lunedì 16 maggio 2022

SELINUNTE: STORIE DI TOMBAROLI, DI SARDE E DI REPERTI SALVATI DAL SACCHEGGIO

Reperti scoperti a Selinunte
esposti al Museo "A.Salinas" di Palermo.
Foto di Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Una delle più singolari imprese dell'archeologia siciliana porta la firma del professore Vincenzo Tusa. Fra il 1963 ed il 1968, l'allora dirigente della Soprintendenza alle Antichità della Sicilia Occidentale riuscì ad arginare la razzia della vasta necropoli di Selinunte messa in atto dai tombaroli: pescatori e contadini che dallo scavo clandestino e dalla vendita dei corredi funerari ricavavano preziose lire. Storia vuole che da questa "depredazione da poveri" la mafia locale abbia per anni ricavato ingenti guadagni: i reperti più pregiati infatti sarebbero stati affidati a personaggi come Francesco Messina Denaro - il padre di Matteo - e piazzati sul mercato clandestino italiano e straniero. "Mi resi conto di questa situazione - avrebbe scritto anni dopo lo stesso Tusa - e decisi che lo scempio doveva terminare. Non solo. Quegli stessi tombaroli, in molti casi, avevano una migliore conoscenza dei luoghi in cui scavare rispetto agli archeologi. Offrendo loro la possibilità di essere pagati con regolarità per le  ricerche, il saccheggio sarebbe finito". L'operazione venne attuata con successo, grazie al fatto che gli scavi di Selinunte erano stati affidati in concessione alla Fondazione Mormino del Banco di Sicilia. Vincenzo Tusa convinse l'istituto bancario a farsi carico del progetto, che ottenne vasta eco sulla stampa italiana e una naturale contrapposizione fra estimatori e critici. Per la durata di quattro anni, i tombaroli di Selinunte misero in luce i reperti di circa 5.000 tombe di quella che è considerata come una delle più popolose e ricche metropoli del Mediterraneo antico. 



L'iniziativa è così diventata una delle pagine aneddotiche più ricordate nella storia dell'archeologia siciliana. Venne in questo modo descritta nel febbraio del 1970 da Cornelia Isler Kerenyi dell'Università di Zurigo, sulla base del racconto riferitole verosimilmente dallo stesso Vincenzo Tusa, che ebbe l'occasione di ospitarla più volte a Selinunte:

"Una notte d'inverno di qualche anno fa - scrisse la Kerenyi sulla rivista "Sicilia" edita dall'assessorato regionale al Turismo - un gruppo di clandestini stava lavorando in uno dei campi nei dintorni di Selinunte. La maggior parte degli uomini organizzati in gruppi scavava le tombe, alcuni altri stavano nel frattempo cucinando le sarde allo spiedo, che sarebbero servite da spuntino. Ed ecco ad un tratto sorgere un gruppo di individui estranei, ben presto riconosciuti quali il Soprintendente alle Antichità della regione, il professore Vincenzo Tusa e i suoi assistenti. Tutti gli scavatori se la squagliarono, abbandonando gli attrezzi e si nascosero nelle vigne. Solo i cuochi impacciati dagli spiedi furono costretti a rimanere sul posto. Si aspettano forse di venire arrestati o per lo meno perquisiti. Ma la cosa prese una piega inaspettata. Il Soprintendente, infatti, si informò con voce calma cosa facessero. Era d'altronde evidente che le sarde non erano che un pretesto, mentre la vera attività ero lo scavo clandestino. 



Si cominciò a parlare delle ragioni di quella attività. L'incontro notturno si concluse con un patto: se il professore Tusa fosse riuscito entro pochi giorni a procurare un lavoro legale ai clandestini presenti in quel momento e a risolvere così il loro problema vitale, il mantenimento della propria famiglia, questi si impegnavano a sospendere gli scavi notturni. In caso contrario tutto sarebbe rimasto come prima..." 

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