Veduta di Palermo. Fotografia Ernesto Oliva-ReportageSicilia |
Nel suo saggio "Palermo", pubblicato nel 1988 da Editori Laterza, lo storico Orazio Cancila ha ripercorso le vicende del capoluogo della Sicilia dal periodo borbonico sino alla vigilia degli anni Novanta dello scorso secolo: un'esame temporale in cui, pur non potendo ancora tenere conto della rilevanza per la storia contemporanea palermitana delle stragi Falcone e Borsellino - datate 1992 - vengono sottolineate le storiche distorsioni comportamentali e culturali della società cittadina.
Cancila evidenzia come già nel 1838 il procuratore generale del re nella città di Trapani, Pietro Calà Ulloa, segnalasse nelle sue relazioni alle autorità borboniche il deteriorato quadro della vita palermitana, proponendo una radicale soluzione del problema:
"Si comprende perché Pietro Calà Ulloa, alto funzionario borbonico, fosse fortemente convinto nel 1838 della necessità di "sradicare, di scardinare la Sicilia intera da Palermo", una città che egli giudicava ancora feudale, lussuosa e corrotta, boriosa e arrogante, popolata da "nobili alteri e potentissimi" e da 40.000 proletari ( "volgo avido e ignorantissimo" ), priva di un ceto medio di commercianti e industriali e ricca invece di magistrati e avvocati "avidi, ignoranti, baldanzosi, immoralissimi", in posizione di "vilissima soggezione a quanti sono patrizii di Palermo".
Ancora alla metà del secolo - probabilmente proprio a causa dell'elevato numero di nobili che la popolavano e di una diffusa mentalità spagnolesca e antieconomicistica tra i suoi abitanti - essa, più che una città italiana, appariva ad un viaggiatore francese una città spagnola, abitata da gente superba, attaccabrighe, diffidente..."
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