Il fiume Belìce nei pressi di Poggioreale. Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia |
Il fiume come un elemento naturale parte viva del territorio: un luogo ricco di specie animali, fonte di sostentamento per le comunità locali - grazie alle attività di pesca e di caccia - ma anche risorsa per le incombenze quotidiane, come il lavaggio dei panni o il recupero di materiale per la costruzione di oggetti d'uso casalingo o del lavoro agricolo. Questo è stato per secoli il fiume Belìce - distinto in "Destro" ( che nasce dai monti di Palermo ) e "Sinistro" ( che scende dalla Rocca Busambra ) - per gli abitanti di tre province della Sicilia occidentale, lungo buona parte dei suoi 76 chilometri di lunghezza, gonfi di acqua nei soli mesi invernali. Lo sfruttamento idroelettrico e per usi agricoli dai primi decenni del Novecento ha impoverito il corso del Belìce; con esso - inevitabilmente - la fauna, la flora e le attività umane che vi si sviluppavano, così come descritto nel 2003 da Erasmo Vella:
"Questo fiume, chiamato nel buio dei secoli Ipsa o Crimiso - si legge in "Poggioreale di Sicilia tra civiltà contadina e odierna società", Prova d'Autore, Catania - era detto anche 'flumen magnum' per la portata di acqua che nei tempi remoti aveva. I poggiorealesi, almeno per la parte che interessa il loro territorio, se un nome avessero dovuto dare, lo avrebbero chiamato il 'fiume nostro', perché nel quadro d'insieme delle cose che erano loro familiari, questo corso d'acqua ha occupato sempre un posto di primo piano per i contatti continui che essi hanno avuto, sia per attraversarlo al fine di raggiungere le zone di lavoro, sia per la coltivazione dei terreni adiacenti. L'acqua del fiume è stata sempre preziosa, dove armenti, mandrie di ovini, bestie da lavoro e di diporto si sono dissetati; dove le massaie, per la carenza di acqua nella stagione estiva, andavano a lavare i panni, dove si andava a praticare la pesca delle anguille, dei muletti, dei granchi, delle tinche e nei tempi più remoti delle trote e dei cefali, dove si praticava la caccia alla selvaggina migratoria e a quella stanziale. Tra la migratoria transitavano le folaghe a partire dal mese di ottobre, le alzavole, le anatre, molto pregiato il germano reale e tante altre specie di anatidi; poi l'airone cinerino, la beccaccia che trovava l'ambiente adatto nei vari canneti molto diffusi allora in tutte le dagali, i chiurli, le pavoncelle, i beccancini attratti dai frequenti acquitrini della fiumara; tra la stanziale si cacciavano le gallinelle d'acqua, i conigli che proliferavano tra la macchia assai estesa di molte zone incolte e le volpi.
Inoltre la frequenza del fiume da parte dei poggiorealesi era suggerita dalla necessità di tagliare le canne e i germogli flessibili dell'albero di olmo per costruire le grosse ceste di canna per la vendemmia, i panieri, i canestri per gli usi quotidiani: i nostri contadini erano abbastanza esperti nella manifattura di questi attrezzi; anzi, qualcuno si rivelava un artista nel costruire oggetti e panierini in miniatura che erano dei veri gioielli..."
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