Foto attribuita a Greco pubblicata dalla rivista "Sicilia" edita da S.F. Flaccovio Palermo nel marzo del 1959 |
Si legge nell'Odissea che nella terra dei Ciclopi il grano fosse solito crescere quasi per miracolo, insieme all'orzo, "senza seme e senza opera dell'aratro"; una evidente falsità sottolineata dal geografo Ferdinando Milone, che, nell'opera "Sicilia. La natura e l'uomo" pubblicata nel 1960 da Paolo Boringhieri proprio alla secolare storia del grano nell'Isola dedicò ben dieci pagine. Insieme ad alcune ancora attuali notazioni sulle caratteristiche della coltivazione del grano in Sicilia, Milone si soffermò sulla diffusione di questa coltura nell'antichità; una feracità di cui diedero conto - oltre ad Omero - numerosi storici, scrittori, filosofi e botanici greci e romani:
"Alla Sicilia riferisce Diodoro Siculo i versi di Omero, e li ritiene propri, adatti, per la bontà della terra, e perché ad essa per prima donarono il grano, 'le dee che lo inventarono, Demetra e Core, le quali sono massimamente onorate dai Sicelioti'. Ma Biagio Pace, nato anch'egli, come Diodoro, in Sicilia, sia pure a distanza di parecchi secoli, ci informa che in molti paesi di antica civiltà la leggenda ricollega alla propria terra la patria del grano e ne fa un dono portentoso della divinità. Tuttavia, ricorda l'illustre compianto autore, la leggenda rimane pur sempre a dimostrare l'importanza della coltura dei cereali nell'isola, come la documenta del pari la diffusione del culto di Demetra e di Core. Core è Proserpina, che proprio nel cuore della Sicilia fu rapita e trascinata da Plutone negli antri dell'inferno, mentre Demetra cercava invano la figliola per tutti i cantucci dell'isola. Inoltre, la credenza che il grano crescesse selvatico nei più fertili campi in Sicilia, poteva trovare appiglio 'in quelle graminacee selvatiche che offrono esteriore somiglianza coi frumenti, forse quel grano canino o orzo selvatico, che invade prosperoso vasti campi della Sicilia e quando a primavera fa la spiga dà una compiuta illusione di grano', dice il Pace.
Certo, la diffusione della coltura nell'isola nei tempi antichi, doveva essere grande, e il Pace ricorda i nomi di 'farru' e 'tuminìa', ancor oggi adoperati localmente. Il primo nome, forse derivato dal 'far' degli antichi, corrispondente ai grani 'vestiti' dei botanici moderni, in contrapposizione al 'triticum', che indicava i grani 'nudi'. 'Tuminìa', che con tanti altri nomi indica il grano marzuolo siciliano, avrebbe conservato il termine greco, deformato per incrocio su vocabolo noto, e cioè 'tuminu', vale a dire 'tumolo', misura di aridi e di superficie. Il grano doveva essere largamente coltivato, nell'antichità. Oltre ai famosi campi di Leontini e alle ondulazioni di Enna, erano ricordati, per la loro feracità in grano: i campi di Gela, menzionati nell'Epitafio di Eschilo; i dintorni di Selinunte, sulla costa meridionale, ricordati da Plinio e Teofrasto; e i campi di Mile, e cioè Milazzo, dove Teofrasto dice che si sarebbe avuta una messe di trenta volte la semente. Esagera Teofrasto, naturalmente; ed esagera Plinio, che parla di una messe di cento volte la semente, nei campi di Leontini, addirittura. Meno enfatico, una volta tanto, sarebbe stato Cicerone a portare la messe della pianura catanese, appunto, a otto o dieci volte la quantità seminata. Tuttavia, la coltura del grano, ai tempi di Roma, doveva essere di gran lunga la più diffusa. E il raccolto abbondante. Nel secolo quinto avanti Cristo, l'isola esportava grano a Corinto, ad Atene, e, ancor più, a Roma. Gelone prometteva ai Greci di nutrirne l'esercito durante tutta la guerra contro i Persiani, a quanto ci narra Erodoto.
Cicerone afferma che la decima sul grano era il più importante gettito della provincia di Sicilia, e forse il solo cespite d'entrata pubblica. I granai di Siracusa erano famosi ai tempi dell'assedio di Marcello. Prima che finisse il terzo secolo avanti Cristo, Ierone faceva dono al popolo romano di ben 200000 'modii' di frumento, e inviò a Roma grano per le guerre di Illiria e di Gallia. Roma, insediata in Sicilia, cercò di mantenere in efficienza questa preziosa fonte di vita, e un suo proconsole percorse l'isola con reparti di cavalleria per incoraggiare, in maniera abbastanza persuasiva, la ripresa delle semine: 'ut viseret agros, cultaque ab incultis notaret et perinde dominos laudaret castigaretque'. Lo dice Livio. E Catone chiama la Sicilia 'nutricem plebis romanae'. Si vuole che ai tempi di Cicerone, l'isola desse in tutto circa 6 milioni di medimni, e cioè poco più di 3 milioni di ettolitri. Non molti di più: 3750000 ettolitri avrebbe forniti l'isola al tempo dell'Amari, alla metà dell'Ottocento. Nè i 6 milioni di medimni, e cioè poco più di 3 milioni di ettolitri, è da pensare che potessero essere superati dalla produzione dei tempi preromani.
Credo, con il Pace, che debba considerarsi un vero luogo comune degli scrittori siciliani e stranieri la supposizione che prima di Roma l'agricoltura dell'isola fosse più prospera. Tanto più, che, come ci dice anche il Rostovzev, tranne qualche periodo di decadenza per guerre o lotte politiche, la Sicilia dovette mantenere a lungo la sua importanza come paese granario, e, mentre richiamava a sé capitali e iniziative romane e braccia servili d'Africa e d'Oriente, poteva sempre contare sulla metropoli, quale insaziabile e ognora crescente mercato di consumo..."