Vitigni nel territorio di Erice. Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia |
"Sono secoli per non dire millenni che i siciliani coltivano le loro vigne con tenacia e fatica immutata; quei ceppi bassi, che si alzano a pochi centimetri dalla terra calda e asciutta dalla quale ricevono l'essenza del loro vigore..."
Così scriveva Claudio Ragaini in una delle note di "Sicilia", edito da Zanichelli nel 1980 con una raccolta di fotografie di Pepi Merisio e un'introduzione di Fortunato Pasqualino.
Oltre un secolo prima - nel 1853 - un catasto borbonico calcolava l'estensione complessiva in 145.000 ettari ed un totale di 774 milioni di viti
Così, oggi i vigneti contraddistinguono e modellano una buona parte del paesaggio dell'Isola: oltre 100.000 ettari, buona parte dei quali nella provincia di Trapani, una fra le più vitate d'Italia.
Qui, i ceppi sfidano in tutte le stagioni i venti di maestrale, levante e scirocco: accade ad esempio su una delle colline ai piedi della rocca di Erice, con una vista che spazia sino a Mazara del Vallo e Marsala.
Proprio in questo angolo di provincia trapanese - ha ricordato Enrico Iachello in "Il vino: realtà e mito della Sicilia ottocentesca" ( "La Sicilia del vino", Giuseppe Maimone Editore, Catania, 2003 ) - nell'Ottocento Benjamin Ingham dettò alcune raccomandazioni che miravano a razionalizzare la coltura e la vinificazione:
"Per la coltivazione raccomandava di liberare i terreni dalle erbacce e far eseguire con accuratezza la potatura, nonché di sollevare da terra, nei mesi di luglio e agosto, i grappoli di uva che 'possono toccarvi' al fine di 'evitare il disgustevole sapore di terra, spesse volte rimarchevole nei vini di Sicilia'.
Raccomandava poi di iniziare la vendemmia solo quando le uve erano 'perfettamente mature' e di non mischiare uve nere e bianche e far attenzione di evitare 'la fermentazione del mosto dei palmenti... sommamente pregiudizievole al vino... adottando a preferenza il metodo di pestare e imbottare, detto pestimbotta'..."
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