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martedì 2 dicembre 2025

LUDOVICO SICARDI, IL CHIMICO CHE STUDIO' LE FUMAROLE DI VULCANO

Una roccia vulcanica a Vulcano
a ricordo dell'eruzione dell'agosto del 1880.
Fotografia di Ludovico Sicardi,
opera citata nel post


Si devono al chimico e farmacista ligure Ludovico Sicardi preziose osservazioni scientifiche compiute a Vulcano e a Stromboli a partire dal 1921. Appassionato cultore dei fenomeni vulcanici, dopo avervi condotto ricerche minerarie ( zolfo e allume ) scelse Vulcano per analizzare le variazioni del flusso e delle temperature delle sue fumarole, sottoponendole ad esami chimici. Per Sicardi, le Eolie furono così per anni un arcipelago di studio e sperimentazione pionieristica; scelse anche Stromboli come luogo di residenza durante il secondo conflitto mondiale. Dal settembre del 2021 le fumarole studiate per primo da Sicardi vengono osservate con attenzione a Vulcano dall'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia e dall'Università di Ginevra, con sistemi di rilevazione ben più avanzati rispetto a quelli sperimentati dal chimico ligure. 



Dei meriti scientifici di Ludovico Sicardi ha scritto il geochimico e vulcanologo Marcello Carapezza nel saggio "Molti fuochi ardono sotto il suolo. Di terremoti, vulcani e statue" ( Sellerio editore Palermo, 2017 ). Carapezza sentì così il dovere di riconoscere il contributo da lui fornito alla vulcanologia:

"Quest'uomo morì quasi sconosciuto alla comunità delle Scienze della Terra e questo perché i suoi lavori scientifici su Vulcano, Stromboli e i Campi Flegrei erano ( ... ) una risposta profondamente anticipatrice ad una domanda non ancora posta"

La documentazione scientifica di Sicardi sulle Eolie è conservata a Lipari, all'interno della sezione vulcanologica del Museo "Bernabò Brea". Il ricercatore ebbe anche modo di dedicarsi alla divulgazione dei suoi studi in pubblicazioni destinate al grande pubblico. 




Ne è un esempio un reportage pubblicato sulla rivista del Touring Club Italiano "Le Vie d'Italia" nel novembre del 1954, dal titolo "L'isola di Vulcano" e corredato da alcune fotografie dello stesso Sicardi. In questo scritto, il chimico ligure dimostrò, oltre alle competenze di natura scientifica, la sua abilità descrittiva della geografia e del paesaggio eoliano:

"Le isole non sono distribuite a caso, ma si irradiano su tre diverse direzioni, quasi con eguale angolo, da un punto poco più a nord dell'isola di Lipari. Qui la crosta terrestre sembra avere ricevuto dall'interno tale urto da restarne spezzata, con la conseguenza di quel caratteristico irraggiamento di fratture sulle quali sono poi sorti i coni vulcanici delle Eolie. Oggi le manifestazioni dell'attività vulcanica sono concentrate esclusivamente su Stromboli e Vulcano, agli estremi cioè delle due radiali di levante, mentre nelle altre isole non appaiono che sporadiche sorgenti termali e solo Panarea ha una striscia di deboli fumarole..."

Poi il racconto di Sicardi indugiò sulla descrizione delle condizioni di vita degli abitanti di Vulcano, all'epoca isola di migrazione verso continenti lontanissimi:

"Vulcano è l'isola più vicina alla Sicilia. Il postale, che ogni mattina parte da Milazzo, prima di giungere a Lipari, vi fa scalo e ritorna nel pomeriggio. Non molto tempo addietro, il servizio faceva scalo soltanto a Lipari, rendendo arduo il collegamento di Vulcano con le linee di navigazione delle Eolie.

Alla facilità delle comunicazioni si aggiunge oggi la possibilità di un soggiorno confortevole per due appassionate iniziative locali: quella di Giulio Giuffrè sulla riva del Porto di Levante presso una salutare sorgente e l'altra dei Favaloro a mezza via tra le insenature di Ponente e di Levante. I campi ancora sabbiosi lasciano crescere una vite a basso cespuglio, ma capace di un vino molto generoso; gli orti vivono soprattutto dell'umidità un poco calda del sottosuolo; nel mare ci sono ampie possibilità di pesca.



Queste sono le risorse dell'isola, la quale, per il resto, è ampiamente fornita da Lipari e da Milazzo. Il turista insomma può viverci tranquillamente, pensando solo a percorrere l'isola a piedi o sul dorso di mansueti muletti per i facili sentieri che legano tutte le località e comodamente portano alla cima fumosa del Gran Cono e tra gli spenti crateri del Piano.

Nell'isola non vivono che poche centinaia di persone ospitali e cordialissime, divisa tra il Porto di Levante e il Piano, non ancora del tutto insensibili al richiamo dell'Australia che tanti ha strappato finora all'isola, offrendo aiuti più efficaci di quelli che il suolo e il mare di Vulcano possano offrire..." 

domenica 30 novembre 2025

ACITREZZA, IL MITO PERDUTO DEL MARE DI SMERALDO

Bambini e pescatori
con gli "specchi" ad Acitrezza.
Fotografia tratta dalla rivista "Sicilia",
opera citata nel post


La fotografia riproposta da ReportageSicilia venne pubblicata dalla rivista "Sicilia" edita nel giugno del 1959 da S. F. Flaccovio di Palermo per conto dell'Assessorato regionale al Turismo e Spettacolo. L'immagine, accompagnata dalla didascalia "Acitrezza: pescatori e faraglioni", illustrò una pagina pubblicitaria dedicata a "Catania, la città dell'Etna", in cui si esaltava la bellezza della "Riviera dei Ciclopi, dove Omero e la leggenda di Aci e Galatea vivono eternamente in una pace di sogno, fra le lave fiorite che si bagnano in un mare di smeraldo..."

Già alla fine degli anni Sessanta dello scorso secolo, quell'eterno paesaggio di meraviglia marina aveva tuttavia perso la sua mitologica e smeraldina attrattiva: colpa di una dissennata attività edilizia e di scarichi fognari che, in nome di una fagocitante industria del turismo, hanno stravolto il paesaggio di questo litorale siciliano dello Jonio. Di questa perdita è stato narratore Vincenzo Consolo, in una delle pagine di "L'olivo e l'olivastro" ( Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1994 ):

"Sono scomparse le casipole, le barche, i fariglioni. Due enormi bracci di cemento , due alte banchine circolari di un porto come le ganasce d'una tenaglia chiudono il mare del seno, nascondono gli scogli, la rupe del castello di Aci, il Capo Mulini, l'intero orizzonte. Il villaggio si è ingigantito, pieno di villette, condomini, alberghi, trattorie. Sul muro della chiesa, a ricordare il romanzo, un bassorilievo dei Malavoglia con la scritta "E quei poveretti sembravano tante anime del purgatorio".



La gente che ora affolla strade e piazze, siede ai bar, si muove, s'agita, urla, i ragazzi su motori assordanti, ragazze dietro avvinghiate, i turisti, i bagnanti, sembrano piombati qui da mondi astratti, sagome cave che vanno, convergono verso sterili lande, Josafat di vuoto, d'assenza, d'incoscienza..."



mercoledì 26 novembre 2025

LO SPIRITO BAROCCO DELLE FESTE DI FAMIGLIA IN SICILIA

Matrimonio a Ragusa Ibla.
Fotografia tratta dal saggio "Sicilia",
opera citata nel post


"Battesimi, prime comunioni, matrimoni e funerali, in Sicilia - ha notato il viaggiatore e saggista svizzero Jakob Job nell'opera "Sicilia" edita nel 1971 a Zurigo da Edizioni Silvana -  sono spesso un'occasione per un'evasione dal proprio livello sociale. La facciata della chiesa di San Giorgio a Ragusa Ibla irradia una barocca gioia della vita. E' un suggestivo scenario per un matrimonio, la più barocca di tutte le feste di famiglia" 

lunedì 24 novembre 2025

SANTO STEFANO DI CAMASTRA, UNA STORIA DI "STAZZUNARA" E "QUARTARARA"

Ceramiche di Santo Stefano di Camastra.
Fotografie tratte dall'opera
"Artigianato siciliano"
edita nel 1966
da Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma


Da molti decenni, Santo Stefano di Camastra ha raccolto e amplificato la tradizione delle antiche fornaci messinesi di Patti. Ai nostri giorni, la produzione della maggior parte delle botteghe locali non è sfuggita ad un certo gusto del convenzionale, alimentato da un mercato che non sfugge ai cliché di motivi decorativi indicati come "siciliani". Ne hanno fatto le spese soprattutto le famose pigne, in origine destinate ad ornare con valore propiziatorio portoni d'ingresso e balconi di case; in origine smaltate in verde, giallo e bianco, sono oggi realizzate anche a Santo Stefano di Camastra in una più ampia varietà di tonalità. Sino a qualche anno fa, i colori delle altre ceramiche stefanesi mostravano toni accesi, o un bianco filettato d'azzurro, su uno strato compatto di smalto coprente di colore verde o giallo ferraccia. Quasi del tutto scomparsa è la produzione di fioriere o porta piante di varie dimensioni, anch'esse di colore verde, bianco e giallo. Di contro, prosegue quella di mattonelle per pavimenti, che accosta a motivi decorativi locali ottocenteschi quelli di più moderna composizione.  

Nel 1978, il giornalista, poeta ed autore teatrale messinese Pippo Rescifina così spiegò l'origine dell'arte della ceramica a Santo Stefano di Camastra:

"Le ricerche sull'origine di questa singolare arte, che, alla base della propria espressione, sfrutta il prodotto più naturale, ovvero l'argilla - si legge in un articolo pubblicato il 10 agosto di quell'anno sul "Giornale di Sicilia" - hanno accertato che il primo nucleo stefanese risiedeva esattamente a "Rumèi", da cui "Nomej", antico nome degli abitanti di quella località, confinante con Mistretta. Ma un potentissimo evento sismico, intorno al 670, costrinse molti a rifugiarsi accanto ad un antico monastero basiliano, quello di Santa Maria del Vocante, che oggi è possibile ammirare sulle pendici occidentali del monte Santa Croce o, come viene usualmente definito, "Lettosanto".  Alla prima localizzazione dell'abitato attuale di Santo Stefano di Camastra si è giunti grazie alla individuazione di un altro monastero, dei benedettini, dedicato proprio a Santo Stefano, dal quale prese nome la località.



Lento e travagliato fu l'avvicinamento dei locali all'argilla. ma pare che a spingere gli stefanesi ad usare questo prodotto. Tant'è che un nuovo trasferimento del paese, nel 1682, causato da una potentissima frana, vide moltissimi impegnati nella costruzione di edifici, grazie all'uso dell'argilla per l'esecuzione di tegole e "catusa". Ma la vera lavorazione dell'argilla diventò per gli stefanesi un'arte nel XIX secolo, quando iniziò la produzione delle mattonelle, prodotto che, attraverso gli anni, acquistò sempre più consistente testimonianza di garbo interpretativo ed elemento inconfondibile e caratterizzante della vita economica di Santo Stefano. Nell'ambiente locale, ancora oggi, è doveroso fare una divisione netta tra la produzione degli "stazzunara" ( limitata a semplici oggetti quotidiani ) e quella dei "quartarara" che è legata all'arte della maiolica, cioè della mattonella contenente i motivi floreali o "arabeschi"..." 



martedì 18 novembre 2025

CORRADO ALVARO E IL RICORDO DELLA FOTOGRAFIA DI UNA DONNA CON L'ORCIO A TINDARI

Le fotografie sono attribuite a 
"Soprintendenza alle Antichità di Siracusa",
opera citata nel post


"Mentre andavamo via lesti perché la nostra compagnia ci chiamava per ripartire, fermammo un donna che andava alla fonte con l'orcio in equilibrio sulla testa, e le domandammo se consentisse a posare per una fotografia. Si volse: "Si, a patto che me ne mandiate una copia. La voglio spedire a mio figlio che si trova in America". Ci disse il suo nome e osservò come io lo appuntavo rapidamente su un pezzo di carta. Mentre rispondeva senza deporre l'orcio, ci accorgemmo come era: scalza, le gambe scoperte fino al polpaccio muscoloso, con quella idea d'infanzia perenne delle donne scalze dell'Italia meridionale, di donne non abbastanza adulte, per via appunto dei piedi scalzi, fino a che lo sguardo non scopre il viso e colloca questo viso in un tipo di donna, lo immagina in città, e questa popolana scalza prende l'aria di una passante vestita alla moda, d'una nostra amica, di una signora che siamo abituati a riverire...



In quell'istante, mentre il mio compagno di viaggio scattava la fotografia, avevo modo di osservare quella donna. Poteva avere quarant'anni; occorreva un occhio esercitato per attribuirle non più di questa età; il naso dolcemente arcuato, gli occhi distanti sotto la fronte dritta, e in essi l'espressione con cui una donna del popolo guarda un uomo che è il forte e insieme il ragazzo, il rivale e il violento e insieme il protetto. Ella si preparò alla posa assicurandosi con una mano l'orcio sulla testa, mentre passava l'altra mano per ravviare i capelli della bambina che la seguiva e cui facemmo attenzione per quel suo gesto. Unica civetteria, si passò la lingua sulle labbra per inumidirle e posò con sicura semplicità, una mano nella mano della bimba, l'altra all'orcio perché sapeva che quello ero lo scopo della sua fotografia, il suo povero orcio. Mi parve di pensare i suoi stessi pensieri in quell'attimo: il figlio in America, il momento in cui egli avrebbe riveduto la sua immagine; e un pensiero che in lei non era di certo, ma che si sarebbe certo affacciato alla mente del figlio lontano, di un mondo abbandonato per sempre, dolente e nostalgico e tuttavia col proposito di non tornarvi mai più; una madre scalza e con l'orcio dell'acqua sulla testa, nella sua povera realtà, con la sua presenza onoranda e insieme di donna mai abbastanza cresciuta, in una fatica che diventa l'immagine di un trastullo...  Non ci voltammo a guardare la donna che riprendeva la strada verso la fonte, là dove le more di gelso ornavano il viottolo. S'era cercato di mangiarne qualcuna e, come un sogno dileguato di ragazzo, esse non avevano più sapore, ma ancora tingevano di rosso la mano..."



Così Corrado Alvaro rievocò nel luglio del 1953 sul "Corriere della Sera" un incontro con una donna a Tindari - "in uno dei luoghi più belli di fronte le Eolie" - e la storia di una delle tante fotografie che hanno in passato ritratto le donne di Tindari durante il trasporto degli orci per la raccolta dell'acqua. ReportageSicilia ne ripropone una  ( ritrae forse la stessa donna? ) pubblicata nel dicembre del 1951 dalla rivista del Touring Club Italiano "Le Vie d'Italia". Insieme ad altre, l'immagine illustrò un articolo intitolato "Tindari, città sepolta della Sicilia" firmato da Nino Lamboglia, archeologo ligure che all'epoca qui guidò gli scavi della Soprintendenza della Sicilia Orientale



Nel suo racconto, ricco di notazioni storiche e di notizie sull'attività di studio e ricerca svolta in quei mesi - "ci siamo posti in capo, con l'amico Bernabò Brea, di affermare da un capo all'altro dell'Italia, da Ventimiglia a Tindari, il principio dello scavo stratigrafico, che dalla preistoria deve ormai passare all'archeologia, come avviene da tempo in altri paesi; e ci riusciremo..." -  Nino Lamboglia non mancò di sottolineare la bellezza paesaggistica di Tindari, allora appena sfregiata dalla mano insipiente dell'uomo:

"Il luogo è panoramicamente quanto di più suggestivo si possa immaginare, e nulla - salvo un edificio scolastico color fragola, un altarino all'aperto in piastrelle gialle, e l'orribile merlatura del santuario foggiato a caserma - è ancor venuto a turbare l'arcaismo dell'ambiente: le umili casette di impronta arabo-sicula, abbarbicate sui resti più alti della città antica, svelano d'improvviso al visitatore il nome e il colore della "via Cicerone", dedicata all'avvocato dei Tindaritani contro Verre lo spogliatore; e i fichi d'india regnano sovrani, e pungentissimi, a difendere a un tempo la proprietà e i diritti della natura..."

lunedì 17 novembre 2025

SCEMPI E MIRABILIE DEL PAESAGGIO SICILIANO IN UNA PAGINA DI BUFALINO

Il tempio di Segesta.
Fotografia di Roloff Beny
tratta dall'opera "Italia"
edita nel 1975 da Arnoldo Mondadori Editore


"Era bella, la Sicilia, duemila anni fa. Bella osa esserla ancora, a dispetto dell'uomo ma anche in grazia dell'uomo. Poiché il paesaggio - ha scritto Gesualdo Bufalino in "L'isola nuda" ( Bompiani, 1988 ) - non è soltanto belvedere di albe e tramonti, ma anche esito di braccia, utensili, intelligenze. Sicché non si fa in tempo, talvolta a bestemmiare uno scempio che già nello slancio dell'arcata d'un ponte o nelle compagine d'un muro di sassi si è indotti ad ammirare il regalo di un'architettura radiosa. Così discorde è l'uomo, così indistinguibile in lui la cecità dalla luce. Tanto da indurci a scordare per un momento, di fronte a una sola colonna di un tempio ch'egli abbia lasciato in piedi a garanzia delle sua dignità, la violenza da cui le mancanti furono abbattute e distrutte..."