venerdì 25 giugno 2021

STORIA, MITO ED ETIMOLOGIA DEL GRANO IN SICILIA SECONDO FERDINANDO MILONE

Foto attribuita a Greco
pubblicata dalla rivista "Sicilia"
edita da S.F. Flaccovio Palermo
nel marzo del 1959


Si legge nell'Odissea che nella terra dei Ciclopi il grano fosse solito crescere quasi per miracolo, insieme all'orzo, "senza seme e senza opera dell'aratro"; una evidente falsità sottolineata dal geografo Ferdinando Milone, che, nell'opera "Sicilia. La natura e l'uomo" pubblicata nel 1960 da Paolo Boringhieri proprio alla secolare storia del grano nell'Isola dedicò ben dieci pagine. Insieme ad alcune ancora attuali notazioni sulle caratteristiche della coltivazione del grano in Sicilia, Milone si soffermò sulla diffusione di questa coltura nell'antichità; una feracità di cui diedero conto - oltre ad Omero - numerosi storici, scrittori, filosofi e botanici greci e romani: 

"Alla Sicilia riferisce Diodoro Siculo i versi di Omero, e li ritiene propri, adatti, per la bontà della terra, e perché ad essa per prima donarono il grano, 'le dee che lo inventarono, Demetra e Core, le quali sono massimamente onorate dai Sicelioti'. Ma Biagio Pace, nato anch'egli, come Diodoro, in Sicilia, sia pure a distanza di parecchi secoli, ci informa che in molti paesi di antica civiltà la leggenda ricollega alla propria terra la patria del grano e ne fa un dono portentoso della divinità. Tuttavia, ricorda l'illustre compianto autore, la leggenda rimane pur sempre a dimostrare l'importanza della coltura dei cereali nell'isola, come la documenta del pari la diffusione del culto di Demetra e di Core. Core è Proserpina, che proprio nel cuore della Sicilia fu rapita e trascinata da Plutone negli antri dell'inferno, mentre Demetra cercava invano la figliola per tutti i cantucci dell'isola. Inoltre, la credenza che il grano crescesse selvatico nei più fertili campi in Sicilia, poteva trovare appiglio 'in quelle graminacee selvatiche che offrono esteriore somiglianza coi frumenti, forse quel grano canino o orzo selvatico, che invade prosperoso vasti campi della Sicilia e quando a primavera fa la spiga dà una compiuta illusione di grano', dice il Pace.



Certo, la diffusione della coltura nell'isola nei tempi antichi, doveva essere grande, e il Pace ricorda i nomi di 'farru' e 'tuminìa', ancor oggi adoperati localmente. Il primo nome, forse derivato dal 'far' degli antichi, corrispondente ai grani 'vestiti' dei botanici moderni, in contrapposizione al 'triticum', che indicava i grani 'nudi'. 'Tuminìa', che con tanti altri nomi indica il grano marzuolo siciliano, avrebbe conservato il termine greco, deformato per incrocio su vocabolo noto, e cioè 'tuminu', vale a dire 'tumolo', misura di aridi e di superficie. Il grano doveva essere largamente coltivato, nell'antichità. Oltre ai famosi campi di Leontini e alle ondulazioni di Enna, erano ricordati, per la loro feracità in grano: i campi di Gela, menzionati nell'Epitafio di Eschilo; i dintorni di Selinunte, sulla costa meridionale, ricordati da Plinio e Teofrasto; e i campi di Mile, e cioè Milazzo, dove Teofrasto dice che si sarebbe avuta una messe di trenta volte la semente. Esagera Teofrasto, naturalmente; ed esagera Plinio, che parla di una messe di cento volte la semente, nei campi di Leontini, addirittura. Meno enfatico, una volta tanto, sarebbe stato Cicerone a portare la messe della pianura catanese, appunto, a otto o dieci volte la quantità seminata.  Tuttavia, la coltura del grano, ai tempi di Roma, doveva essere di gran lunga la più diffusa. E il raccolto abbondante. Nel secolo quinto avanti Cristo, l'isola esportava grano a Corinto, ad Atene, e, ancor più, a Roma. Gelone prometteva ai Greci di nutrirne l'esercito durante tutta la guerra contro i Persiani, a quanto ci narra Erodoto.



Cicerone afferma che la decima sul grano era il più importante gettito della provincia di Sicilia, e forse il solo cespite d'entrata pubblica. I granai di Siracusa erano famosi ai tempi dell'assedio di Marcello. Prima che finisse il terzo secolo avanti Cristo, Ierone faceva dono al popolo romano di ben 200000 'modii' di frumento, e inviò a Roma grano per le guerre di Illiria e di Gallia. Roma, insediata in Sicilia, cercò di mantenere in efficienza questa preziosa fonte di vita, e un suo proconsole percorse l'isola con reparti di cavalleria per incoraggiare, in maniera abbastanza persuasiva, la ripresa delle semine: 'ut viseret agros, cultaque ab incultis notaret et perinde dominos laudaret castigaretque'. Lo dice Livio. E Catone chiama la Sicilia 'nutricem plebis romanae'. Si vuole che ai tempi di Cicerone, l'isola desse in tutto circa 6 milioni di medimni, e cioè poco più di 3 milioni di ettolitri. Non molti di più: 3750000 ettolitri avrebbe forniti l'isola al tempo dell'Amari, alla metà dell'Ottocento. Nè i 6 milioni di medimni, e cioè poco più di 3 milioni di ettolitri, è da pensare che potessero essere superati dalla produzione dei tempi preromani. 



Credo, con il Pace, che debba considerarsi un vero luogo comune degli scrittori siciliani e stranieri la supposizione che prima di Roma l'agricoltura dell'isola fosse più prospera. Tanto più, che, come ci dice anche il Rostovzev, tranne qualche periodo di decadenza per guerre o lotte politiche, la Sicilia dovette mantenere a lungo la sua importanza come paese granario, e, mentre richiamava a sé capitali e iniziative romane e braccia servili d'Africa e d'Oriente, poteva sempre contare sulla metropoli, quale insaziabile e ognora crescente mercato di consumo..."

 

venerdì 18 giugno 2021

LUCI ED OMBRE DEL PERCORSO ARTISTICO SICILIANO SECONDO BORGESE

Santuario e convento
della Madonna dell'Olio a Blufi.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Fu nel 1932 che, da New York, Giuseppe Antonio Borgese scrisse l'introduzione al volume sulla Sicilia pubblicato dal TCI l'anno successivo per la collana "Attraverso l'Italia"; un testo il cui incipit contiene una delle più note considerazioni espresse da Borgese sulla natura della sua regione:

"Un'isola non abbastanza isola: in questa contraddizione è contenuto il tema storico della Sicilia, la sua sostanza vitale"



In quell'introduzione, lo scrittore, critico e saggista di Polizzi Generosa  illustrò la storia dell'Isola con un taglio prevalentemente storico ed antropologico, riconducendo a questo contesto anche alcune notazioni sull'arte isolana:  

"Le lacune artistiche della Sicilia coincidono con le sue lacune storiche; essa è povera di romanità, e relativamente povera di Rinascimento; ciò che nell'Italia centrale abbonda, in essa difetta; e viceversa; le sue epoche d'oro non accompagnano quelle del continente, ma si può dire che rispetto alla Toscana e a Roma la Sicilia abbia una posizione alternata e complementare... Meno che nazione, la Sicilia è più che regione; non un frammento d'Italia, ma sua integrazione e aumento"



domenica 13 giugno 2021

L'ELOGIO DEGLI EMIGRATI DA STROMBOLI DI GINO VISENTINI

Casa a Ficogrande, nell'isola di Stromboli.
La foto di Josip Ciganovic
è tratta dall'opera di Aldo Pecora "Sicilia",
edita da UTET nel 1974


Prima del secondo conflitto mondiale, Stromboli poteva contare su una popolazione di 4.000 persone; si erano ridotte a circa 600 nel 1947, quando il giornalista, critico d'arte e sceneggiatore Gino Visentini realizzò nell'isola delle Eolie un reportage pubblicato il 12 giugno di quell'anno dal "Corriere della Sera". L'articolo di Visentini colse allora i caratteri della massiccia emigrazione in corso degli stromboliani verso le lontanissime terre d'America, d'Australia e della Nuova Zelanda: un esodo che spopolò in quegli anni l'isola, determinando anche l'abbandono di un rilevante numero di abitazioni - in primo luogo, a Ginostra - in seguito diventate oggetto di famelici appetiti immobiliari. Il racconto del cronista sottolineò in primo luogo lo spirito intraprendente che animò una buona parte della comunità di Stromboli a cercare fortuna lontano da un ambiente dominato, allora come oggi, dall'attività vulcanica:

"Se date un calcio alla porta di una delle tante case disabitate ed entrate dentro, troverete fotografie di fruttivendoli agli angoli delle strade di Nuova York, di Melbourne o di Sidney. Generalmente lo stromboliano che emigra apre un negozio di frutta. Nei primi sette o otto mesi, l'emigrante si preoccupa soltanto di una cosa: imparare la lingua e durante questo periodo vive a spese dei parenti o dei paesani perché quando arriva non ha scorte di denaro. Poi mette su anche lui un negozio. Quelli che dall'Australia passano alla Nuova Zelanda aprono invece osterie o alberghi. Fra loro vi sono la solidarietà e un sentimento di protezione rari a trovarsi in altre comunità. Gli stromboliani che lasciano l'isola per affrontare la vita all'estero hanno l'orgoglio di riuscire. Partono con le abitudini estremamente frugali e il senso dell'economia cui li ha assefuatti la loro terra ingrata e avarissima, ciò che li rende quasi invulnerabili alle durezze e ai sacrifici della nuova strada che hanno scelto. Del resto, tutti gli emigranti di Stromboli hanno fatto fortuna, e la prova migliore è che, sul loro esempio, tutti partono o vogliono partire. La prontezza e l'intelligenza si colgono a prima vista negli stromboliani, e può darsi che questi davvero siano gli attributi principali che distinguono le popolazioni delle terre vulcaniche e che spiegano il costante successo dell'emigrante di Stromboli...



... In questa isola una sola strada ha un nome, ed è quella che porta dalla spiaggia su in paese. essa è stata intitolata a Vito Nunziante, deputato al Parlamento di Buenos Aires, uno dei tanti stromboliani che si sono arricchiti all'estero. A lui si deve se la strada principale del paese è lastricata di cemento. Perché Stromboli, nel suo nucleo, è un paese che non manca per niente di decoro. Il forestiere che sbarca qui, e non sa nulla, stupisce che un'isola tanto priva di risorse e dove non esiste commercio, abbia due chiese piuttosto grandi, una delle quali con una cupola maestosa e un'aria quasi da cattedrale. Poi vieni a sapere che esse sono state costruite con i denari degli emigrati. Alcuni di essi sono veramente ricchi. Tutti qui parlano 'd'u bancunaru', che è uno stromboliano divenuto proprietario di una grossa banca in America e che aiuta volentieri i paesani quando ne hanno bisogno, e di un altro stromboliano, emigrato negli Stati Uniti, prima dell'altra guerra, e oggi uno dei più grossi proprietari di rimorchiatori nel porto di New York..."



venerdì 11 giugno 2021

MOZIA, UNA HONG KONG MEDITERRANEA DELL'ANTICHITA'

L'isola di Mozia,
antica colonia commerciale punica.
Le foto del post sono
di Ernesto Oliva-ReportageSicilia



Da oltre 20 secoli l'isola di Mozia è una silenziosa ed appartata porzione di terra galleggiante sullo specchio d'acqua dello Stagnone di Marsala. Un luogo "di un'amenità senza confronti", la definì l'archeologo Vincenzo Tusa nel 1963. Il suo silenzio, interrotto solo dallo scivolare sull'acqua delle barche che vi fanno approdare piccoli gruppi di visitatori, nulla ha a che fare con la frenetica vita che vi si svolse sino al 397 avanti Cristo. Quell'anno, la colonia punica venne devastata con le palle di pietra scagliate dalle catapulte dall'esercito di Siracusa, responsabile di uno dei tanti crimini contro l'umanità dimenticati della storia: la crocifissione dei mercanti elleni che avevano scelto di condividere in quest'angolo di Sicilia con i moziesi le proprie attività imprenditoriali.

Prima della distruttiva incursione siracusana, la piccola Mozia era stata una delle colonie più attive nei commerci lungo le rotte del Mediterraneo, al punto da battere una propria moneta ed attrarre gente proveniente anche da Creta; vi erano stati impiantati laboratori per la produzione della porpora - un colorante per i vestiti estratto dai molluschi presenti in abbondanza nel mare circostante - ed era fiorente il commercio di sale, pesce conservato ed olio. Lo Stagnone, allora, doveva avere l'aspetto di un'affollata rada ingombra di navi impegnate a caricare e scaricare merci e commercianti, in una babele di lingue dell'antichità.

La statua in marmo
del "giovinetto di Mozia"
scoperta nel 1979 ed esposta nell'isola:
un folgorante esempio
di scultura siceliota del V secolo

 

Quest'immagine oggi remota di Mozia ha indotto nel 1978 il giornalista Ettore Serio a paragonarla allora ad una delle contemporanee città portuali dell'Asia:

"Qualcuno l'ha paragonata ad una piccola Hong Kong o Singapore nel senso che le forme di insediamento erano state simili a quelle seguite molti secoli dopo dagli europei. Come a Hong Kong, i cartaginesi abitavano tutti insieme a Mozia dove avevano i loro templi, i magazzini, il grande emporio. Intorno allo Stagnone, verso la pianura di Birgi, v'erano i villaggi indigeni. La storia dell'isola come entità autonoma finì nel 397 avanti Cristo, quando Dionisio di Siracusa assediò Mozia con 300 navi e 80.000 uomini. Entrando in città, massacrò i mercanti greci che trovò, confermando con tale atto che Mozia era un emporio di importanza internazionale, perlomeno per quei tempi. Abbandonata dai suoi abitanti, Mozia rimase sepolta dalla sabbia e fu praticamente dimenticata. A tirarla fuori dall'oblio provvide Pip Whitaker, uno degli eredi della dinastia di inglesi trapiantati in Sicilia che contribuirono a far conoscere nel mondo il vino Marsala..."


martedì 8 giugno 2021

IL SORTILEGIO SICILIANO DELL'INFELICITA' SECONDO MARIA MESSINEO VANDINI



In una "Guida Agenda Messina 1952" edita da Edizione Catri venne pubblicata una curiosa inserzione promozionale: "in Sicilia gioia di vivere", slogan accompagnato dai volti sorridenti di un uomo e di una donna. La didascalica capacità di comunicazione di quel messaggio, destinato a convincere i turisti della capacità dell'Isola di donargli felicità e spensieratezza, fa ancor oggi riflettere sugli stati d'animo che la Sicilia concede a chi vi nasce e vive, magari dopo avere rinunciato ad una precoce scelta di emigrazione. Fra i sentimenti possibili per i siciliani, quello della felicità sembra  in realtà essere fra i meno diffusi; segno forse di quel sofferto vivere di odio e di amore che una buona parte degli isolani  coltiva verso la propria Isola

Di questo stato d'animo ha scritto nel 1979 la giornalista e saggista Marisa Messineo Vandini, una "non siciliana" segnata  fortemente dalla Sicilia in virtù dei suoi legami familiari e dei rapporti di collaborazione con il "Giornale di Sicilia" e "Telestar" : 

"Era la fine di giugno - si legge nel saggio "Clippings" ( Todariana Editrice Milano - e stavo risalendo  in treno dalla Sicilia verso il Nord. Quasi senza accorgermene, cercavo di definire a me stessa le sensazioni che il passaggio veniva man mano offrendomi... In che modo andava differenziandosi, fluidamente, l'atmosfera, la natura? Il cielo si faceva di un turchino meno intenso, più grigio ed il verde meno polveroso e riarso. I colori meno vivi, i contrasti meno evidenti. Il clima, più temperato, diluiva uniformemente il paesaggio che diveniva anche più domestico nella punteggiatura di case coloniche, nel frazionamento ordinato e pignolesco dei poderi, mentre in Sicilia l'agro è solitario e sdegnoso, ai piedi di roccaforti paesane, distanti l'una dall'altra come nemiche.



Salendo verso Nord della penisola una diversa vegetazione contorna i campi di grano; si infittiscono i boschi di pioppi e cipressi, appaiono i filari di alberi da frutta a recingere i campi coltivati. Ci lasciamo indietro gli ulivi, le palme, gli aranceti ed i giardini di limoni il cui stesso nome dà immagine di qualcosa creato più per il godimento estetico che per il valore pratico, venale. Anche gli orti di Sicilia sanno di favola... Ma soprattutto il mare, la sua potenza arcana, immutabile, che pervade anche il punto più interno dell'isola, tutto a un tratto cessa di dominarci con la sua presenza.

Verdi colline, smussati contorni, di un breve orizzonte, sostituiscono le corrusche quinte brune e violette delle montagne vulcaniche. Si ha, in un certo senso, l'impressione di essere di nuovo fra la gente dopo un soggiorno in un silenzioso giardino incantato. Eppure lasciare il Sud significa anche lasciare le emozioni e l'irrazionale per un tenore di vita più monotono, più organizzato e più comodo forse, ma anche meno eccitante, meno poetico. Una tenue malinconia serpeggia insieme ai chilometri, un vago rimpianto per l'isola dei contorni sfumati nel sole turchino.

E una domanda: perché la felicità che vi si potrebbe esistere è più che altrove non è in effetti riscontrabile nella realtà umana dell'isola? Quale antico sortilegio ha mai ghiacciato negli abitanti dell'isola la linfa della spensieratezza e della semplicità, rendendoli gravi sotto un'ombra di morte? Quale divinità invidiosa ha buttato l'anatema su quella terra ricolma di splendori?

Da questo forse scaturisce, in chi vi è nato, il bisogno ricorrente di fuggire. L'ho provato anch'io, che non vi sono nata, al termine di lunghi soggiorni. Sensazione contrastante con l'attrazione verso la Sicilia che mi seguiva anche lì, sul rapido che già si lasciava dietro Firenze ed in meno di un'ora sarebbe arrivato a Bologna. Già provavo nostalgia per le insenature verdi e colme di calura, per le ceste ordinatamente ricolme di bellissime frutta e verdura poste a rallegrare il grigio dell'asfalto e del cemento.



Per il 'monte solitario' e per il parco che si stende ai suoi piedi. Per i fastosi cadenti palazzi barocchi e per la via spaziosa ed alberata che marca il centro della sua urbanistica. Nostalgia per i sipari di roccia che dividono una scena dall'altra, in una interminabile sequenza di colori e di bellezza che glorifica, esaspera addirittura l'aggettivo 'mediterraneo'.

L'incomprensibile mistero di questa isola. Bellezza e morte indissolubilmente legati. Un monito divino che il cammino dell'uomo verso la libertà e la compiutezza del proprio spirito è cosparso di asperità. E mi venne in mente al termine del viaggio verso il Nord il detto famoso 'Nec tecum nec sine te vivere possum'".

mercoledì 2 giugno 2021

QUANDO NOBILI E BORGHESI DISPREZZAVANO L'OPERA DEI PUPI

Pubblico dell'opera dei pupi a Palermo
agli inizi degli anni Cinquanta del Novecento.
Fotografia di Quintino Di Napoli
pubblicata in "Le Vie d'Italia" del TCI
nell'agosto del 1951


Ne scrisse già Giuseppe Pitrè, alla fine dell'Ottocento, del disprezzo dell'aristocrazia e della borghesia palermitana nei confronti dell'opera dei pupi, segnalando un articolo in cui un giornalista del tempo sottolineava "il secolare malvezzo delle vandaliche rappresentazioni, che giornalmente hanno luogo nei teatrini di marionette..."

Della scarsa considerazione meritata dall'opera dei pupi fu portavoce agli inizi del Novecento l'inglese Henry Festing Jones, collaboratore e biografo di quel Samuel Butler passato alla storia per avere ipotizzato la sicilianità di Omero e l'ambientazione dell'Odissea nel trapanese. Autore di più opere sulla cultura popolare in Sicilia, Jones fu particolarmente attratto proprio dal teatro dei pupi, scrivendone nel 1909 e nel 1911 nei saggi "Diversions in Sicily""Castellinaria and other sicilian diversions". Nel 1987, Sellerio pubblico alcuni capitoli delle due opere in "Un inglese all'opera dei pupi", con una prefazione di Attilio Carapezza.



In quello intitolato "Michele e la principessa di Biserta", Henry Festing Jones così testimoniò l'astio delle classi "colte" dell'Isola verso burattini e pupari:

"Ai siciliani colti il teatro dei pupi piace poco, e con loro si fa spesso fatica soltanto a parlarne. Sostengono che le marionette sono fatte per le classi più umili e le ritengono la causa di molte delle liti di cui si legge sui giornali. Il popolo verrebbe talmente suggestionato dall'esaltazione eroica in cui vive sera dopo sera da imitare nella vita quotidiana il comportamento cavalleresco dei guerrieri che vede combattere nei teatrini, sicché avverrebbe talvolta che quella che inizia come una rievocazione scherzosa di qualcosa vista nello spettacolo della sera prima si risolva in una ripetizione sin troppo accurata di un duello e si concluda tragicamente.



L'analogia con quanto scrivono i giornali inglesi su ragazzi che si trasformano in teppisti o si imbarcano come clandestini per effetto di cattive letture, accrebbe il mio desiderio di assistere a uno spettacolo di pupi, ma non volevo andarci da solo, perché nel caso di una rissa tra il pubblico, con coltelli, sarebbe stato meglio essere in compagnia di uno del posto..."