dalla voce carezzevole. 
Una naturale innocenza gli aveva permesso di passare, inconsapevole e indenne, attraverso tutti gli orrori del fascismo, della politica, della guerra.
Senza danni, travagli, tormenti"

Negli ultimi anni di vita, Corrado Sofia pubblicò un saggio dedicato alla sua isola, "Gente di Sicilia" ( Il Lunario, Enna, 1995 ).
In precedenza, tracce del suo stretto rapporto con Noto emergono in articoli giornalistici o reportage pubblicati in periodici e quotidiani.
Quello riproposto da ReportageSicilia è un racconto poco conosciuto apparso sul mensile di turismo e artigianato "Tutta Sicilia", edito a Catania nel marzo del 1953 da Edizioni Camene.


La strada fra il fianco del palazzo vescovile
e il convento del SS.Salvatore.
Fotografia di Ezio Quiresi, opera citata 

Lo scritto è il nostalgico ricordo di una Noto in cui la vita quotidiana era scandita da quella "noia di provincia" in cui vecchi baroni imponevano ancora il loro antistorico rango; o in cui personaggi "intelligenti ed estrosi" vivevano di scherzi e facezie, a smuovere l'indolente scorrere dei giorni, fra gli incontri ai tavolini del bar e un gelato al pistacchio di don Alfonso Finocchiaro.
Nei ricordi di Sofia, Noto rimane città di impronta ed "aria greca"; ma la coscienza del valore dell'architettura barocca si impone nella denuncia del moderno sfregio subìto già allora dai suoi preziosi edifici:     


"Sorge sulle ultime colline che digradano dolcemente verso lo Jonio, nella punta più a Sud della Sicilia.
Qualche chilometro ancora più a Sud trovate soltanto Pachino, costruito sulla piana, mentre la prerogativa di Noto è di sorgere sopra colline di mandorli e di carrubi.
Dall'alto si possono vedere i treni che salgono verso il continente, che dal fondo dell'isola affrontano il viaggio dell'Europa.
Nel silenzio, attraverso lo spazio, giunge il fischio delle locomotive, il rumore dei vagoni sulle rotaie.
Ogni giorno, a quasi tutte le ore, ci sono treni che passano e chi vi ha fatto l'orecchio riesce a distinguere i convogli: il merci, il diretto, il misto viaggiatori, l'automotrice a nafta.
C'è un treno che passa all'alba con un richiamo così penetrante da portarvi via l'anima; e quando ci penso, penso sempre che è stato questo richiamo a staccarmi dalle colline del mio paese dove la vita, dopo tutto, sarebbe trascorsa abbastanza tranquilla.


Una veduta aerea di Noto.
L'immagine è di Fotocielo-Roma.
Opera citata

Partire come racconta Olescia: 'Essere nato in un villaggio dell'Occidente e una mattina mettersi in viaggio verso la città', lasciare queste colline, questi alberi, il mandorlo preferito, il ramo che ricorda l'abbronzato braccio della fanciulla con cui passeggiammo una sera, dare l'addio a tutto questo e andar via, ecco in breve la mia piccola storia.
Tuttavia proprio la memoria del fischio di un treno, al mattino, mi riconduce sempre laggiù, alle stesse colline.
Una città costruita a tre piani, uniti tra loro da lunghe e ripide scalee, da straducce e vicoli acciottolati con le pietre bianche del fiume.
Siccome la città è disposta di fronte al sole quando tramonta, le pietre dei palazzi hanno preso col tempo la coloritura del sole e nei momenti che precedono e seguono il crepuscolo la città si illumina, si trasfigura, diventa dorata e poi vermiglia come un'arancia sanguigna.
La pietra è dolce, bianca come la calce quando viene estratta dalle cave, abbastanza tenera e piacevole da lavorare tanto che da generazioni gli scalpellini la intagliano con un'abilità sorprendente, come se ognuno avesse un motorino nella mano.
Noto ha il pregio di essere stata costruita tutta insieme, in un solo momento, con una unità architettonica che ancora si riconosce e secondo un ambizioso progetto quando la vecchia città, il cui nome più antico è Nea, che sorgeva in alto, sulle montagne, molto più addentrata di adesso, rimase distrutta dal terremoto e venne abbandonata; e ora da quelle parti non gira che qualche mandriano e fra le pietre sono cresciuti gli ulivi, i lamponi e le piante grasse.
La città vecchia era una delle più antiche e importanti della Sicilia.
Tutti sanno che nelle vecchie carte il territorio di Noto si estendeva fino a Catania, quando la Sicilia era divisa in tre valli o province.
Quella più a Sud, nell'angolo fra i due mari, Jonio e Mediterraneo, portava appunto il nome di Val di Noto, e la città era grande per quei tempi: la nuova fu costruita tenendo d'occhio il passato, le antiche glorie e i casati, cioè con palazzi gentilizi, atrii, portali, balconi, mensole, fregi, in uno stile che si chiama barocco coloniale, che ha dato molto lavoro agli studiosi perché, a quanto pare, si tratta del migliore esempio di tale barocco.



Per così dire, il canto del cigno del barocco in ordine di tempo, l'ultima meravigliosa espressione: per cui queste pietre andrebbero tenute con riguardo, spolverate con piumini come se fossero gingilli di lusso, liberate da sovrastrutture fasulle da erbe selvatiche o dal fumo di improvvisati camini che le deteriorano.
Il sovraintendente ai restauri, Cesare Brandi, trovandosi un giorno a Londra, sentì parlare di Noto da alcuni studiosi inglesi in termini talmente elogiativi che arrossì nel non conoscere questa città e rimpatriando continuò il viaggio fino in fondo alla Sicilia per colmare la sua lacuna.
Ma la sopraelevazione di un secondo piano sul municipio, che prima faceva pensare ad un adorabile piccolo tempio greco, aveva già tolto gran parte dell'armonia al centro del nostro paese.
Noto non va ricordata soltanto per il suo barocco.
C'è l'aria che si respira che è ancora l'aria della Grecia.
Capita ad ogni passo di vedere spettacoli che fanno pensare alla Grecia.
Senza saperlo, il popolino dipinge le proprie case, oltre che in bianco, in celeste chiaro o in amaranto, i colori dei villaggi greci.
E lungo la spiaggia può accadere che i carrettieri stacchino i cavalli e nudi sui ronzini corrano su una spiaggia sparsa di gigli, ed entrino nel mare come primitive figure dell'Ellade.
Sono passati i greci, i romani, i mori, i normanni, l'altro ieri sono passati gli americani e gli inglesi, e don Alfonso Finocchiaro continua ancora a preparare gelati, torroni, paste di mandorla come faceva qualche suo avolo.
Forse non saprà industrializzare il prodotto, ma con quanto amore, come se ritoccasse opere d'arte, si indugia a colorire fichi e mandarini.
Ci sono anche alcuni tipi, dentro le case o seduti ai tavolini dei caffè, che meriterebbero un piccolo cenno, giacchè si tratta di individui intelligenti, estrosi, che sanno inventare scherzi divertenti per ammazzare la noia della provincia.
Come quel vecchio barone che si accaniva a fare il distratto per mettere alla prova la pazienza di un cameriere.
Si sedeva al caffè e chiedeva:
'Tano, che c'è?'
'Signor barone, c'è gelato di fragola, cedro, pistacchio, cioccolato, torroncino'
'Albicocco', diceva il barone.
'Signor barone, albicocco non c'è'
'E allora che c'è?'
'C'è fragola, cedro, pistacchio, cioccolato, torroncino'
'Albicocco', insisteva l'altro.
'Ma signor barone, ci dissi che l'albicocco non c'è'
'E allora che c'è?' E così il dialogo poteva durare all'infinito.



Oppure il tipo che cuciva le maniche dei cappotti agli amici del palco vicino nelle serate in cui al teatro si dava l'opera; o nell'ora della canicola, in estate, quando tutti dormono e non rimangono sveglie che le cicale, andava a chiamare d'urgenza qualcuno e gli diceva di scendere giù nella strada, così come si trovava, cioè in pigiama, magari un pigiama stinto e rattoppato, lo faceva salire in macchina accanto a lui con la scusa di rivelargli chi sa quali notizie, e quando era seduto avviava il motore e partiva alla volta di Catania o di Taormina.
Adesso sarebbe una cosa normale, non spaventerebbe nessuno andare in pigiama da una città all'altra, adesso che questa moda è penetrata anche quaggiù; ma si pensi alla Sicilia di anni addietro quando non si usciva di casa se non vestiti completamente di scuro da cima a piedi, col colletto e i polsini amidati e il gilet abbottonato fino all'ultimo occhiello.
Un'avventura spiacevole capitò ad un altro barone che trascorreva gran parte della sua giornata affacciato al balcone a osservare la gente che passava sotto di lui e naturalmente non mancava di riverirlo.
C'era un tipo nella nostra città che non voleva cambiare strada, ma non ammetteva quella specie di ossequio obbligatorio, sicché gli passava sotto il balcone senza togliersi il cappello ed era la cosa che più angustiava il barone che qualcuno passasse sotto i suoi balconi senza salutarlo.
Allora un giorno ordinò al servo di comprargli al mercato un paio di corna di quelle che si appendono alle porte contro la jettatura e di collocarle nel mezzo della strada proprio nell'ora che l'altro era solito passare, in modo da ricordargli quello che il barone pensava di lui: cioè che era un grosso cornuto.
L'altro scorgendo da lontano le corna capì l'allusione; per la prima volta si tolse il cappello con un inchino:
'Baciamo le mani, signor barone'
'Ehi, Filippo - disse il barone - mi pare, se non sbaglio, che hai perduto qualcosa'
'No, signor barone - rispose lui di rimando - le mie corna sono ancora qui ( e si tocco la fronte ) queste debbono essere cadute dal balcone di vostra eccellenza'.
E' una città per di più che ha il culto della musica.
E' rimasto famoso quel tipo che di notte saliva dalla sua amante lasciando il garzone di guardia alla porta con l'incarico di fischiettare 'Casta diva' se si fosse presentato qualche pericolo.
Accadeva che il giorno dopo al suo passaggio fischiettano quel motivo" 






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