"Il guardiano della solfara di Caltanissetta". Questa didascalia accompagnò la fotografia riproposta da ReportageSicilia pubblicata il 28 giugno del 1952 dal settimanale "Il Mondo" |
Alla fine della seconda guerra mondiale, l'industria dello zolfo in Sicilia versava in una profonda crisi. Nel 1922, si erano prodotte 225.000 tonnellate di zolfo, scese a 131.000 vent'anni dopo. Nel 1946, la quantità si era ridotta a 64.000 tonnellate, con una riduzione del numero delle miniere; nella sola provincia di Caltanissetta, ne erano allora attive una decina sulle centinaia in funzione nei decenni precedenti. La guerra aveva messo fuori uso una buona parte delle gallerie, a causa degli allagamenti d'acqua provocati dal mancato funzionamento degli impianti di pompaggio, fermati dalle frequenti interruzioni dell'energia elettrica.
Le condizioni di lavoro dei solfatari continuavano ad essere allora durissime. Mentre nelle miniere americane lo zolfo veniva estratto con l'impiego del vapore, in Sicilia i minatori dovevano lavorare ancora di piccone, calandosi sino a 180 metri di profondità. Le loro vite erano segnate dalle malattie e dagli stenti; una illuminante testimonianza di questa condizione si deve a Vittorio Gorresio, il giornalista e saggista modenese che il 21 novembre del 1946 firmò sul quotidiano "La Stampa" un reportage realizzato nel nisseno ed intitolato "Come vivono gli zolfatari". Gorresio non si limitò a fornire dati e cifre del tracollo della produzione dello zolfo nell'Isola; estrazione cui avrebbe dato un colpo finale nel 1950 gli Stati Uniti, riavviando le esportazioni nel mondo dopo la guerra di Corea. Nel suo reportage, Gorresio descrisse le condizioni abitative ed igieniche dei solfatari a Caltanissetta, costretti a sopravvivere con le famiglie in tuguri privi di servizi essenziali o in alloggi di gruppo privi anch'essi di accettabili requisiti di salubrità e sicurezza:
"Dice la canzone dei minatori che è una pietà il vedere 'li figghi cca chiancianu di fami'. Di figli, il minatore ne ha quattro in media, ma non mancano casi di sei, degli otto, dei dieci figli. La tessera annonaria fornisce un quarto, circa, delle calorie necessarie al sostentamento ( per mesi la pasta non è stata distribuita ) e non stupisce quindi che l'Ufficiale Sanitario di Caltanissetta, dottor Margani, li abbia trovati, in genere, ' di sviluppo scheletrico e muscolare deficiente, riscontrandosi spesso nei bambini segni evidenti di rachitismo e, come conseguenza, una elevata mortalità infantile'. Per fare la sua indagine il dottore ha visitato le abitazioni dei solfatari ed ha calcolato che nel sessanta per cento dei casi le abitazioni sono di un vano solo, nel quaranta di due. I vani hanno un'altezza di tre metri ed un'ampiezza dai dieci ai venti metri quadrati, calcolatene voi la cubatura. Finestre non ci sono, quasi mai, e quasi mai c'è focolare: si fa cucina su un fornello sulla porta di casa. Il cesso è un buco nel pavimento, acqua non c'è. Questa è la casa di città del minatore, il quale parte la mattina per andare al lavoro, quattro o cinque chilometri distante, e ritorna la sera.
Se la miniera è più lontana, da non poterci andare a piedi tutti i giorni, rimane alla miniera dal lunedi mattina alla sera del sabato. Allora dorme nelle case della zona mineraria, dove dormono in media sette operai per ogni stanza. Le stanze sono di tre metri e mezzo, per due e mezzo, per tre. Ogni operaio ha un metro quadro e venticinque di spazio, tre metri cubi e settantacinque centimetri di aria, esattamente un quarto del minimo prescritto dall'igiene. Le stanze, quasi tutte, sono senza finestre, e le finestre sono sempre senza vetri. Il pavimento è di mattoni di argilla, il tetto di tegole senza soffitto. I letti sono fatti d'assicelle con sopra un pagliericcio; talvolta sono solo paglia sciolta sparsa per terra e qualche volta non c'è paglia. Mancano i cessi, la cucina è un camino, spesso un braciere. Non c'è mensa comune, ogni operaio si cuoce il cibo e se lo mangia seduto in terra, perché non ci sono tavole, né sedie, né sgabelli. Non ci sono medici, non dispensari di medicine, non mezzi di trasporto per un pronto soccorso nella evenienza di un infortunio. Guarda che vita fa li 'surfataru'. E questo è se lavora. Se non lavora è fame intiera per sé e per la famiglia.
Alcuni emigrano, perciò, sono andati nel Belgio a scavare carbone. Al passaggio da Roma, un giornalista siciliano li vide alla stazione, miserabili, con l'aria persa. tanto per dire qualcosa, gli domandò:
'Vi dispiace di dovere andare all'estero?'
'La terra è nera in ogni parte'
rispose uno che pareva lo stravolto povero Ciàula di Pirandello (vi ricordate quella notte che sbucando dal ventre della terra Ciàula scoprì la luna? "Si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell'averla scoperta, là, mentr'ella, saliva pel cielo, la Luna"). Però dopo tre mesi molti tornarono. Alla Questura di Milano dichiararono di essere fuggiti per il cattivo trattamento avuto dalle ditte ( e qualche volta dalle popolazioni ). Dovevano ricevere indumenti speciali, e non li avevano avuti. La paga doveva essere di 150 franchi al giorno, ed era invece di 120, di 110, meno quaranta franchi per un pasto obbligatorio, ed ancora un quarto di ritenute. 'Si fa lu cuntu e lu cuntu nun veni', dice la canzone dei solfatari. Io non so proprio a quale santo suggerirgli di rivolgersi; nessuno, d'altra parte, lo saprebbe. Questa povera gente non può nemmeno fare come fanno i braccianti, non può occupare le miniere come quelli le terre coltivate. Per questo, avverto, è più pericolosa, perché è povera sul serio, e disperata"
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