La testata, inequivocabilmente, ricorda quella del mensile 'I Siciliani' di Pippo Fava, esempio di un giornalismo d'inchiesta che nella Sicilia degli anni Ottanta non esitò a denunciare gli intrecci catanesi fra politica, imprenditoria e mafia. In effetti, 'I Siciliani giovani' - in questi giorni alla sua prima uscita on line, al sito www.isiciliani.it - nasce da un progetto di Riccardo Orioles, che di Fava e de 'I Siciliani' fu uno dei maggiori protagonisti in una redazione che ha allora formato numerosi cronisti di spessore. La nuova testata - che a partire dal terzo numero dovrebbe andare in stampa ed essere distribuita in alcune edicole nazionali - ha l'ambizione di uscire dall'ambito territoriale catanese e, grazie al web, estendere l'inchiesta giornalistica in altre città e regioni italiane. Il 'numero zero' - scaricabile in formato pdf - raccoglie già interventi di rilievo: da quelli di Gian Carlo Caselli a quello di Nando dalla Chiesa, ed ancora di Roberto Natale, Lorenzo Baldo, Luciano Mirone, Rino Giacalone e Salvo Vitale, solo per citare alcuni dei nomi conosciuti da REPORTAGESICILIA. La scommessa della redazione è quella di non rifare semplicemente 'I Siciliani', quanto piuttosto di ripartire da quel modello giornalistico per estendere il racconto delle contraddizioni della società e dell'economia all'intera realtà italiana: una ricerca giornalistica insomma delle tante 'Sicilie' presenti ai nostri giorni in Italia. Ai 'giovani' colleghi de 'I Siciliani' - ed al loro impegno - va l'augurio di buon lavoro di REPORTAGESICILIA |
ReportageSicilia è uno spazio aperto di pensieri sulla Sicilia, ma è soprattutto una raccolta di immagini fotografiche del suo passato e del suo presente. Da millenni, l'Isola viene raccontata da viaggiatori, scrittori, saggisti e cronisti, all'inesauribile ricerca delle sue contrastanti anime. All'impossibile fine di questo racconto, come ha scritto Guido Piovene, "si vorrebbe essere venuti quaggiù per vedere solo una delle più belle terre del mondo"
martedì 20 dicembre 2011
'I SICILIANI' CHE RACCONTANO OLTRE L'ISOLA
lunedì 19 dicembre 2011
SANT'ERASMO, DALLA SABBIA AL CEMENTO
martedì 6 dicembre 2011
COSE DI SICILIA
LE FOTO DI SCIANNA A PALERMO
dal 17 dicembre al 22 gennaio 2012
Un ritratto di Martin Scorsese eseguito da Ferdinando Scianna nel 1989 a Nerw York: il regista di origine siciliana mostra la foto di un antenato |
"Dalla Sicilia me ne sono andato a gambe levate. Là non potevo fare quello che desideravo. Ma è come una madre, non posso farne a meno. Oggi non è migliore. Certo a quei tempi la fame era intorno a me e qualche compagno veniva a scuola senza scarpe. Allora c'era miseria, oggi c'è povertà".
Così, nelle passate settimane Ferdinando Scianna ha parlato della Sicilia ad un giornalista del Corriere della Sera, ricordando il periodo in cui - il 1966 - lasciò Bagheria per approdare a Milano, città dove - afferma Scianna - "mi sento milanese dai miei ex capelli ai piedi".
Una panoramica della retrospettiva di Ferdinando Scianna ospitata al secondo e terzo piano del loggiato San Bartolomeo, a Palermo |
L'opera del fotografo bagherese - passato dalla collaborazione con Leonardo Sciascia a quella con la redazione de 'L'Europeo', sino all'approdo all'agenzia Magnum - sarà riproposta da una mostra di 70 fotografie allestita a Palermo dal 17 dicembre al prossimo 22 gennaio. Diversi i luoghi della rassegna: l'Oratorio di S.S. Elena e Costantino, in piazza Vittoria, ed il loggiato di San Bartolomeo, nei pressi di porta Felice; lungo Corso Vittorio Emanuele saranno inoltre esposte 140 opere di artisti che si ispirano a Scianna.
mercoledì 30 novembre 2011
LA RAGUSA QUALUNQUISTA
domenica 27 novembre 2011
SICILIANDO
giovedì 17 novembre 2011
LA SICILIA ANTICA DI VON MATT
Basta consultare una qualsiasi guida della Sicilia antica per leggere che negli anni successivi al secondo conflitto mondiale la ricerca archeologica riprese gli studi o avviò nuovi scavi nei principali siti dell’isola.
L’interesse degli studiosi – italiani e stranieri - si concentrò sulle città di fondazione greca e punica, situate in prevalenza lungo le coste; gli scavi tuttavia riguardarono anche luoghi frequentati da popolazioni autoctone – elimi, siculi e sicani – situati per lo più nelle zone più interne. Nacque allora una vasta pubblicistica di carattere documentario che fece della fotografia il mezzo essenziale per immortalare i risultati dei nuovi studi archeologici; fu allora così inevitabile che quegli scatti sottolineassero il contesto paesaggistico delle rovine, restituendoci oggi quel volto di una Sicilia in cui i più antichi fondatori di città avevano scelto siti di fondazione spesso di grande suggestione ambientale.
Qualche anno fa, nei soliti giri fra le bancarelle romane dei libri usati, trovai uno di quei libri che appunto nacquero sul solco del rinnovato interesse per l’archeologia isolana dei decenni Cinquanta e Sessanta: “La Sicilia antica”, pubblicato nel 1960 da Stringa Editore Genova, con testo di Luigi Pareti e note di Pietro Griffo. Il volume passa in rassegna le vicende dell’isola pregreca, greca e romana, ed è accompagnato da 231 fotografie in bianco e nero e colori ( poche ) per lo più a piena pagina ( 22 per 27 cm. ). Autore di quegli scatti fu il fotografo svizzero Leonard Van Matt ( 1909-1988 ), che in quegli anni realizzò in Italia reportage fotografici pubblicati in una cinquantina di monografie di carattere architettonico, artistico e religioso, soprattutto a Roma.
Il volume dedicato alla Sicilia antica rivela il gusto di Van Matt per la descrizione dell’opera architettonica – i templi di Agrigento e Segesta, le rovine di Selinunte o gli scavi in corso a Piazza Armerina – rappresentata sempre in relazione ad un riferimento ambientale di ampio respiro, con l’assenza di elementi estranei all’equilibrio fra antico monumento e paesaggio: una caratteristica di tanta architettura siciliana, le cui testimonianze – dal tempio di Segesta a tante più recenti basiliche di età normanna – vivono spesso in una situazione di isolamento fisico.
Ogni tanto il fotografo svizzero coglie nel paesaggio del luogo architettonico anche una figura umana: è il caso del gruppo di cavalieri nelle campagne ennesi di Calascibetta o del barcaiolo al largo dell’isola trapanese di Mozia.
Anche in questo caso, nel racconto di Van Matt l’uomo completa la descrizione dei luoghi, occasionale e temporanea presenza nel millenario contesto dell’opera architettonica e della natura.
In altri casi – una serie di fotografie di oggetti conservati nei musei dell’isola – il bianco e nero degli scatti scopre quasi la nuda e più vera essenza della vita quotidiana di quelle millenarie civiltà; una suggestione suggerita, ad esempio, dai coni di alcune monete siracusane, scandagliate dall’obiettivo del fotografo svizzero con l’emozione di chi racconta con i dettagli la storia.
L’interesse degli studiosi – italiani e stranieri - si concentrò sulle città di fondazione greca e punica, situate in prevalenza lungo le coste; gli scavi tuttavia riguardarono anche luoghi frequentati da popolazioni autoctone – elimi, siculi e sicani – situati per lo più nelle zone più interne. Nacque allora una vasta pubblicistica di carattere documentario che fece della fotografia il mezzo essenziale per immortalare i risultati dei nuovi studi archeologici; fu allora così inevitabile che quegli scatti sottolineassero il contesto paesaggistico delle rovine, restituendoci oggi quel volto di una Sicilia in cui i più antichi fondatori di città avevano scelto siti di fondazione spesso di grande suggestione ambientale.
Qualche anno fa, nei soliti giri fra le bancarelle romane dei libri usati, trovai uno di quei libri che appunto nacquero sul solco del rinnovato interesse per l’archeologia isolana dei decenni Cinquanta e Sessanta: “La Sicilia antica”, pubblicato nel 1960 da Stringa Editore Genova, con testo di Luigi Pareti e note di Pietro Griffo. Il volume passa in rassegna le vicende dell’isola pregreca, greca e romana, ed è accompagnato da 231 fotografie in bianco e nero e colori ( poche ) per lo più a piena pagina ( 22 per 27 cm. ). Autore di quegli scatti fu il fotografo svizzero Leonard Van Matt ( 1909-1988 ), che in quegli anni realizzò in Italia reportage fotografici pubblicati in una cinquantina di monografie di carattere architettonico, artistico e religioso, soprattutto a Roma.
Il volume dedicato alla Sicilia antica rivela il gusto di Van Matt per la descrizione dell’opera architettonica – i templi di Agrigento e Segesta, le rovine di Selinunte o gli scavi in corso a Piazza Armerina – rappresentata sempre in relazione ad un riferimento ambientale di ampio respiro, con l’assenza di elementi estranei all’equilibrio fra antico monumento e paesaggio: una caratteristica di tanta architettura siciliana, le cui testimonianze – dal tempio di Segesta a tante più recenti basiliche di età normanna – vivono spesso in una situazione di isolamento fisico.
Ogni tanto il fotografo svizzero coglie nel paesaggio del luogo architettonico anche una figura umana: è il caso del gruppo di cavalieri nelle campagne ennesi di Calascibetta o del barcaiolo al largo dell’isola trapanese di Mozia.
Anche in questo caso, nel racconto di Van Matt l’uomo completa la descrizione dei luoghi, occasionale e temporanea presenza nel millenario contesto dell’opera architettonica e della natura.
In altri casi – una serie di fotografie di oggetti conservati nei musei dell’isola – il bianco e nero degli scatti scopre quasi la nuda e più vera essenza della vita quotidiana di quelle millenarie civiltà; una suggestione suggerita, ad esempio, dai coni di alcune monete siracusane, scandagliate dall’obiettivo del fotografo svizzero con l’emozione di chi racconta con i dettagli la storia.
La fotografia di Von Matt scopre l'interno della 'grotta dei cordari', all'interno del Parco Archeologico della Neapoli, a Siracusa |
giovedì 10 novembre 2011
L'ACCECANTE RICORDO DI SAN VITO
“Ho scoperto San Vito Lo Capo in un giorno di tarda primavera, agli inizi degli anni Cinquanta. Lo raggiunsi in automobile, dopo un viaggio lunghissimo e pieno di curve. All’epoca l’autostrada Palermo-Trapani non esisteva, vi arrivai attraverso la strada statale 113 e le stesse strade provinciali che si utilizzano ancora oggi: allora però si incrociavano pochissime automobili, erano meno dei carretti e degli asini. Quando raggiunsi San Vito, rimasi quasi accecato dalla sabbia chiarissima della spiaggia e dall’azzurro intenso del mare: il paese era poco più di una macchia di case basse e bianche, gli abitanti sembravano vivere in una dimensione di isolamento dal resto del mondo: era veramente un luogo lontano da ogni quotidianità percepibile nella Sicilia di allora”
Così, qualche anno fa, un anziano avvocato siciliano mi descrisse la sua scoperta di San Vito Capo, la località della costa tirrenica trapanese che di lì a qualche decennio – quando le automobili avevano soppiantato del tutto carretti ed asini - sarebbe diventata il luogo di villeggiatura di molti palermitani.
Ancora alla fine degli anni Settanta, San Vito conservava quasi intatta la sua naturale e selvaggia bellezza: la costruzione di alcuni residence ed i primi arrivi di massa di turisti italiani e stranieri l’hanno in seguito inevitabilmente omologata a decine di altri luoghi di vacanza, siciliani e non. Beninteso: ancor oggi San Vito Lo Capo offre un mare ed un paesaggio che – specie se non li si frequenta in piena stagione estiva – meritano un viaggio ed il desiderio di un ritorno; tuttavia, quella primitiva eccezionalità del paesaggio scoperto dall’avvocato siciliano è persa per sempre: basta fare una passeggiata lungo il corso principale del paese per scoprire due avvilenti file di locali che offrono pranzi a 15 euro ‘tutto compreso’; il ristoratore di una trattoria un tempo conosciuta per la sua ospitalità avvicina gli avventori consegnando loro in strada numeretti per il turno, in maniera sbrigativa ed affatto ospitale.
Da qualche anno, l’avvocato siciliano che mi raccontò della San Vito degli anni Cinquanta non c’è più: ha fatto in tempo a non vederla cambiare aspetto, ed a non stravolgere dunque i ricordi di quella lontana giornata di tarda primavera di mezzo secolo fa. A lui dedico questo post e due fotografie di San Vito Lo Capo e del vicino golfo di Macari che conobbe, rimanendo accecato dalla sabbia e dal mare: gli scatti sono del fotografo cremonese Ezio Quiresi – autore di numerose opere dedicate alla sua città, scomparso nell'agosto del 2010 – e pubblicati nel volume ‘Sicilia’ del TCI del 1961.
lunedì 24 ottobre 2011
SICILIANDO
sabato 22 ottobre 2011
GLI 'ABBANNIATURI' DI PALERMO
Fotografie e descrizioni di venditori ambulanti che sino a qualche decennio fa affollavano i mercati palermitani abbondano: gran parte delle pubblicazioni dedicate alla Sicilia propongono immagini della Vucciria, del Capo o di Ballarò, con il loro immancabile contesto dei banchi ricolmi di generi alimentari o prodotti casalinghi; fra i tanti fotografi che si sono esercitati nel genere vi è stato anche Renato Guttuso, che prima di dipingere il suo coloratissimo mercato della Vucciria ne fissò su pellicola scorci e volti in bianco e nero.
Con il passare degli anni, l’effetto di questo esercizio è diventato decisamente sempre più ‘folklorico’, visto che i mercati popolari palermitani faticano a sopravvivere e che gli ambulanti che vi sbarcano il lunario fanno sempre più parte di un patrimonio etno-antropologico del passato.
Ho esitato a proporre su REPORTAGESICILIA un post dedicato al tema dei venditori dei mercati, ritenendo l’argomento a forte rischio di ripetizione; una valutazione venuta meno quando ho recuperato un vecchio numero delle rivista del TCI ‘Le Vie d’Italia’, datato luglio 1938. Il periodico pubblicò allora un reportage a firma di Ermanno Biagini, intitolato ‘Venditori ambulanti delle vie palermitane’; l’autore firmò anche numerose fotografie di ambulanti ritratti con i vari prodotti, non senza sottolineare che “la laografia locale annovera in questo campo centinaia di tipi ben definiti e distinti l’uno dall’altro che, dal levare dal sole fino al tramonto, non fanno che andare e venire per le vie della città, offrendo a gran voce le loro più svariate mercanzie”.
Biagini scoprì ai lettori del mensile del Touring l’arguto campionario di frasi gridate dagli ambulanti palermitani, fornendo a premessa della comprensione del loro modo di vendere il principio palermitano dell’”abbanniaturi”: “Robba abbiannata, menza vinnuta”, “merce gridata, mezza venduta”. “Questi instancabili venditori girovaghi – si legge nel reportage – non ristanno dal proclamare a gran voce le lodi più sperticate dei loro prodotti, usando gli aggettivi più pomposi, le metafore più ardite, i più salaci sottintesi.
Ognuno ha il suo verso tradizionale, il suo timbro di voce, il ritmo suo particolare: dalla lenta cantilena fino alle note più stridule e più acute, per tutta una gamma di inflessioni, di modulazioni, ora piane, ora alte, ora meste, ora allegre, ora lente e sospirose come un lamento, ora rapide e trillanti come agili motivi di stornelli”.
Questa narrazione di Biagini – e la citazione degli slogan “abbanniati” allora degli instancabili venditori girovaghi, ritratti da fotografie in cui i visi offrono uno straordinario e immutabile repertorio di caratteri palermitani – mi è parsa preziosa; tanto più, perché il reportage documenta la presenza dell’”abbanniaturi” a Palermo alla vigilia delle devastazioni del secondo conflitto mondiale, al termine del quale la città avrebbe voltato le spalle al suo devastato centro storico.
Si trattò di un periodo cruciale per la storia della società popolare urbana, in cui il ruolo degli ambulanti nei mercati popolari – legato ad attività agricole ed artigianali locali – andava inesorabilmente scomparendo. Con la sua scrittura, Ermanno Biagini ebbe il merito di registrare le loro voci, ricordandoci oggi le loro colorite espressioni: quella dei venditori di fichidindia, "Ficudinnia duci chi haiu! Veri di Calamigna!" ( "Che fichidindia dolci che ho! Sono autentici di Ventimiglia Sicula!" ), di agrumi, "D'a sciorta bella sù i lumìuna! Partualli e mannarini duci! Comu i fravuli sù!" ( "Della scelta migliore sono i limoni! Aranci e mandarini dolci! Come le fragole sono!" ), di semi salati, "Cù sali e senza sali l'haiu d'a nostra! Nuciddi e favi: càvura a' simenza!" ( "Col sale e senza sale ve la do nostrale! Nocciole e fave: calda è la semenza!" ), di lumache, "Tutti chi corna fora sù sti babbaluci! C'u pitrusineddu! C'u picchiu pacchiu!" ( "Tutte con le corna di fuori sono queste lumache! Con il prezzemolo! Con pomodoro e cipolla!" ), e di acqua e anice, "Acquaaaa! Ma chi è gilatu, cu lu zammù: chi l'haiu frisca!" ( "Acquaaaa! Ma cos'è, un gelato, con l'anice? Come è fresca!" ).
Ancora qualche decennio dopo – tra la fine degli anni Cinquanta e Sessanta – Danilo Dolci avrebbe recuperato a Palermo le sparute voci di qualcuno fra gli ultimi “abbanniaturi”. “Voi sentirete come parla questa gente. Mentre al Nord gli operai e gli impiegati delle fabbriche sono sempre più astrattamente stereotipi – scriveva il sociologo di padre triestino e di madre slava – questa gente ha ancora toni genuini, parlano ancora uno per uno, tutti diversi: nelle loro tragiche voci”.
Con il passare degli anni, l’effetto di questo esercizio è diventato decisamente sempre più ‘folklorico’, visto che i mercati popolari palermitani faticano a sopravvivere e che gli ambulanti che vi sbarcano il lunario fanno sempre più parte di un patrimonio etno-antropologico del passato.
Ho esitato a proporre su REPORTAGESICILIA un post dedicato al tema dei venditori dei mercati, ritenendo l’argomento a forte rischio di ripetizione; una valutazione venuta meno quando ho recuperato un vecchio numero delle rivista del TCI ‘Le Vie d’Italia’, datato luglio 1938. Il periodico pubblicò allora un reportage a firma di Ermanno Biagini, intitolato ‘Venditori ambulanti delle vie palermitane’; l’autore firmò anche numerose fotografie di ambulanti ritratti con i vari prodotti, non senza sottolineare che “la laografia locale annovera in questo campo centinaia di tipi ben definiti e distinti l’uno dall’altro che, dal levare dal sole fino al tramonto, non fanno che andare e venire per le vie della città, offrendo a gran voce le loro più svariate mercanzie”.
Biagini scoprì ai lettori del mensile del Touring l’arguto campionario di frasi gridate dagli ambulanti palermitani, fornendo a premessa della comprensione del loro modo di vendere il principio palermitano dell’”abbanniaturi”: “Robba abbiannata, menza vinnuta”, “merce gridata, mezza venduta”. “Questi instancabili venditori girovaghi – si legge nel reportage – non ristanno dal proclamare a gran voce le lodi più sperticate dei loro prodotti, usando gli aggettivi più pomposi, le metafore più ardite, i più salaci sottintesi.
Ognuno ha il suo verso tradizionale, il suo timbro di voce, il ritmo suo particolare: dalla lenta cantilena fino alle note più stridule e più acute, per tutta una gamma di inflessioni, di modulazioni, ora piane, ora alte, ora meste, ora allegre, ora lente e sospirose come un lamento, ora rapide e trillanti come agili motivi di stornelli”.
Questa narrazione di Biagini – e la citazione degli slogan “abbanniati” allora degli instancabili venditori girovaghi, ritratti da fotografie in cui i visi offrono uno straordinario e immutabile repertorio di caratteri palermitani – mi è parsa preziosa; tanto più, perché il reportage documenta la presenza dell’”abbanniaturi” a Palermo alla vigilia delle devastazioni del secondo conflitto mondiale, al termine del quale la città avrebbe voltato le spalle al suo devastato centro storico.
Si trattò di un periodo cruciale per la storia della società popolare urbana, in cui il ruolo degli ambulanti nei mercati popolari – legato ad attività agricole ed artigianali locali – andava inesorabilmente scomparendo. Con la sua scrittura, Ermanno Biagini ebbe il merito di registrare le loro voci, ricordandoci oggi le loro colorite espressioni: quella dei venditori di fichidindia, "Ficudinnia duci chi haiu! Veri di Calamigna!" ( "Che fichidindia dolci che ho! Sono autentici di Ventimiglia Sicula!" ), di agrumi, "D'a sciorta bella sù i lumìuna! Partualli e mannarini duci! Comu i fravuli sù!" ( "Della scelta migliore sono i limoni! Aranci e mandarini dolci! Come le fragole sono!" ), di semi salati, "Cù sali e senza sali l'haiu d'a nostra! Nuciddi e favi: càvura a' simenza!" ( "Col sale e senza sale ve la do nostrale! Nocciole e fave: calda è la semenza!" ), di lumache, "Tutti chi corna fora sù sti babbaluci! C'u pitrusineddu! C'u picchiu pacchiu!" ( "Tutte con le corna di fuori sono queste lumache! Con il prezzemolo! Con pomodoro e cipolla!" ), e di acqua e anice, "Acquaaaa! Ma chi è gilatu, cu lu zammù: chi l'haiu frisca!" ( "Acquaaaa! Ma cos'è, un gelato, con l'anice? Come è fresca!" ).
Ancora qualche decennio dopo – tra la fine degli anni Cinquanta e Sessanta – Danilo Dolci avrebbe recuperato a Palermo le sparute voci di qualcuno fra gli ultimi “abbanniaturi”. “Voi sentirete come parla questa gente. Mentre al Nord gli operai e gli impiegati delle fabbriche sono sempre più astrattamente stereotipi – scriveva il sociologo di padre triestino e di madre slava – questa gente ha ancora toni genuini, parlano ancora uno per uno, tutti diversi: nelle loro tragiche voci”.
venerdì 7 ottobre 2011
MANIFESTI A GRAMMICHELE
LA SICILIA DI PIERO GAULI
Fra i tanti modi di raccontare la Sicilia esiste anche lo strumento del disegno e della pittura. Da tempo pensavo di dedicare al blog qualche post che raccontasse l’isola non solo attraverso l’uso della fotografia; mi sembrava però che la rappresentazione pittorica o quella tratta dal segno di una matita meritassero una selezione che richiede capacità di valutazione estetica più sensibili rispetto alla proposta di un’immagine fotografica. Questo convincimento è venuto meno dinanzi alla pittura del milanese Piero Gauli. Naturalmente, sconoscevo assolutamente Gauli, sino a quando – durante la scoperta a Roma, in viale Mazzini, di una straordinaria libreria dell’usato ( un minuscolo locale di una stanza, con i libri impilati ed addossati alle pareti scandite dalla sequenza di mensole ordinate da un libraio gentilissimo, dall’accento appenninico-toscano ) - l’occhio non si è fermato su un dorso con la dicitura ‘Taccuino di Sicilia’.
Era un ‘libro-catalogo’ che riproduce 46 quadri siciliani di un artista che ho poi imparato essere uno degli ultimi rappresentati di un gruppo pittorico milanese; un movimento che – alla vigilia della seconda guerra mondiale – prese il nome di ‘Corrente’ e di cui fecero parte, fra gli altri, Badoli, Birilli, Broggini, Tassinari, Cerchi, Fontana, Lanaro, Migneco, Paganin, Sassu e Valenti. ‘Taccuino di Sicilia’, edito da Edizioni Ghelfi di Verona nell’aprile del 1975, non è altro che il prezioso catalogo di 46 olii-pastelli, acquerelli e tempere realizzate da Piero Gauli durante i suoi numerosi viaggi nell’isola, soprattutto tra la fine degli anni Sessanta ed il successivo decennio dello scorso secolo.
Non ho il dono dell’analisi del critico d’arte; mi sembra però che la pittura di Gauli abbia colto quella soverchiante pienezza di colori che distingue il paesaggio siciliano nel Mediterraneo, e che è lo specchio del sostanziale ‘eccesso’ della natura e del carattere della vita in Sicilia.
A dirla con le parole di Leonardo Sciascia, dall’insieme dei quadri e delle serigrafie di Gauli - del quale REPORTAGESICILIA offre una selezione - “viene fuori una interpretazione della Sicilia ancora una volta in chiave panica, di una natura che esplode a sommergere l’opera dell’uomo e l’uomo stesso”; un giudizio cui Ugo La Rosa – autore della prefazione del catalogo – aggiunge questa notazione: “più spesso, Gauli sente la luce siciliana penetrare nelle architetture, cava espressione dalle pietre, dà forma col colore, segue la luce che fissa e disperde in sè la forma, mentre la sua felicità si dilata e ci coinvolge”.
La pittura di Gauli, insomma, mi pare che racconti quella certa eccitata gioia dell’essere in Sicilia, quasi come di un camminare in bilico sulla corda che separa il cielo luminosissimo delle sue meraviglie ed il baratro del suo insensato immobilismo.
Cantiere a Sant'Elia, tempera, 1972 |
Non ho il dono dell’analisi del critico d’arte; mi sembra però che la pittura di Gauli abbia colto quella soverchiante pienezza di colori che distingue il paesaggio siciliano nel Mediterraneo, e che è lo specchio del sostanziale ‘eccesso’ della natura e del carattere della vita in Sicilia.
Paesaggio verso Corleone, olio-pastello, 1972 |
Mare verso Mazara del Vallo, tempera, 1972 |
A dirla con le parole di Leonardo Sciascia, dall’insieme dei quadri e delle serigrafie di Gauli - del quale REPORTAGESICILIA offre una selezione - “viene fuori una interpretazione della Sicilia ancora una volta in chiave panica, di una natura che esplode a sommergere l’opera dell’uomo e l’uomo stesso”; un giudizio cui Ugo La Rosa – autore della prefazione del catalogo – aggiunge questa notazione: “più spesso, Gauli sente la luce siciliana penetrare nelle architetture, cava espressione dalle pietre, dà forma col colore, segue la luce che fissa e disperde in sè la forma, mentre la sua felicità si dilata e ci coinvolge”.
Paesaggio dal castello di Caccamo, acquarello, 1973 |
Il piccolo porto a Siracusa, acquarello, 1973 |
San Sebastiano a Palazzolo Acreide |
Villa Valguarnera, olio-pastello, 1972 |
giovedì 7 luglio 2011
SICILIA DI IERI
SICILIANDO
"Non esiste una cultura siciliana, ma esiste una profonda sfumatura siciliana che arricchisce la vita del nostro paese e che dev'essere salvata e compresa da tutti"
Eugenio Montale, 'Il Mondo', 7 luglio 1945
MEMORIA DI SALAPARUTA
Ricordo a stento quel terremoto: era la notte fra il 15 ed il 16 gennaio del 1968, ed a Palermo le scosse fecero svegliare e riversare in strada centinaia di migliaia di persone.
Ciò che non ho dimenticato sono i lunghi cortei di automobili, cariche di famiglie, di thermos e di coperte e di oggetti portati via da casa, più per timore dei furti che delle conseguenza del sisma. In via Leonardo da Vinci ed in viale Michelangelo – che allora conservavano ancora qualche area libera dai palazzi tirati su dall'edilizia mafiosa – si formarono dei piccoli accampamenti di persone, raccolte intorno ad improvvisati fuochi.
Nessuno – negli anni in cui non esistevano né i telefoni cellulari né internet – ebbe percezione che quelle scosse, nelle vicine province di Trapani e di Agrigento, avessero provocato una catastrofe: quello che d’ora in poi sarebbe stato indicato come il terremoto del Belìce.
In quella notte palermitana di bivacchi, furono rase al suolo Montevago, Gibellina e Salaparuta; gravi i danni a Santa Ninfa, Santa Margherita Belìce, Poggioreale, Partanna e Menfi; le vittime furono 232, i feriti 623, 40.000 i senza tetto. Alla devastazione ed ai lutti, come scrisse Vittorio Nisticò in ‘Accadeva in Sicilia, gli anni ruggenti dell’”Ora” di Palermo’, si aggiunsero le “vastissime aree di territorio agricolo all’improvviso paralizzate e svuotate di tante giovani energie che si affrettano a riprendere le vie dell’emigrazione”.
Il corso principale di Salaparuta, in una fotografia realizzata da Angelo Oliva nel 1964. Quattro anni dopo, l'intero centro agricolo trapanese venne completamente devastato dal terremoto |
Soltanto il giorno dopo, avuta notizia che il suo paese era ridotto ad un ammasso di macerie, mio padre partì per Salaparuta: un viaggio con la pena e con l’ansia nel cuore, aumentate di minuto in minuto dalle numerose deviazioni stradali, causate dall’inagibilità della strada provinciale che dalla SS113 conduceva ai centri del Belìce. Al suo ritorno a Palermo, aveva ancora negli occhi lo sfacelo della casa dei miei nonni, dove avevo avuto il tempo di trascorre un paio di estati: pochi giorni in tutto, dei quali conservo il ricordo di una cucina rustica ma luminosa, con le graste piene di mandorle e le bottiglie di vetro pronte ad accogliere il loro favoloso latte.
Partendo da quei fatti personali – e dal recupero di alcune vecchie fotografie realizzate da mio padre in paese negli anni precedenti alla sua distruzione – REPORTAGESICILIA offre alcune immagini inedite di Salaparuta.
Per una volta, il recupero di queste immagini non offre la possibilità di una comparazione con luoghi e paesaggi della Sicilia di oggi.
Amarcord di un calcio di altri tempi a Salaparuta: è il settembre del 1935, ed i giocatori di pallone si apprestano a calcare un terreno di gioco fatto più di pietre che di terra |
Volti di persone e scorci di luoghi scomparsi raccontano semplicemente un pezzo di ambiente dell’isola persi per sempre; senza che il Belìce – nel frattempo, 43 anni dopo – abbia trovato occasione di un vero rilancio della sua storia.