sabato 31 marzo 2012

ABBEVERATA A RADDUSA

Contadini riuniti con i loro cavalli intorno ad un abbeveratoio a Raddusa, il centro catanese che fino al secondo dopoguerra aveva nella coltura del grano la sua attività economica principale. Da qualche anno a Raddusa il retaggio di quella pratica agricola è affidato ad una 'festa del grano' che certo non lenisce le recriminazioni per la crisi produttiva della storica coltura

Muretti a secco, terrazze agricole ed abbeveratoi raccontano la storia di un mondo rurale siciliano che, specie nelle aree interne dell’isola, offre ancora numerose testimonianze della loro antica funzione. Nei decenni passati, molti fotografi raccontavano quella Sicilia “arcaica e pastorale” con un approccio compiaciuto, più simile alla ricerca del dato folklorico che alla documentazione della progressiva scomparsa di quel mondo rurale, con i suoi personaggi ed i suoi luoghi, espressione di una cultura secolare. Questa considerazione sembra emergere dall’osservazione di questa fotografia che ritrae un gruppo di braccianti riuniti con i loro cavalli intorno ad un abbeveratoio, forse al termine di una giornata di lavoro nei campi. L’immagine – tratta dal II volume dell’opera ‘Sicilia’, edita da Sansoni nel 1962, a firma Publifoto -  è stata scattata a Raddusa, nel catanese, paese di antiche tradizioni agricole, e dove da qualche anno si celebra annualmente una ‘festa del grano’: gli anziani tornano nuovamente nei campi e ripropongono le vecchie pratiche della ‘pisatura’ – la trebbiatura – un tempo così diffusa da rifornire di grano gran parte della provincia catanese.
Il Museo del Grano di Raddusa. L'immagine è tratta da http://www.calatinosudsimeto.it/03/cont_d.asp?CSez_ID=COMU&CCat_ID=CO10 

A Raddusa, nel frattempo, è nato anche un Museo del Grano. L’iniziativa è certo lodevole sul piano culturale, ma suggerisce anche qualche considerazione sulla drammatica crisi sofferta da una coltura agricola siciliana strozzata dalle leggi del mercato globale; al punto da essere relegata – come a Raddusa – a oggetto di cultura museale, ad amara e beffarda materia di folklore.

mercoledì 28 marzo 2012

MARAINI, TRACCE DI SICILIA

Fosco Maraini in abbigliamento che  evidenzia
la sua  passione per le culture del Medio Oriente.
Nel centenario della nascita, ReportageSicilia ripropone alcune fotografie che testimoniano i legami dello studioso fiorentino con l'isola.
Maraini sposò infatti nel 1935 Topazia Alliata, esponente di una vecchia famiglia aristocratica isolana: per questo motivo trascorse alcune stagioni della sua intensa vita a Bagheria.
L'immagine è tratta da un articolo pubblicato lo scorso 25 marzo dal quotidiano 'la Repubblica', a firma di Franco Marcoaldi
Da qualche tempo ReportageSicilia intendeva dedicare un post a Fosco Maraini.
Il 2012 è l’anno del centenario della sua nascita ( avvenuta a Firenze il 15 novembre del 1912, dallo scultore Antonio Maraini e dalla scrittrice Yoi Crosse ), e l’occasione di farlo è arrivata la mattina di domenica 25 marzo: sulla prima pagina de ‘la Repubblica’ campeggiava infatti un richiamo alle pagine interne del quotidiano, intitolato ‘L’ultimo Sciamano, gli dei senza dio di Fosco Maraini’. L’articolo – firmato da Franco Marcoaldi – narra del legame che legò Fosco Maraini alle terre dell’Estremo Oriente, la sua ‘scoperta’ dei Kafiri nell’Hindu-Kush e dello Shinto giapponese.
Nel testo, Marcoaldi non fa nessuno riferimento al rapporto fra Maraini e la Sicilia: circostanza che ha offerto a questo blog l’opportunità di cogliere la proverbiale “palla al balzo”, senza rischi di offrire con questo post un esempio di semplice copiatura o plagio dell’articolo ispiratore.

Il golfo di Palermo in una fotografia eseguita da Fosco Maraini dalla piana di Bagheria, il centro agricolo che, con il corredo delle sue ville settecentesche, fu il luogo di residenza del ricercatore toscano in Sicilia.
Lo scatto - come i cinque che seguono - è stato pubblicato sul volume 'Sicilia' edito da TCI nel 1961

Del legame fra Maraini e l’isola, ricercatori e studiosi discussero il 3 ottobre 2011 a Palermo, nel corso di una giornata di studio a villa Zito, organizzata dalla Regione Siciliana. Non avendo partecipato a quell’evento – concluso da un ricordo della figlia Dacia - molte informazioni su quell’argomento rimangono precluse. Tuttavia, grazie anche alla riproposizione di alcune fotografie da lui scattate in Sicilia, ReportageSicilia tenta di riassumere la storia del rapporto di Fosco Maraini con una regione tanto lontana dalle estreme terre d’Oriente predilette dall’”ultimo Sciamano”.

L'inconfondibile promontorio di capo Zafferano, proteso nell'azzurro del mar Tirreno: è questa una delle presenza naturali più caratterizzanti dell'ambiente naturale bagherese.
Le cronache dei soggiorni locali di Maraini - che, anni dopo, in Tibet, avrebbe affrontato con successo alcune cime himalayane - indicano le sue escursioni fra capo Gallo - a Palermo - monte Catalfano e lo stesso capo Zafferano.
E’ noto che il legame che lo portò in Sicilia, negli anni Trenta dello scorso secolo – la tradizione parla di un viaggio da Firenze a Palermo in motocicletta - fu l’amore per la prima moglie, sposata nel 1935: Topazia Alliata, figlia di Enrico Alliata, duca di Salaparuta e nipote di Edoardo, quest’ultimo fondatore della casa vinicola Corvo di Casteldaccia. Da quel matrimonio nacquero Dacia, Yuki e Toni. In quel periodo, Fosco Maraini frequentò soprattutto le ville settecentesche di Bagheria, dando sfogo alla sua passione per le scalate – passione poi culminata anni dopo nell’ascesa delle vette tibetane - affrontando le modeste pareti palermitane di capo Gallo e di monte Catalfano.
  
L'obiettivo di Maraini non sfugge all'impulso di fissare su pellicola l'arco roccioso di Mongerbino, in uno scenario naturale molto diverso dalle vette montane predilette dal ricercatore fiorentino.
I figli non mitigarono il desiderio di viaggiare di Fosco Maraini, che già a 22 anni aveva avuto modo di imbarcarsi come insegnante d’inglese a bordo della nave scuola “Amerigo Vespucci”. Nel 1937, infatti, lo studioso fiorentino si trasferì in Tibet, per dedicarsi a ricerche etnografiche; quindi – con la famiglia – si spostò in Giappone, dove sarà internato per non avere nel frattempo aderito alla Repubblica di Salò.
Nell’estate del 1949, Maraini tornò in Sicilia da un suo secondo viaggio in Tibet; la miseria e le trasformazioni del dopoguerra dell’isola e del Sud d’Italia lo indussero a compiervi ripetuti reportage fotografici.
Al ritorno dal Tibet in Sicilia, nel 1948, Fosco Maraini ebbe modo di realizzare un reportage fotografico nell'isola, destinato forse ad arricchire il patrimonio documentario di un libro intitolato 'Nostro Sud', per l'editore De Donato.
La pubblicazione non vide mai la luce,
e questo scatto riproposto da ReportageSicilia
 - insieme ai due che seguono - potrebbero far parte
di quel progetto.
L'immagine ritrae una scena di vita contadina alla periferia del centro agrigentino di Siculiana

In quel periodo, l’orientalista avviò un progetto con l’editore De Donato, poi mai del tutto compiuto: una raccolta di fotografie da riunire nella pubblicazione ‘Nostro Sud’.

Se l'intento di Maraini fu quello di documentare le trasformazioni sociali ed economiche della Sicilia nel secondo dopoguerra, questo scatto oggi assume un valore simbolico.
L'immagine ritrae un gruppo di operai impegnati nel trasporto dei pani di zolfo a Porto Empedocle: sono gli ultimi sussulti di un'attività estrattiva ormai in declino, e che oggi appartiene alla storia passata dell'economia
della provincia agrigentina

Di quegli anni, sono anche una serie di scatti nell’isola poi pubblicati nel volume ‘Castelli di Sicilia’, edito nel 1956 da Silvana Editoriale d’Arte di Milano, a firma di Alba Drago Beltrandi, in parte riproposti in questo post, insieme ad altre immagini tratte dalla pubblicazione ‘Sicilia’ del TCI nel 1961.

In provincia di Agrigento, il ricercatore fiorentino tributo alla figura di Luigi Pirandello: lo scatto ritrae infatti la casa di famiglia del drammaturgo,
 in contrada Caos
Nel frattempo, il divorzio dalla moglie Topazia Alliata avrebbe contribuito ad allentare il rapporto con la Sicilia, l’isola che ha rappresentato solo una minima parte del mondo da lui esplorato.




Le ultime quattro fotografie di Fosco Maraini riproposte da ReportageSicilia in questo post ritraggono altrettanti resti di edilizia fortificata sparsi nell'isola: nell'ordine,  i castelli di San Nicola l'Arena - nel palermitano - quello di località Noce, a Caltagirone - all'epoca di proprietà del presidente della Regione Silvio Milazzo - quello catanese di Bronte e il Chiaramonte, nell'agrigentina Favara.
In questi scatti - pubblicati nel volume 'Castelli di Sicilia', edito da Silvana Editoriale d'Arte Milano nel 1956 - Maraini offre una visione strettamente documentaria degli edifici, lasciando di tanto in tanto alla figura umana un ruolo di puro complemento

Proprio questa pluralità di interessi, complica certamente la sintesi sul ruolo di Fosco Maraini nella cultura siciliana ed italiana del Novecento. Una circostanza in qualche modo suggerita da Franco Malcoaldi, con queste parole: “etnologo, fotografo, orientalista, poeta, alpinista, scrittore, documentarista, professore universitario, viaggiatore, Maraini – paradossale a dirsi – ha finito per pagare un prezzo salato a causa di questa straordinaria varietà di interessi: il nostro Paese non ha mai prediletto i ‘grandi dilettanti’ e difatti la sua fama non è paragonabile a quella degli altri due fiorentini che gli sono stati coevi, Tiziano Terzani ed Oriana Fallaci…”.   
Dopo la sua morte, avvenuta a Firenze l’8 giugno del 2004, l’archivio di immagini di Fosco Maraini è stato affidato al gabinetto Vieusseux della città toscana.
   

sabato 24 marzo 2012

L'EPOPEA DI FALEROTI E LANZATORI

Una fotografia di Quintilio Di Napoli documenta le fasi della caccia al pescespada, nello Stretto di Messina, nell'estate del 1948.
 A bordo del "luntru", rematori, faleroto e lanzatore inseguono la preda, dando vita ad una caccia dai toni quasi epici.
L'immagine - e le altre riproposte da ReportageSicilia - sono tratte da un reportage pubblicato da Francesco Alliata di Villafranca in 'Le Vie d'Italia' nell'agosto del 1950.
Documentarista e regista, Alliata è l'autore - fra gli altri lavori - di 'Tra Scilla e Cariddi', dedicato proprio alla pesca del pescespada e realizzato nel corso nel reportage riproposto nel post    

“Se la tonnara dà l’impressione di un coro orgiastico, violento ed estenuante, la pesca del pesce spada ha l’aspetto più raffinato e malizioso; e, di fronte alla materialità sanguinosa di quella, troviamo l’astuzia fatta di agguato e di suprema abilità individuale di questa”.
Così, nell’estate del 1948, Francesco Alliata di Villafranca descrisse la differenza tra due tipi di pesca oggi scomparsi dalle acque siciliane; la seconda delle quali – quella del pesce spada, appunto – ai nostri giorni è sicuramente meno conosciuta e ricordata rispetto alle gesta di rais e tonnaroti, fra Sicilia e Calabria.
Proprio a Francesco Alliata di Villafranca – esponente di una storica famiglia nobiliare palermitana e raffinato documentarista del mare – si deve la produzione di “Tra Scilla e Cariddi”, dedicato alla caccia al pescespada.

Nella fotografia di Alliata, "Il 'luntru' è vicino alla preda, il lanciatore in piedi sulla punta afferra l'asta della zaffinera per prepararsi al lancio..."
 La stagione della pesca del pescespada - pratica che già a meta degli anni Cinquanta volgeva al declino - era fissata tra i mesi
di maggio-giugno e luglio-agosto
Realizzato nell’estate del 1948 nelle acque dello Stretto di Messina, il documentario fu una delle preziose produzioni realizzate nel secondo dopo guerra dalla ‘Panarìa Film’ – la casa cinematografica fondata dallo stesso Alliata e da Pietro Moncada, Quintilio Di Napoli e Renzo Avanzo - insieme a “Tonnara”, “Bianche Eolie” ed “Isole di cenere”.
Le parole di Francesco Alliata di Villafranca ricordate all’inizio di questo post sono tratte da un reportage da lui pubblicato nell’agosto del 1950 tra le pagine della rivista mensile del TCI ‘Le Vie d’Italia’.

Uno dei quattro rematori di solito imbarcati a bordo del luntru.
Il loro faticoso compito era quello di inseguire il pescespada e favorire l'azione  del lanzatore,
incaricato di colpire a morte la preda con la zaffinera
Testo e fotografie contenuti in quel periodico raccontavano appunto la realizzazione di “Tra Scilla e Cariddi”, allorchè – come ricorda Alliata – “un mese di vita in comune con i pescatori di pescespada dello Stretto di Messina aprì agli occhi miei ed a quelli dei due amici che erano con me le straordinarie caratteristiche di questa pesca, l’umana poesia del mondo chiuso entro il quale vivono le poche famiglie che si tramandano i suoi segreti e l’indescrivibile abilità di questi giocolieri del mare”

"Dal suo altissimo posto di osservazione, l'antenniere avvista il pescespada a distanza e lo segnala agli uomini dei luntri..."
La caccia al pescespada aveva luogo su una fascia larga dalla costa non più di trecento metri, da Bagnara a Scilla ( costa calabra sul basso Tirreno ) per dieci chilometri e dalla riviera Paradiso a Punta Faro ( sponda siciliana dello Stretto di Messina ) per altri dieci; il periodo di pesca era compreso fra maggio-giugno – quello più favorevole – e tra luglio ed agosto.

Nello scatto di Alliata, le acque dello Stretto di Messina si increspano lungo la rotta delle barche d'appoggio alla pesca dello spada:
la cattura veniva praticata sui versanti siciliani e calabresi, con riti e strumenti già descritti da Plinio nel 220 a.C.
Le attenzioni del documentario si concentrarono dunque sul “luntru”, l’imbarcazione piccola e snella usata per la caccia al pescespada. “Nera esteriormente ed all’interno colorita a tinta unita vivace – scriveva Alliata – ed ancora leggerissima, fortemente appuntita a prua e a poppa, relativamente bassa di bordi, denunzia a prima vista la possibilità di raggiungere una forte velocità”.
Il “luntru” era costruito da artigiani specializzati che si tramandavano le conoscenze tecniche da padre in figlio; a quattro remi – lunghissimi ed elastici – era un’imbarcazione che assicurava velocità e manovrabilità.

"L'antenniere sale per la scala di corda al suo posto di osservazione
sospeso a 25 metri..."
L’equipaggio era composto da 6 persone: quattro rematori, il “faleroto” – colui che avvistava la preda, dall’alto di un piccolo albero di circa due metri e cinquanta – ed il “lanzatore” o “padrone”, cioè il fiocinatore.
“Quest’ultimo – precisava Alliata nel suo reportage – è il personaggio più importante del gruppo. Deve essere dotato in modo eccellente di occhio, equilibrio, scatto, intuito e precisione, in tal misura da potere colpire il pescespada anche a distanza di venti metri, malgrado la posizione malferma ed incomoda”.

"La zaffinera, l'arpione che deve affondare nelle carni del pescespada, è il grande tesoro del lanzatore, che ne controlla frequentemente l'efficienza..."
Nelle mani, il “lanzatore” stringeva la “zaffinera”, cioè l’arpione che doveva affondare nelle carni del pescespada. “Il suo nome – spiegava dettagliatamente Alliata – deriva dall’affinità con uno strumento che si usò nei tempi più remoti per colpire i delfini, descrittoci anche da Omero. E’ di acciaio, lunga venti centimetri ed ha alle sue estremità quattro alette a cerniera che formano un tutt’uno: le due prime più corte, le seconde più lunghe; si chiudono completamente al momento in cui la zaffinera penetra nelle carni del pesce e, per contrario, di colpo si aprono ad ombrello quando questi, ferito, si dibatte. In tal modo si rende impossibile la fuoriuscita della punta che, con le alette aperte, oppone una fierissima resistenza…”

Nella fotografia di Quintilio Di Napoli, il pesce appena arpionato è stato issato sulla felùa per essere pesato
 e portato a terra: una fetta circolare intorno al punto in cui è stato colpito tocca al lanzatore
Nel suo racconto, Alliata distingueva anche le differenza nella caccia al pescespada fra Sicilia e Calabria. “L’equipaggio è composto da un altro uomo, oltre i sei del luntro. E’ questi la vedetta a distanza che segnala per primo la presenza del pescespada. In Calabria, dove altissime scogliere a picco sul mare costituiscono un osservatorio ideale per un vasto specchio di acqua, la vedetta vi si pone in cima e, quando avvista il pesce, lo segnala con lunghe grida e con l’agitare una banderuola bianca, l’”ammattu”. Nello stretto di Messina, invece, non essendoci rocce sul mare, la vedetta si piazza in cima ad una altissima antenna di 20-25 metri posta su una imbarcazione speciale, la “felùa”… Da questa altezza, il pescespada si osserva con chiarezza, perché il suo colore argenteo dà, sotto i raggi del sole, rapidi riflessi e bagliori”.      
Quest’ultima vivida indicazione regala alla pesca del pescespada descritta da Francesco Alliata quel carattere quasi epico presente in tante pagine di letteratura dedicate al rapporto fra pesce e pescatore; e l’epilogo della caccia esalta questo carattere.

Una cartina dell'area di pesca, lungo le coste di Sicilia e Calabria, rispettivamente tra la riviera Paradiso e Punta Faro e Bagnara e Scilla
“Il pescespada, che naturalmente ha tentato di sottrarsi al noioso inseguitore aumentando di velocità o variando il suo percorso ( può anche di dirigersi verso il fondo e, in questo caso, sfugge agevolmente ) è ora a breve distanza dal luntro. Il faleroto annuncia al lanzatore, ‘incìmiti l’asta!!’, e questi si tiene in posizione di pronto: una gamba protesa in avanti sulla punta estrema del luntro, l’asta inclinata verso il basso sostenuta con il braccio sinistro, mentre la mano destra, poggiata sulla sua estremità posteriore, la tiene pronta per la spinta finale. Il faleroto lancia un ultimo urlo, ed è il più concitato di tutti, ‘’a punta ‘u ferru, est’ ( hai il pesce a tiro in direzione dell’asta ) e lo ripete con sovrumana agitazione. Il lanzatore lo avvista subito, dà la direzione solo muovendo l’asta: egli la tiene sempre puntata in direzione del pesce, in modo che i rematori, osservandola, mutino la direzione del luntro. Egli osserva attentamente ogni movimento, al fine di prevedere il più favorevole e cerca di avvicinarsi il più possibile. Quindi prende di mira la testa, che è il punto che può uccidere di colpo il pesce ed evitare il pericolo di perderlo. Quando ritiene giunto il momento, solleva in alto la punta della zaffinera distendendo il braccio sinistro, inarca la schiena gettando le spalle indietro e, mentre tutti si fermano ed i rematori danno stabilità alla barca con i remi, lancia il suo colpo… Se il pesce è colpito, il lanzatore lancia un grido di ringraziamento, ‘San Marcu binirittu!’”.

Una recente fotografia di Francesco Alliata di Villafranca. A lui, nel secondo dopo guerra, si deve la fondazione della Panarìa Film, la casa di produzione che realizzò i primi documentari marini e subacquei in Sicilia
Lo spada colpito tenterà un’inutile fuga nelle profondità del mare, tirandosi dietro per miglia e miglia il luntro. Quando si poserà sul fondo – quasi in un atto di sacra pietà – uno dell’equipaggio segnerà una croce con le dita della mano aperte, su un lato della testa, vicino alla bocca. Il pesce viene issato sulla felùa, dove viene pulito e pesato, una fetta circolare intorno al punto in cui il ferro ha colpito toccherà al lanzatore.
Già qualche anno dopo – nel 1956 – la pesca al pescespada fra Sicilia e Calabria sarà sempre più sporadicamente affidata ai personaggi ed alle attrezzature descritte da Alliata.
I figli dei faleroti e dei lanzatori – un tempo abili nel seguire l’esempio paterno, giocando a colpire piccoli cefali di riva con astine rotte di parapioggia – impareranno altri mestieri. Molti di loro lasceranno lo Stretto di Messina ed i pochi pescespada superstiti, cercando fortuna in città e fabbriche, in luoghi dove non esisteva neppure il mare.
  

martedì 20 marzo 2012

SIRACUSA, RICORDO DEI CORDARI

La fotografia di Ezio Quiresi, pubblicata sul volume 'Sicilia' edito dal TCI nel 1960, fissa la figura di uno degli ultimi giovani discendenti degli artigiani siracusani che lavoravano all'interno della Grotta dei Cordari.
La didascalia che accompagna lo scatto così descrive l'ambientazione dell'ambiente sotterraneo: "In questa dantesca cavità, da secoli due famiglie conservano il diritto di fabbricarvi, con l'antico metodo, le corde.
Il più giovane di questa schiatta, che girando la ruota canta canzoni le quali ripetute lentamente assumono il ritmo di antiche melopee, ed andando incontro ai visitatori, dona spesso loro un ramoscello di capelvenere, che cresce abbondante tra i muschi negli anfratti delle pareti".
Ci sono molti luoghi della Sicilia che raccontano storie e tradizioni testimoniate oggi semplicemente dalla loro denominazione.
E’ il caso della Grotta dei Cordari, a Siracusa: un luogo che evoca un’attività artigiana scomparsa da decenni, e non più materialmente accessibile dal novembre del 1984. Inquinamento atmosferico, infiltrazioni di acqua e le vibrazioni provocate dal traffico urbano costrinsero allora alla chiusura al pubblico dell’ambiente sotterraneo, ubicato nel complesso della latomia del Paradiso.

Una fotografia della Grotta siracusana di Josip Ciganovic risalente agli anni Cinquanta dello scorso secolo.
All'interno della cava di pietra tufacea di età greca le condizioni di umidità permettevano la lavorazione di corde di canapa,
 resistenti ed elastiche.
L'avvento del nylon fece tramontare l'attività artigiana; nel 1984, il degrado strutturale della Grotta determinò la sua chiusura al pubblico.
L’attività dei cordari all’interno della grotta – una cava di pietra tufacea di età greca - risale al secolo XVIII. A causa del grado di umidità presente nell’ambiente , la fabbricazione delle corde di canapa ne garantiva eccellenti doti di elasticità e resistenza: le funi si impregnavano e si asciugavano proprio grazie alle ottimali condizioni del clima sotterraneo.
Il desiderio di dedicare questo post alla Grotta dei Cordari è nato dalla lettura di una didascalia a commento di una fotografia di Ezio Quiresi pubblicata sul volume ‘Sicilia’ del Touring Club Italiano nel 1960.

Un cordaro al lavoro all'interno della Grotta siracusana.
L'arte della lavorazione della canapa viene attribuita al periodo in cui la città fu una delle principali colonie greche di Sicilia, grazie anche alla potenza della sua flotta navale.
Le imbarcazioni utilizzavano cime costruite appunto da abili cordari locali. 
Anche questo scatto riproposto da ReportageSicilia è opera di Ezio Quiresi
Quell’immagine oggi riproposta da ReportageSicilia mostra uno degli ultimi cordari siracusani, ancora in giovanissima età. L’estensore della didascalia – riportata nella fotografia d’apertura di questo post – descrive con toni pastorali pezzi di storia e di tradizioni della Grotta siracusana, i cui echi reali sono ormai persi da decenni.

Un'ultima fotografia della Grotta dei Cordari, pubblicata nel volume 'Sicilia' di Aldo Pecora, edita da UTET nel 1974.
L'obiettivo di Ciganovic coglie una visione d'insieme della cavità siracusana




domenica 18 marzo 2012

LE 'VAMPE' BAGHERESI DI SAN GIUSEPPE

Un gruppo di uomini, donne e bambini assiste al rogo di una 'vampa' di San Giuseppe in uno slargo del centro storico di Bagheria: è la vigilia del 19 marzo del 1977, e la fotografia di Paolo Di Salvo fissa un rito insieme devozionale e pagano, legato all'arrivo della primavera e dei frutti di una nuova stagione di prosperità  
ReportageSicilia è lo specchio di una passione personale per la scrittura di storie siciliane. Di tanto in tanto, l’infinità vastità dello strumento virtuale che lo tiene in vita riserva la piacevole scoperta di un atto di gradimento, di un’attenzione verso quelle storie scritte ed illustrate grazie alla tastiera di un computer.
In qualche caso poi – come nel caso di questo post – succede che l’autore di alcune fotografie apparse di recente sul blog dimostri un’attenzione preziosa, offrendo la disponibilità di nuovo materiale da offrire a chi si imbatta in ReportageSicilia.
Così, è successo che Paolo Di Salvo – l’autore delle fotografie dedicate alla bottega di Onofrio Ducato, immagini oggetto di un recente post – abbia deciso di recuperare dal suo archivio personale altri bellissimi scatti, e di offrirli alla pubblicazione nel blog.
Le fotografie - realizzate da Di Salvo nella natìa Bagheria nel 1977 - arrivano tempestive rispetto al calendario; documentano infatti ‘le vampe di San Giuseppe’ accese la notte del 19 marzo di 35 anni fa.

Il luogo della più imponente 'vampa' realizzata a Bagheria  nei decenni passati: l'arco, detto della Santissima Trinità, di accesso al viale ( oggi via Palagonia) che conduce alla 'villa dei mostri',
uno dei più noti simboli architettonici bagheresi
Nell’isola, la tradizione delle ‘vampe’ è legata a diverse ricorrenze, oltre a quelle di San Giuseppe; legname, paglia, avanzi di potatura, vecchio mobilio o addirittura fantocci sino a qualche anno fa venivano bruciati nei quartieri popolari anche alla vigilia della festa di Santa Lucia, Sant’Antonio Abate, San Giovanni, oltre che per le feste di Natale, Capodanno, Martedi Grasso, Venerdi Santo, dell’Ascensione e dell’Assunzione.
Questi roghi – come ha scritto Ignazio E. Buttitta nel saggio ‘Le fiamme dei santi – Usi rituali del fuoco in Sicilia’ edito da Meltemi – segnano il “perenne ripetersi di atti e gesti millenari con i quali l’uomo si rapporta al sacro, tributando onori ad una realtà trascendente da cui sente dipendere il proprio benessere fisico e materiale, la sua stessa esistenza”.

Una bancarella con decoro devozionale per la vendita di 'calia e simìanza', immancabile presenza - ancora ai nostri giorni, soprattutto nei quartieri popolari - in tutte le principali feste religiose nella Sicilia: l'immagine fa parte del reportage realizzato 35 anni fa da Paolo Di Salvo a Bagheria
 in occasione del rogo delle 'vampe' di San Giuseppe  
  
In relazione alle ‘vampe’ di Bagheria, poi, lo stesso Paolo Di Salvo aggiunge che “questi roghi mostrano la devozione dei bagheresi nei confronti del patrono San Giuseppe. La consuetudine di fare ardere nelle diverse strade del paese queste cataste di legna e vecchio mobilio era molto diffusa e costituiva occasione di sfida tra i vari quartieri che, con la partecipazione di grandi e piccini, cercavano di allestirne la più imponente.

Lo scatto di Di Salvo fissa la figura della 'za Nunzia', con in mano un'immagine di San Giuseppe ricevuta dal 'comitatu ra festa' come compenso per un'offerta da lei versata.
Le feste religiose, nella cultura popolare siciliana, costituivano uno dei momenti di aggregrazione e di identificazione dei singoli nella comunità locale che promuoveva l'evento devozionale. 
È stato scritto che la ricorrenza del 19 marzo, coincidendo con la fine dell'inverno, presenta nelle vampe elementi che richiamano riti ancestrali e pagani di purificazione agraria connessi all'arrivo della primavera”.
Così, nelle ‘vampe’ bagheresi di San Giuseppe fotografate nottetempo da Di Salvo 35 anni fa, le fiamme finiscono col rappresentare quasi un anelito di aspettativa e di speranza per un futuro di prosperità, atteso da un’intera comunità.

Una 'vampa' familiare appiccata fra le mura diroccate di alcuni edifici che raccontano la vita di una povera famiglia bagherese; il chiarore del rogo disegna il profilo di un carretto, uno dei pochi beni essenziali che in quegli anni arricchivano il patrimonio di braccianti e contadini.
Per queste famiglie, i riti religiosi costituivano insieme momento di devozione e, attraverso la partecipazione al rito popolare - in questo caso, attraverso una 'vampa' - anche occasione di equiparazione sociale.














domenica 11 marzo 2012

VIZZINI, LA PROSPETTIVA DI PATELLANI

Chissà quante fotografie della Sicilia raccontata da grandi e meno noti fotografi vengono dimenticate con il passare dei decenni.
E' il caso di questo scatto di Federico Patellani, fotoreporter lombardo ( Monza 1911 - Milano 1977 ) che negli anni successivi al secondo conflitto mondiale incluse la Sicilia fra le regioni da raccontare nel periodo di grandi cambiamenti economici, del costume e del paesaggio dell'Italia.   
In questa immagine, il fotografo famoso anche per le sue copertine dei periodici 'Tempo', 'Epoca' e 'La Domenica del Corriere', fissa
 uno scorcio del centro storico di Vizzini.
ReportageSicilia ha tratto l'opera dal volume 'Sicilia' del TCI ( Milano 1961 ).
Lo scatto di Patellani - ricordato anche per alcune immagini realizzate nel centro storico di Palermo e fra i capi dei movimenti indipendentisti del dopoguerra - offre un gioco di prospettive architettoniche esaltate da un punto di ripresa sopraelevato: rimane però prevalente l'attenzione del fotografo lombardo per la presenza dell'uomo al centro dell'immagine.

giovedì 8 marzo 2012

PANAREA, L'ARIA DEL CONTINENTE

Pescatore a Panarea in una fotografia scattata da Pedone alla fine degli anni Cinquanta dello scorso secolo.
L'immagine - pubblicata nel II volume di 'Sicilia' collana Tuttitalia edita da Sansoni nel 1961 - venne realizzata nel periodo in cui l'isola delle Eolie era già diventata una colonia di turisti e residenti provenienti dalle grandi città industriali dell'Italia: Roma, Torino, Milano...

“Non c’è luce elettrica, non c’è acqua se non di cisterna, e calda, ahimè, come quando ci si succhia il sangue da una ferita. Pure è, questa isola, meravigliosa, che unisce la fantasia nordica al calore abbagliato del Sud: la Grunewald e la Grecia. Il senso di un mondo che nasce aguzzo e stillante dall’acqua, parato di colori come solo sanno portarne i fiori che sbiadiscono subito, le ali delle farfalle, le viscere palpitanti d’una bestia appena sventrata… Per chi si pasce della volgarità della Costa Azzurra, quest’isola selvaggia turberà non meno del maremoto, sempre da attendersi, dalla fantasia dello Stromboli…”.

L'obiettivo di Josep Ciganovic fissa un gruppo di case in località Ditella, sulla costa orientale dell'isola.
Gran parte di questi edifici furono abbandonati dai vecchi abitanti di Panarea - immigrati senza ritorno verso Australia e Stati Uniti - e rivenduti ai ricchi turisti 'continentali' da mediatori locali o proprietari di singole parti
 degli immobili.
La fotografia è tratta dal volume di Aldo Pecora  'Sicilia',
 edito da Utet nel 1976 
Era il 1950 quando lo storico dell’arte Cesare Brandi così scrisse di Panarea, allora ancora selvaggia e poco conosciuta isola delle Eolie, rivelandone quel carattere unico che di lì a qualche anno l’avrebbe consegnata – quasi come una predestinazione - a nuovi coloni arrivati dal Nord: romani, torinesi e milanesi di un’Italia dove il progresso stava rapidamente cancellando in nome della crescita economica il culto stesso dei luoghi del Mito.
Agli inizi degli anni Cinquanta, le isole Eolie – isole ‘mitologiche’ per millenaria eccellenza – proprio in nome della ricerca di quel progresso si stavano invece svuotando dei figli dei vecchi pescatori ed agricoltori dell’arcipelago.

Un'anziana donna alle prese con una filatura a mano. Alle sue spalle, sulla parete imbiancata a calce tipica dell'architettura delle Eolie, si nota un forno aggettante verso l'esterno della casa.
Anche questa fotografia porta la firma di Ciganovic ed è pubblicata sul volume 'Sicilia' edito da Sansoni
Le epidemie di filossera dei decenni passati avevano cancellato gran parte dei vigneti; e la crisi dell’industria dell’allume e dello zolfo aveva ridotto ancor più le possibilità di occupazione.

Uno scatto di Panarea a colori realizzato da Piero Di Blasi e pubblicato nel maggio del 1956 dalla rivista mensile del Touring Club Italiano
 'le Vie d'Italia'.
La didascalia che accompagnava l'immagine indicava questo scorcio dell'isola come la 'via dei capperi': sono gli anni della scoperta delle isole Eolie, grazie al successo internazionale dei film 'Vulcano' e
'Stromboli, terra di Dio'.
Nel 1959, la stessa Panarea ospiterà le riprese del film 'L'avventura', diretto da Michelangelo Antonioni: la pellicola attirò nell'isola facoltosi personaggi italiani ed internazionali del mondo della cultura, dell'imprenditoria e dello spettacolo
Anche a Panarea, parecchie decine di uomini e donne scelsero allora di salpare dall’isola per navigare verso terre ed oceani lontanissimi, sino all’Australia ed agli Stati Uniti, abbandonando le loro case ed i loro terreni. Fu allora che Panarea – persi i suoi nativi – cominciò a diventare il luogo prediletto dagli italiani del jet set del tempo, attratti dalla sua primordiale ed isolata bellezza, destinata a diventare - di lì a poco - esclusiva.

All'interno di una casa di Panarea - in un altro scatto di Piero Di Blasi - compaiono gli oggetti che testimoniano l'arrivo dei nuovi residenti venuti dalla moderna civilità industriale italiana.
Sedie in acciaio e tela e stoviglie e piatti in plastica impongono nuovi standard di funzionalità, relegando nassa, vecchie lanterne ed un grappolo di pomodori a puro elemento di decorazione
Già nel 1960, durante un reportage nelle Eolie, Gino Visentini sottolineava che “Panarea è adesso l’isola dei ricchi milanesi e la sua costa orientale, dov’è distribuito l’abitato, ha assunto una fisionomia ibrida, molto diversa da quella che fino a ieri era la sua”. Fu l’industria del cinema, in primo luogo, ad instillare a partire dal 1949 il cambiamento: il successo internazionale di ‘Vulcano’ di William Dieterle – con Anna Magnani, Geraldine Brooks e Rossano Brazzi – e ‘Stromboli, terra di Dio’ di Roberto Rossellini, con Ingrid Bergman e Mario Vitale – fece scoprire in tutta Europa il fascino primordiale dell’arcipelago.
Se nel 1952 vi si registrò l’arrivo di circa 500 turisti, nel 1957 il loro numero arrivò ad oltre 40.000, su una popolazione complessiva di 15.000 residenti.
La notorietà di Panarea, sarebbe arrivata con la terza pellicola girata in quelle acque del Tirreno nel 1959, da Michelangelo Antonioni: ‘L’avventura’, interpretato da Gabriele Ferzetti, Monica Vitti e Lea Massari, pellicola presentata al pubblico di Cannes.

La locandina del film 'L'avventura', girato nel 1959 da Michelangelo Antonioni a Panarea.
Nel cast figurarono Gabriele Ferzetti, Monica Vitti, Lea Massari, Lelio Luttazzi e - fra gli altri - Esmeralda Ruspoli.
Quest'ultima decise di acquistare casa nell'isola, contribuendo ad alimentare le frequentazioni locali del jet-set del tempo. Fra gli altri personaggi noti che in quel periodo sbarcarono stabilmente a Panarea si ricorda l'architetto Paolo Tilche, che costruì una casa poi diventata uno fra i più blasonati alberghi dell'isola   

Al termine della produzione – portata avanti in condizioni di tempo e di mare spesso proibitive - l’attrice e nobildonna romana Esmeralda Ruspoli decise di acquistare una casa nell’isola; di lì a poco Panarea divenne il punto di riferimento per altri personaggi dello spettacolo e dell’imprenditoria ‘continentale’. Case e terreni abbandonati dagli isolani migrati in continenti lontani furono arbitrariamente venduti ai nuovi arrivati per poche migliaia di lire e – per dirla con un’espressione promossa qualche tempo fa da un ex ministro – “a loro insaputa” dell’arbitrio.
Il patrimonio terriero ed immobiliare delle Eolie, in quegli anni, fu per lo più gestito con lucro da intermediari ed eredi di limitate frazioni di proprietà. Ci fu poi chi a Panarea costruì ex novo: uno di loro – l’architetto Paolo Tilche, in coppia con Myriam Beltrami – avrebbe segnato le vicende dell’isola.
La loro casa – aperta a decine di ospiti provenienti da tutta Italia, destinati ad ampliare il giro dei nuovi coloni - sarebbe in seguito diventata un albergo di grido.

Un altro scatto di Piero Di Blasi scopre il paesaggio di Panarea nel 1956, con il suo straordinario intreccio di bellezze ambientali - qui con Stromboli all'orizzonte - e con i segni di una cultura materiale isolana
 destinata presto a scomparire  
Oggi Panarea http://www.panarea.com/ riesce ancora ad essere l’isola meravigliosa descritta da Brandi, ma da qualche decennio le frequentazioni si sono appiattite sui vecchi clichè della Costa Azzurra degli anni Cinquanta e Sessanta, con un prevalente contesto estivo di vip dello spettacolo, politici, imprenditori, palazzinari ed aspiranti aderenti al mondo del jet set contemporaneo.
Pochi di loro, probabilmente, hanno mai visto il film di Antonioni, e nessuno immagina neppure lo stupore che Panarea riservò al viaggiatore del Touring Club Italiano che così ne scrisse nel 1919: “vi sorgono casette; fra le rocce e le piante, di quando in quando, appare il mare, con le sue superbe colorazioni, con le isole e gli scogli circostanti, strani e pittoreschi; talchè, ad ogni passo, si presentano scene interessanti, ora selvagge, ora deliziose: pare di essere in un incantevole paese primitivo…”

L'ultima fotografia di questo post dedicato da REPORTAGESICILIA a Panarea mostra l'assoluta bellezza di cala Juncu, in una pioneristica immagine di Eugenio Interguglielmi.
Lo scatto risale ai primi anni dello scorso secolo, quando le isole Eolie erano ancora oggetto di viaggi avventurosi e di descrizioni come quella pubblicata nel 1919 nella guida rossa del TCI della Sicilia





domenica 4 marzo 2012

ORETO, IL FIUME CHE NON C'E'

Un tratto del fiume Oreto in una fotografia scattata agli inizi dello scorso secolo da Eugenio Interguglielmi.
L'immagine - una stampa all'albumina da lastra alla gelatina di bromuro d'argento - rimanda ad un passato in cui il corso d'acqua palermitano faceva parte del paesaggio urbano e della vita quotidiana di migliaia di persone.
Decenni di inquinamento incontrollato hanno poi quasi cancellato la percezione fisica e la stessa naturale fruizione del fiume. 
La fotografia riproposta da REPORTAGESICILIA è tratta dall'opera 'Fotografi e fotografie a Palermo nell'Ottocento', edito da Alinari ed a cura di Michele Falzone del Barbarò e Monica Maffioli 

Difficile scrivere di un fiume esistente nella realtà fisica del suo territorio, eppure così assente dalla percezione che gli abitanti hanno della sua stessa esistenza; accade a Palermo – città dove il vivere quotidiano si ammanta spesso della logica dell’assurdo – con il fiume Oreto.
Da molti decenni, il corso d’acqua che per meno di 20 chilometri scorre dalle colline della ex Conca d’Oro verso la costa tirrenica di Sant’Erasmo, attraversando i quartieri urbani orientali, è un elemento paesaggistico estraneo alla coscienza del cittadino palermitano.
L’Oreto si snoda invisibile su un letto nascosto da canneti e si scopre soprattutto dai ponti che ne scavalcano il corso verso il mare, inquinato ed imbruttito da rifiuti di ogni sorta. Soffocato dagli scarichi fognari abusivi e dai reflui di scarto di aziende industriali ed agricoli, il fiume di Palermo non è stato neppure un riferimento per cartoline turistiche, opere letterarie o artistiche prodotte in città ( ad eccezione dei riferimenti allegorici e mitologici presenti nei marmi nella cinquecentesca fontana di piazza Pretoria ).
Periodicamente, le autorità comunali, qualche istituto universitario di ricerca scientifica od un'associazione naturalista rilanciano i propositi di una “riqualificazione ambientale” dell’Oreto, favoleggiando l’istituzione di una riserva o la creazione di un parco fluviale. Le buone intenzioni sono rimaste tali almeno dal 1957, quando Giuseppe Caronia, a proposito della stesura del nuovo piano regolatore di Palermo sottolineò “un episodio che ritengo di estremo interesse nella distribuzione del verde nel nuovo piano: la creazione di un grande parco sulle rive dell’Oreto, che risulterebbe ricco di accidentalità naturali estremamente suggestive”.

La pianta di Palermo edita nel 1885 da Vallardi nell'opera 'Atlante Geografico d'Italia' mostra con nettezza ad Est della città il corso del fiume Oreto, sino allo sbocco sulla costa della borgata di Sant'Erasmo.
Ai nostri giorni, la presenza del fiume - ridotto nella stagione estiva ad un rivo maleodorante - è quasi cancellata dalla coscienza dei palermitani, di tanto in tanto ridestata dalle notizie di mai realizzati piani di recupero dell'ambiente fluviale
Di fatto, le uniche suggestioni offerte oggi dal corso d’acqua che sino a qualche secolo fa era ancora in parte navigabile, sono quelle del suo completo degrado ambientale. L’abbandono e gli squarci di miracolosa vita naturale ancora presenti nel fiume sono stati di recente raccontati da Igor D’India, giovane filmaker palermitano, nel documentario ‘Urban adventure’ http://www.igordindia.it/ie/index.php
Come spiega l’autore – che ha percorso a ritroso il letto dell’Oreto, sfidando l’inquinamento e giganteschi topi - il corso d’acqua ospita ogni sorta di rifiuto, “compresi carcasse d’auto e copertoni con i quali si potrebbe creare un museo, perché sono pezzi d’epoca, ma anche mobili, veicoli ed elettrodomestici”. Triste e fino ad oggi immodificabile sorte, quella del fiume di Palermo, e che potrà forse mutare quando e se la città avrà ritrovato la coscienza collettiva della sua esistenza.