giovedì 23 giugno 2016

L' ELOGIO RAGUSANO DI GUIDO PIOVENE

Panorama di Ragusa.
La fotografia venne pubblicata nel 1964
nel saggio di Eberhard Horst e Josef Rast "Sizilien",
edito da Walter Verlag Olten
 
 
"Ragusa - scrisse quasi sessant'anni fa Guido Piovene nel suo "Viaggio in Italia" ( Mondadori, 1957 ) -  si affaccia scenografica a una valle incassata, quella del fiume Irminio.
Risalendo la valle la si ha davanti d'improvviso in un panorama di rocce.
E' un paragone vieto quello che ci fa esclamare, di fronte alla città in altura: sembra un presepio.
Ma con Ragusa esso ridiventa appropriato...
A Ragusa, mi dicono, i cognomi sono pochissimi, tanto che le famiglie si distinguono per soprannomi, registrati anche all'anagrafe...
Mi incantai a guardare una pasticceria, la più bella della Sicilia.
Quei dolci coloriti, pingui, nutritivi, cassate d'ogni qualità, conchiglie di pistacchio, cavolfiori di crema, fanno parte del bel barocco siciliano.
Alcuni nomi ricordano eventi guerrieri.
I cavolfiori gonfi si chiamano 'teste di turco', e procurano facili vittorie sugli infedeli"
 


SICILIANDO











"Il comportamento delle forze dell'ordine in occasione delle operazioni antimafia seguite alla tragica esplosione di Ciaculli è apparso piuttosto strano.
E' bastato, infatti, che il governo si impegnasse in una opera di seria repressione e prevenzione, per veder scattare un dispositivo molto ben orientato nei confronti dei bersagli da colpire.
Si direbbe che i mafiosi fossero da tempo esattamente individuati; e che tutt'altro che sconosciuti fossero i responsabili dei gravi episodi che avevano turbato e impressionato l'opinione pubblica negli ultimi mesi.
Ma, allora, viene da chiedersi, perché si è tardato ad agire?
Chi è che fino all'ultimo ha fermato la opera di controllo, di vigilanza, di prevenzione?
A chi attribuire la responsabilità della tolleranza, dell'inerte assuefazione con cui gli organi dello Stato hanno assistito per anni e per mesi alle sempre più scellerate manifestazioni della criminalità mafiosa?"
Rosario Poma-Enzo Perrone, 1964

mercoledì 22 giugno 2016

QUEL MEMORABILE STRIP DEL PALERMO POP FESTIVAL 70

Le fotografie pubblicate dal quotidiano "l'Ora" dell'arresto del cantante inglese Arthur Brown, nel corso di  un'infuocata interpretazione della canzone "Fire": un evento rimasto nella memoria della manifestazione ospitata allo stadio della Favorita

L'irruzione della polizia sul palco del Festival Pop 70
nel corso dell'esibizione del cantante Arthur Brown.
L'artista inglese si era denudato durante l'interpretazione di "Fire"
e venne arrestato con l'accusa di atti osceni in luogo pubblico
e corruzione di minorenni.
La vicenda ebbe grande rilievo a Palermo ed è testimoniata
dagli scatti allora pubblicati del quotidiano "l'Ora",
ora riproposti da ReportageSicilia

Per decine di migliaia di sessantenni palermitani, il Festival Pop del 1970 rappresenta oggi un evento identitario della propria post-adolescenza.
Nel luglio di quell'anno, lo stadio della Favorita accolse per tre giorni una manifestazione rimasta nella memoria della città per la rilevanza internazionale dei suoi protagonisti ( con i nomi di Duke Ellington ed Aretha Franklin su tutti ) e per la partecipazione di altri comprimari capaci di memorabili esibizioni.
Quella del cantante inglese Arthur Brown, il pomeriggio del 17, fa parte ormai della storia stessa del Festival Pop

Brown in un momento topico di "Fire".
Qualche minuto dopo, sarebbe iniziata una vicenda giudiziaria
che ha segnato la storia del Festival Pop della Favorita

Al culmine dell'interpretazione del brano "Fire" ( una sorta di inno lucreziano contro la cultura dei compromessi e delle convenzioni sociali, "sono il re del fuoco aureo, e ti porto fuoco per distruggere e fuoco per creare e io ti rivedrò bruciare..."  ), Brown - che si era presentato con il viso coperto da una maschera-elmo di fuoco sulla testa ed un mantello rosso che gli scendeva sulle spalle - cominciò a spogliarsi, fino a togliersi per qualche istante gli slip.
Sembra che Brown - già noto per simili performance portate a termine in Europa e Stati Uniti - avesse concordato con gli organizzatori palermitani un'esibizione meno dirompente; di fatto, una decina di minuti dopo il suo spogliarello il vice questore Allotta ed alcuni poliziotti salirono sul palco, bloccandolo e portandolo via quasi a forza.
Mentre il cantante inglese veniva condotto da Boris Giuliano negli uffici della Squadra Mobile, gli spettatori del concerto cominciarono a reclamare il ritorno dell'artista sulla scena; e quando si capì che Brown era stato arrestato, iniziò un fitto lancio di oggetti sul palco ed una accesa contestazione ( al grido "Al Fatah, Al Fatah" ) all'indirizzo del cantante israeliano Igal Bashan.

Arthur Brown sale sull'auto della polizia
che lo condurrà dalla Favorita in Questura.
A bordo della vettura si riconosce Boris Giuliano,
il dirigente della Squadra Mobile ucciso dalla mafia nel 1979

A colmare la misura di quella convulsa serata, una cantante del gruppo degli inglesi "Arrival" venne aggredita da un gruppo di teppisti, sembra senza alcun intervento da parte delle forze dell'ordine.  
Gli animi si calmarono solo qualche ora dopo, quando il pubblico si lasciò trascinare dalle esibizioni di Brian Auger e degli Exception.
Il clamoroso fuori programma del Festival ebbe grande risonanza a Palermo, e venne alimentato anche dal processo per direttissima dinanzi al pretore Mazzamuto che vide Arthur Brown - nel frattempo rinchiuso in isolamento, all'Ucciardone - accusato di atti osceni in luogo pubblico e corruzione di minorenni.
L'udienza si svolse a porte rigorosamente chiuse, in considerazione delle attenzioni suscitate dal caso e dalla presenza, nei corridoi della III sezione penale della Pretura, di numerosi fan di Brown.

Il cantante inglese in manette
in attesa del rito direttissimo
e sotto la scorta di un carabiniere

Assistito dagli avvocati Sergio Alessi e Salvatore Gallina Montana, l'artista inglese si difese negando di essersi denudato completamente e ammettendo di avere solo bevuto un po' troppo prima dell'esibizione.
Brown - che rischiava di essere condannato sino a tre anni di carcere - ammise "di fare il brutto perché è il mio personaggio"; aggiunse che la sua canzone doveva avere per il pubblico palermitano "il significato di una purificazione dell'anima, attraverso le fiamme".
Le spiegazioni convinsero il pretore Mazzamuto a concedere al cantante la libertà provvisoria, anche per evitare le lungaggini di un'istruttoria sommaria.
La decisione fu forse dettata anche dalla scelta di non sollevare ulteriori polemiche su un arresto criticato da molti organi di stampa ( fra questi, il quotidiano palermitano "l'Ora"  - che pubblicò le fotografie dell'accaduto, ora riproposte da ReportageSicilia - e la trasmissione radiofonica della Rai "Per voi giovani"  ).

Brown scherza con il fotografo de "l'Ora".
All'artista inglese verrà concessa la libertà provvisoria
dopo avere rischiato una condanna sino a tre anni di carcere 

A difesa dell'artista spuntarono poi anche alcuni cartelli esposti durante il Festival da un gruppetto di 5 spettatori, dal contenuto giudicato ingiurioso contro la polizia.
Fu così che il 16enne Luigi Virgillitto, il 17enne Antonio Borzì, il 19enne Pino Piggioli, il 18enne Ferdinando Indelicato e il 33enne Ezio Staffolani vennero denunciati con le accuse di vilipendio alla forza pubblica ed esposizione di disegni osceni.
Il servizio di ordine pubblico dentro e fuori la Favorita - nei giorni della violenta rivolta di Reggio Calabria - fu insomma asfissiante, almeno a leggere quanto scritto in quei giorni da Sergio Buonadonna su "l'Ora":

"E' qui il punto dolente di tutto il Festival Pop.
Un successo di pubblico, un successo di notevoli proporzioni dal punto di vista artistico, ma un neo grosso così.
Polizia e carabinieri in numero incalcolabile, tanti erano gli agenti in borghese, travestiti in ogni tipo di foggia, perfino da 'hippies' coi pantaloni sfrangiati, da capelloni, o le agenti di polizia femminile con abiti ultima moda.

Questa immagine sfocata
mostra Arthur Brown all'aeroporto di punta Raisi
poco prima del suo ritorno in Inghilterra,
dopo quattro giorni palermitani di soggiorno giudiziario

Ciononostante i ragazzi - i meravigliosi ragazzi di questo Pop, che hanno dimostrato di possedere una buona dose di civilità e di non meritare un così ingombante controllo - li hanno riconosciuti tutti, emarginati.
E questo forse ha innervosito quanti cercavano ciò che non c'era o che non hanno saputo trovare: la droga, per esempio, o la contestazione politica..."

Dopo quattro giorni di soggiorno forzato a Palermo, Arthur Brown ebbe infine la possibilità di salire su un aereo in partenza da punta Raisi e di tornare nella quiete della sua casa inglese, nello Yorkshire.
Stranamente, l'artista che con la sua movimentata performance scrisse uno dei capitoli più coloriti del Festival Pop 1970 rinunciò ad incontrare la stampa: una scelta forse consigliatagli da chi ebbe l'interesse a mettere fine alle critiche rivolte alla Questura di Palermo.

Un'immagine del pubblico
del Festival Pop 1970


    
   

mercoledì 15 giugno 2016

UNA GITA IN ASINO AL CASTELLO DI USTICA


Ancor oggi asini e muli fanno parte del panorama rurale dei mezzi di trasporto in Sicilia, e specie in alcune delle sue isole minori.
Una di queste è Ustica, dove tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi dei Sessanta un ignoto fotografo fissò l'immagine ora riproposta da ReportageSicilia.
Lo scatto - intitolato "Gita al castello di Ustica" - illustrò un articolo di Franco Tomasino pubblicato nel giugno del 1961 dalla rivista "Sicilia", edita dall'assessorato regionale al Turismo e Spettacolo.
All'epoca, l'isola al largo della costa palermitana mostrava un centro abitato "affastellato di casette scabre che hanno spesso una sola porta e una sola finestra"; gli sbarchi dei visitatori dalla motonave avvenivano grazie all'utilizzo delle barche a remi.
L'unica possibilità di compiere un'escursione erano appunto affidata al noleggio degli asini.
Scriveva a questo proposito Tomasino: 

"Entriamo ad Ustica, ci vengono incontro asinelli dalla lunga coda, dall'aria estremamente riposata.
Si direbbe che anziché lavorare loro, facciano lavorare quei bambini dall'aria furbissima che li tengono agilmente per la cavezza, offrendoli ai visitatori per l'entrata in paese.
E sono pochi a rifiutarsi l'occasione di un passaggio tanto pittoresco quanto funzionale: perché Ustica paesisticamente vive in mezzo alla roccia scabra sulla quale l'uomo ha lavorato di piccone facendo sorgere le sue abitazioni.
Stradette anguste in salita spesso scoscesa; l'asinello è quello che ci vuole"

lunedì 13 giugno 2016

UN RITRATTO PRIVATO DI ELIO VITTORINI

Gli affanni e le incertezze della scrittura e della lettura, la fobia per la tecnologia, la passione per il jazz, la rottura con il comunismo e la delusione dopo un incontro con Saroyan: una cronaca milanese del giornalista Manlio Cancogni datata 1951

Elio Vittorini nelle fotografie pubblicate
il 28 ottobre del 1951 dal settimanale "l'Europeo".
L'articolo del giornalista e Manlio Cancogni
documenta il carattere schivo e inquieto
dello scrittore siracusano
nel suo appartamento milanese di via Canova


L'Università di Palermo ha ricordato qualche giorno fa il cinquantesimo anniversario della morte di Elio Vittorini.
La giornata di studi - con vari interventi di docenti provenienti da Catania, Milano e Torino - è stata in questi mesi una delle poche occasioni per ricordare l'opera dello scrittore nato a Siracusa e vissuto in larga parte a Milano.
Già all'età di 20 anni, Vittorini - figlio di Sebastiano Vittorini, ferroviere girovago in piccole stazioni dell'isola con la passione per Eschilo e per la tragedia greca - lasciò la Sicilia, trovando lavoro come correttore di bozze a "La Nazione" di Firenze.
Fu allora che il giovane siracusano iniziò a costruire la sua vita da scrittore, saggista, traduttore dall'inglese, antologista ed ideatore e curatore di collane editoriali e riviste.
Elio Vittorini tuttavia non perse i contatti con la sua terra ( sposò anche Rosa Quasimodo, sorella di Salvatore, dopo una tradizionale "fuitina" tra le pietre del teatro di Siracusa e Lentini ); vi tornò spesso, serbandone il ricordo dell'infanzia trascorsa "tra i fichidindia e lo zolfo, nelle montagne".
Alla sua morte, nel febbraio del 1966Milano, il critico letterario ed amico Carlo Bo così ricordò il legame profondo di Vittorini con l'isola:

"Era un siciliano, partito dalla Sicilia carico di fuoco e fantasia; un patrimonio che non ha mai inteso barattare"

Le fotografie riproposte da ReportageSicilia colgono Vittorini in alcuni momenti di vita privata, all'interno del suo appartamento milanese al civico 42 di via Canova.
Le immagini accompagnarono un articolo scritto dal giornalista e scrittore Manlio Concogni e pubblicato il 28 ottobre del 1951 dal settimanale "L'Europeo".
All'epoca, Vittorini aveva 43 anni ed era impegnato nella sofferta stesura del romanzo "Le donne di Messina", cui avrebbe lavorato per 17 anni.


Il reportage di Concogni - intitolato "Vittorini cerca la felicità sull'Atlante" -  è interessante perché presenta  alcuni aspetti della personalità di un  narratore  in lotta con le incombenze dell'esistenza quotidiana e con le contraddizioni degli uomini e della storia.
La vita dello scrittore siracusano appare inquieta ed in perenne ricerca di un ordine, di un percorso liberato dalle incertezze e dalle scadenze della scrittura e della lettura.
Si scopre così un Vittorini milanese racchiuso nel suo appartamento di via Canova stipato di carte e libri in continua e ripensata elaborazione; alla fobia per la tecnologia - l'uso del telefono, dell'automobile, dell'ascensore - si contrappongono la passione per il jazz e la presenza di oggetti che rimandano al ricordo della Sicilia.
L'articolo di Concogni - un'osservazione dei comportamenti e degli stati d'animo di Vittorini - svela l'epilogo di un incontro fra lo scrittore e William Saroyan e analizza infine i motivi della rottura dei suoi rapporti con il partito comunista:
   
"Sul tavolo levigato della piccola stanza di via Canova arredata con un divano a giorno, una poltrona foderata di stoffa e due bassi scaffali, si ammassano fogli, libri, cartelle, taccuini, buste, pacchetti, e sul carrello della macchina da scrivere c'è sempre un foglio cominciato.
Il primo pensiero di Vittorini, quando alle nove di mattina apre gli occhi, va a quella confusione che simboleggia l'andamento del suo lavoro.
C'è la lettera dell'editore Einaudi che sta sollecitando una risposta riguardo al manoscritto di un giovane scrittore; c'è l'appello del traduttore americano che aspetta la nuova stesura delle 'Donne di Messina'; c'è il piano di un romanzo incominciato di cui però ha perso la vena; c'è un'infinità di progetti, appunti, note, che aspettano di essere sviluppati; ci sono infine, segnati su pezzetti di carta sparsi un po' dovunque, gli indirizzi delle persone alle quali deve scrivere e che gli martellano il cervello come rimproveri.
All'ora del risveglio il bisogno di ordine è così intenso che Vittorini non può indugiare a letto nemmeno un minuto in più.
Beve appena una tazzina di caffè e si precipita nello studio.
La vista del tavolo lo scoraggia.
Per calmarsi i nervi è necessario fumare una sigaretta.
Poi Vittorini siede e per qualche minuto i suoi occhi indugiano sulla parete di fronte, sul grande manifesto che egli ha trovato in un teatro di burattini a Caltagirone e che rappresenta alcuni guerrieri medievali aggrovigliati in una battaglia senza principio né fine.


A quarantatré anni Vittorini è ancora in lotta con l'esistenza quotidiana come un giovane di ventuno.
Non ha preso confidenza nemmeno col telefono.
Ogni volta che gli si avvicina per formare un numero si sente in imbarazzo, guarda l'apparecchio con sospetto, e il più delle volte ci rinuncia.
Anche l'automobile, come tutto ciò che è meccanico, gli mette paura.
Il mondo, tranne che nei momenti in cui il cuore gli batte più forte sotto lo stimolo di una commozione poetica, è un nemico con quale non ha ancora saputo trovare un accordo.
il bisogno di ordine è forte, ma quando Vittorini comincia a lavorare, si accorge di avere dimenticato le sigarette e allora è costretto a scendere in fretta le scale ( preferisce non usare l'ascensore ) per andarle a comprare.
Come prima regola indispensabile, Vittorini s'è imposto di dedicare il mattino alla nuova stesura delle 'Donne di Messina' e il pomeriggio il lavoro editoriale.
Ma riscrivere una cosa già fatta è per lui una pena.
A lui piace scrivere soltanto quando sente dentro di sé un mondo nuovo non ancora esplorato come al tempo di 'Conversazione in Sicilia'; lavorare su ciò i cui limiti sono già conosciuti e definiti gli dà un senso di paralisi.


Vittorini ha fretta di liberarsi dal lavoro presente.
Sotto gli occhi gli balza di continuo il colore azzurro di una cartella sulla quale ha tracciato dei nomi e dei ghirighori che sono il principio di un nuovo romanzo e vorrebbe essere al giorno in cui, sollevato dal vecchio impegno, potrà abbandonarsi al piacere di scrivere nuove cose.
Così, in certi giorni, ritorna al manoscritto delle 'Donne di Messina' anche nel pomeriggio per finirlo prima, con la conseguenza che il lavoro editoriale rimandato, si accumula e viene un giorno in cui, ormai in ritardo di un mese, Vittorini deve abbandonare lo scrivere per rispondere a tutte le lettere, per esaminare i manoscritti che aspettano un suo giudizio, per leggere i libri inglesi e americani di cui c'è da consigliare la traduzione.
'A 45 anni', pensa Vittorini continuando a scrivere, 'diventerò padrone del mio tempo'.
A un tratto però si alza dal tavolo, si mette a frugare tra i libri e ne cava fuori un disco.
Poi prende il grammofono, ma non sa dove posarlo.
Allora lo mette sul pavimento, lo carica, e standogli accanto in ginocchio ascolta un 'hot' o un 'bleu' di cui gli è venuto in mente il motivo.
Questa è la sua maniera di distrarsi.
Anche per il divertimento non ha regola.
Va al cinema quando gli capita e non frequenta nè i caffè, nè le trattorie, nè le redazioni dove s'incontrano i letterati e gli artisti milanesi.


Specialmente in questi ultimi anni, da quando ha rotto ogni rapporto con il partito comunista, s'è isolato e ha cominciato a uscire di rado.
Carlo Bo, Giansiro Ferrata, Alfonso Gatto, Vittorio Sereni, Enrico Emanuelli, vanno ogni tanto a trovarlo a casa.
Ferrata e Gatto erano come lui comunisti, e come lui si sono allontanati dal partito.
Li conosce ormai da venti anni, sono suoi coetanei; eppure gli pare aver poco in comune anche con loro. 
Vittorini ruppe definitivamente con il partito comunista quando lesse le direttive culturali di Zdanov che furono approvate dai dirigenti italiani.
Allora si convinse che il comunismo, nelle intenzioni dei suoi capi, era una cosa ben definita, rigida, e che non tollerava nuove scoperte.
Leggendo quei dogmi, Vittorini rivide la folla anonima delle strade di Varsavia e di Praga dove era andato nel 1946 e nel 1947.
In quelle occasioni le due città gli parvero incredibilmente lontane dal mondo occidentale a cui la sua fantasia era legata.
I motivi che spingono Vittorini ad agire sono sempre lirici, quindi privati, e spesso incomunicabili. 
Quando sta con Ferrata e Gatto anzichè di politica preferisce parlare di calcio.
Anche l'amicizia come ogni realtà pratica, rappresenta per Vittorini uno scoglio.


Credeva di essere molto amico di Saroyan, lo scrittore americano di cui aveva tradotto per primo i racconti.
Gli scriveva spesso e guardando il suo ritratto credva anche di riscontrarci una somiglianza.
Un giorno Saroyan arrivò a Milano per conoscerlo.
Avendo sbagliato indirizzo l'americano faticò molto prima di arrivare al campanello del quarto piano del numero 42 di via Canova.
Vittorini gli andò ad aprire di persona.
Saroyan aveva il respiro grosso; Vittorini era imbarazzato.
Si strinsero la mano e rimasero muti.
Nessuno dei due sapeva parlare la lingua dell'altro.
Anziché alle persone prese individualmente, Vittorini preferisce pensare ai paesi, alle comunità.
Da ragazzo, e poi da giovane, sognava l'America.
Quel mondo si identificava per lui con la vita; era sempre in movimento, pieno di sorprese, di rischi.
Quando viaggia, Vittorini monta su un vagone di terza classe e per tutto il tempo sta affacciato al finestrino.
Vicino al finestrino, a diciotto anni fece il suo primo viaggio da Siracusa in Alta Italia, credendo di andare verso la felicità, l'ordine, la libertà e la giustizia che non ha ancora trovato"

    





giovedì 9 giugno 2016

L'INDIFFERENZA DI PALERMO ALL'ELOGIO DELLA MAFIA

Celebrazioni per le vittime di Cosa Nostra e disattenzioni nella città capace di esibire per giorni scritte a favore della mafia

Scritte comparse da qualche giorno
a Palermo, in viale Regione Siciliana,
nei pressi della borgata di Tommaso Natale.
Le fotografie sono di ReporageSicilia
  
Si è tornato recentemente a parlare di antimafia e di coscienza civile a Palermo in occasione dell'anniversario della strage di Capaci o della morte di Pina Maisano, la vedova dell'imprenditore Libero Grassi.
Politici e amministratori retoricamente celebrano e ricordano, le scolaresche diligentemente partecipano, i giornalisti puntualmente intervistano, rievocano e raccontano.
La città, al di là dell'involucro esterno rappresentato dall'appariscenza dell'evento, assiste a queste esercitazioni dell'antimafia con un atteggiamento di indifferenza e stanchezza: i morti, anche se eroi e martiri di mafia, rimangono morti; e come recita un detto siciliano, bisogna semmai pensare ai vivi.


Così, anche se qualcuno continua incrollabilmente a credere nella forza dell'esempio rappresentato da Giovanni Falcone e da Pina Maisano Grassi, Palermo è sempre pronta a ricordare la natura dei suoi mali.
Qualcosa o qualcuno riescono cioè sempre a sbattere sulla faccia di chi celebra, partecipa, rievoca o racconta, l'identità mafiosa di fondo di un numero non indifferente di palermitani.
Quel qualcosa o quel qualcuno hanno da qualche giorno l'aspetto di alcune scritte murarie - almeno quattro - apparse lungo viale Regione Sicilia Sud Est, nella borgata di Tommaso Natale.
Nessuno - fra quanti potrebbero avere il buon senso ed il compito di segnalarne la presenza per farle cancellare ( una pattuglia dei vigili urbani o della polizia o dei carabinieri, o un qualsiasi palermitano )  - si è apparentemente accorto di quelle scritte, che pure devono essere state già lette da migliaia di automobilisti.


Vogliamo solo sperare che chi le abbia tracciate lungo un tratto di strada lungo qualche chilometro sia stato mosso da un equivocabile spirito di provocazione; ci sembra però una speranza infondata.
L'indifferenza uccide, recita proprio la retorica delle celebrazioni antimafia; e ci sembra che l'indisturbata esibizione di quelle frasi sia il segno dell'avvilente disattenzione che il fenomeno mafia ha a Palermomalgrado anni di manifestazioni e rievocazioni delle sue vittime e di uomini e donne che vi hanno lottato contro. 

           

mercoledì 8 giugno 2016

DISEGNI DI SICILIA


RAFFAELLO PIRAINO, "Fichidindia", 1975

martedì 7 giugno 2016

IL RIVOLUZIONARIO PROCLAMA DELLA "SANTUZZA" A PALERMO

Le origini del grido "Viva Palermo e viva Santa Rosalia!", momento clou delle celebrazioni del Festino e che rimanda alle vicende dei moti del 1820

Il monumentale carro di Santa Rosalia
costruito in occasione del Festino del 1896.
La fotografia venne realizzata da Eugenio Interguglielmi
ed è tratta dalla rivista
"Natale e Capodanno dell'Illustrazione Italiana",
edita nel 1908 da Fratelli Treves


Il tradizionale appuntamento palermitano di luglio del Festino di Santa Rosalia è ormai vicino.
Quello del 2016 sarà il 392° della sua storia, ricca di legami con le vicende della città e di aneddoti più o meno documentati che ne raccontano le secolari cronache.
Uno dei momenti topici del Festino è quello della salita sul carro della "Santuzza" nella calca dei Quattro Canti, e del rituale grido "Viva Palermo e viva Santa Rosalia!": un compito affidato al sindaco ed incertamente insidioso perché capace di riservargli pubbliche ovazioni o plateali contestazioni da parte dei suoi concittadini.
L'esito del proclama ha quindi ripercussioni di natura elettorale e per questo motivo, qualche anno fa, un sindaco preferì evitare i temuti fischi abbandonando il corteo del carro poco prima della sosta ai Quattro Canti.

Il carro del Festino dinanzi Porta Felice
in una stampa settecentesca.
L'immagine è tratta dal quadrimestrale "Giglio di Roccia",
edito a Palermo nell'estate del 1961
 
Pochi ricordano che l'origine del grido "Viva Palermo e viva Santa Rosalia" è legata alla data del 1820, ed ad un accadimento - la rivolta contro le truppe di Ferdinando I - che poco o nulla ebbe a che fare con la devozione alla "Santuzza".
L'episodio venne così raccontato da Amleto Bologna nell'articolo "Viva Palermu e Santa Rusulia! Festini, carri, corse di cavalli e altre cose", pubblicato dalla rivista quadrimestrale "Giglio di Roccia", edita a Palermo nell'estate del 1961
  
"'Viva Palermu e Santa Rusulia!'
Eterno, vibrante grido di amore e di fede del popolo di Palermo questo, e però assurto anche a grido di guerra proprio alla fine del 'festino' del 1820 iniziandosi la violenta rivolta scoppiata nella nostra città, sulla scia di quella di Napoli dopo il 'pronunciamento militare' di Nola, per il ripristino della Costituzione siciliana del 1812.

La statua di Santa Rosalia
lungo il perimetro esterno della Cattedrale di Palermo.
La fotografia è di ReportageSicilia
 
 
'Baddi e mitragghia cchiù nun tinevanu,
cannili di paràmita pigghiavanu,
pi fina 'nta la vucca lu pezzu inchèvanu
un cileccu pi tappu ci 'ncarcavanu:
poi alla cantunera si mittevanu,
sparannu sparannu s'avanzavanu
e ad ogni botta lu populu dicia:
Viva Palermu e santa Rusulia!'
 
si legge in un canto popolare del tempo che esaltava questo avvenimento.
Per spiegarsi il senso di questa ottava deve tenersi presente che l'illuminazione del "Cassaro", fino a quando non fu sostituita nel 1861 con archi a gas, veniva eseguita con piramidi ( "paramiti", in dialetto ) di legno dipinto ( 400 fra grandi e piccole ) su ognuna delle quali erano appese decine di lucerne di terracotta ( "cannili", in dialetto ) ad olio.
Piramidi con lucerne erano pure a Porta Nuova, a Porta Felice e ai Quattro Canti dinanzi alle fontane.
La loro accensione, grazie al grande numero di addetti, avveniva quasi simultaneamente.
Intensi, quindi, che durante la rivolta, appena esaurite le palle e la mitraglia per i cannoni, che allora erano ad avancarica, i rivoltosi tolsero le lucerne dalle piramidi e con le stesse riempirono i pezzi tappandone la bocca con giacche e panciotti ( "cilecchi", in dialetto ).
Era stato un frate del convento di Sant'Anna, padre Gioacchino Vaglica, a lanciare per primo il grido "Viva Palermu e Santa Rusalia!" e il popolo con tumultuoso ardore lo aveva seguito sino a mettere in fuga i generali e le soldatesche del famigerato Re Nasone, Ferdinando I delle Due Sicilie, già terzo di Sicilia e quarto di Napoli.

Un'altra statua della "Santuzza",
quella sul monte Pellegrino.
L'immagine è tratta dala rivista
"Natale e Capodanno dell'Illustrazione Italiana",
opera citata
 
Vero è che di questa rivolta qualche mese dopo, per la repressione operata dal generale Pietro Colletta, non erano rimaste che lacrime, lutti e devastazioni, ma il grido di padre Gioacchino, ripreso a coro dal popolo che ne fece, come del resto avvenne in altre rivolte, non esclusa quella del 1848, la sua insegna, sta a dimostrare quanta era, e naturalmente è, la fede in Santa Rosalia nei più disperati e tragici frangenti, quanta era ed è la sicurezza nella sua intercessione, nel suo intervento, meglio, nella mentalità popolare, che altri santi pure ritenuti miracolosissimi..."
 

domenica 5 giugno 2016

IL CUSTODE DEI TONNI DI FAVIGNANA

Memoria dello stabilimento per la lavorazione dei tonni delle Egadi nei ricordi di Giuseppe "Peppe" Giangrasso, da mezzo secolo testimone della storia degli impianti legati ai nomi dei Florio e dei Parodi


Con il suo volto plasmato dal sole e dal vento della Egadi,
Giuseppe "Peppe" Giangrasso racconta da cinquant'anni
le fortune ed il declino dello stabilimento
per la lavorazione dei tonni di Favignana.
Le fotografie del post sono di ReportageSicilia


All'età di 77 anni appena compiuti, Giuseppe "Peppe" Giangrasso è oggi la memoria storica dello stabilimento per la lavorazione e l'inscatolamento di tonno di Favignana, dapprima di proprietà dei Florio e in seguito dei Parodi.
Giangrasso, favignanese con il volto segnato dal sole e dal vento dell'isola, cominciò a lavorare nel 1962 all'interno dell'edificio progettato 88 anni prima da Giuseppe Damiani Almeyda.
Dal ruolo di imbianchino, quest'uomo oggi attorniato da 8 figli e 27 nipoti ha assunto vari incarichi, sino a diventare - nel 1990 - il custode dello stabilimento.



"Peppe" conosce ogni angolo dei 32.000 mq di questo magnifico esempio di archeologia mediterraneo-industriale, costruito con il tufo locale; vi abita ancora e qui continua a svolgere il ruolo di guardiano, spesso accompagnato da quello di guida per i visitatori dello storico impianto.



A quelli più affabili, Giangrasso intona anche i canti goliardici che accompagnavano il lavoro dei tonnaroti ( ad esempio, "Lina! Lina! Chi beddi minne teni a signurina!", "Lina! Lina! Che bei seni ha la signorina!" )
I ricordi di "Peppe" accompagnano le notizie documentarie sullo stabilimento: le origini risalgono al periodo in cui Ignazio Florio - nel 1874 - acquistò con 5 rate annuali le isole Egadi dai Pallavicini-Rusconi, per un totale di 2 milioni e 750.000 lire.





Sino al 1637, l'arcipelago trapanese era stato in mano al Demanio del Regno di Sicilia, che lo aveva venduto nel 1637 al genovese Camillo Pallavicini; tre secoli prima, gli aragonesi vi avevano fatto impiantare due tonnare, determinando così la nascita di un'economia locale basata sull'attività dei rais e delle loro ciurme.
"Peppe" Giangrasso ricorda con rimpianto quando lo stabilimento dava lavoro a quasi mille persone.





In pratica, quasi tutti gli abitanti delle Egadi, da aprile a luglio, hanno beneficiato per decenni delle attività di pesca e lavorazione del tonno;  gran parte degli uomini erano impegnati nelle tonnare, mentre donne e ragazzi lavoravano all'interno dello stabilimento.
Un tempo, si catturavano da un minimo di 10.000 ad un massimo di 16.000 esemplari annui, con un prodotto fresco variabile fra i 15.000 ed i 25.000 quintali.
Il ciclo di lavorazione era rapidissimo: entro le 48 ore, i tonni venivano catturati, lavorati e inscatolati per l'esportazione.
"Il giorno successivo a quello della mattanza - ha scritto a questo proposito Valeria Patrizia Li Vigni in "Le vie del mare" ( edito dalla Regione Siciliana nel 2008 ) - i tonni venivano distesi sul pavimento per la 'ronchiatura', ossia la separazione dei diversi tagli, denominati 'ventresca', 'tarantello', bodano', 'tonno'.


Tutti i tagli seguivano lo stesso ciclo di lavorazione, anche se diversi erano i gradi di salamoia ed i tempi di cottura in relazione al taglio e allo spessore dei tranci...
Tutti i cascami ( ossa, pinne, lische ), dopo la spremitura nelle presse, venivano distesi ad asciugare ed essiccare al sole nello spiazzale del reparto.
Tali parti erano successivamente macinate presso il mulino per ottenere olio e farina di pesce, quest'ultima ritenuta un ottimo fertilizzante per i vigneti..."



Nelle "buatte" che confezionavano il prodotto erano così elencati i riconoscimenti ottenuti in occasione di fiere o mostre: 
"Lavorazione e prodotti premiati con diploma d'onore all'Esposizione di Londra 1888", "Due diplomi d'onore all'Esposizione di Palermo 1891-2", "Gran diploma d'onore all'Esposizione Italo-Americana di Genova 1892", "Gran premio all'Esposizione Internazionale di Milano 1906".
La crisi industriale arrivò negli anni successivi al secondo dopoguerra, quando già dal 1937 la proprietà dello stabilimento era passata ai Parodi.
Il prodotto pescato nelle Egadi e lavorato all'interno degli impianti diminuì a favore del tonno congelato proveniente da altri mari.
Nel 1966 e nel 1967, gli esemplari catturati a Favignana furono 2500 e 6580; fra i ricordi di "Peppe" Giangrasso vi è quello delle numerose famiglie favignanesi che con il passare degli anni persero lavoro e guadagni.
Il 1982 fece segnare la fine delle attività produttive all'interno dello stabilimento.



Dopo anni di abbandono, la Regione Siciliana acquistò l'intera struttura da Luigi Parodi, per un importo di 5 miliardi di lire.
I lavori di ristrutturazione non sono ancora del tutto terminati, ma la visita in compagnia di "Peppe" costituisce un motivo di grande interesse per la bellezza dei luoghi e per i racconti del suo storico custode, capaci di rievocare una Sicilia operosa e generosa di risorse per i suoi abitanti.