martedì 29 dicembre 2015

UNO SCATTO DI ANTICA SUGGESTIONE CEFALUDESE

Il paesaggio e la presenza umana a Cefalù in una fotografia che ricorda lo straordinario e passato scenario di una cittadina sospesa fra ricordi della storia e suggestioni delle leggende



Ancor oggi, a chi viene da Palermo, Cefalù non svela immediatamente l'inconfondibile profilo della sua rocca e della sua cortina di case affacciate sul mare.
Per ammirarne il secolare volto di città raggomitolata ai piedi della montagna è necessario scoprire la proliferazione della moderna edilizia delle "seconde case", attaccate l'una all'altra come in un'anonima città.
La fotografia riproposta da ReportageSicilia rimanda ad una Cefalù in cui gli uomini non ne avevano ancora compromesso l'antica ambientazione naturale ed lo straordinario aspetto urbanistico.
L'immagine svela un luogo in cui rocca, cielo, mare e centro abitato si integrano in un perfetto equilibrio di ruoli: uno spettacolo perduto per sempre e neppure immaginabile per le comitive di turisti che oggi invadono Cefalù e la sua spiaggia.
La trasfigurazione ebbe inizio agli inizi degli anni Sessanta, quando il comune rilasciò decine di licenze edilizie che portarono alla distruzione di vaste aree di macchia mediterranea e di una necropoli del IV secolo ( la cui esistenza è testimoniata da alcuni reperti conservati al Museo Madralisca ).



L'immagine del post, tratta dal volume "Sicilia" dell'Enciclopedia delle Regioni Meravigliosa Italia, Edizioni Aristea ( 1971 ), risale più o meno al periodo in cui il giornalista Corrado Sofia - nel 1962 - poteva ancora scrivere di Cefalù:

"Fino a qualche anno addietro, prima che l'ondata di modernismo spazzasse via le vecchie tradizioni, si potevano sentire da queste parti, lungo il mare o nelle strade dell'interno, canzoni come questa:

'di 'na finestra s'affacciau la luna, e 'nta lu mienzu la stidda Diana, su' tanti li splenduri ca mi duna, lampu mi parsi di la tramontana.
C'è lu Gaitu, ca gran pena mi duna, voli arrinunzi a la fidi cristiana.
Nun vi pigghiati dubbiu patruna, l'amanti ca v'amau, v'assisti e v'ama'

dove la luna sta a significare donna.
Una donna bella come una stella, un'apparizione folgorante.
'Lampu mi parsi di la tramuntana'
Dice dunque la canzone:

'Si affacciò una donna bella come la stella Diana e mi avvertì che il Kaid, il capo degli Arabi, pretendeva che essa rinunziasse alla fede cristiana.
L'amante la conforta, non abbiate timori, mia signora.
Il vostro antico amore vi rimane fedele, vi assiste e vi ama'




Sembra a ReportageSicilia che questa fotografia di Cefalù - per la solarità del paesaggio e per l'arcaico lavoro sulla spiaggia di uomini e asini -  sia evocativa della millenaria storia della cittadina, nel 1962 assai più percepibile rispetto ad presente stravolto dal cemento e dai pullmann delle migliaia di turisti giornalieri.
In quel periodo, ancora Corrado Sofia poteva così rievocare le vicende e le leggende cefaludesi:

"Nella piazza di Cefalù, dove sorge la cattedrale, un tempo esisteva una moschea.
Durante gli scavi effettuati agli inizi del secolo per la pavimentazione stradale, scavi che i viventi ricordano e di cui nel locale museo si conservano alcune stele funerarie, vennero trovati i resti di un cimitero arabo.
Si sa che i Musulmani, quelli almeno di una certa casta, venivano sepolti attorno alla moschea.
Il che, se da una parte sminuisce o mette in dubbio la leggenda della tempesta e dell'ex voto di Ruggero II per la costruzione della cattedrale, dall'altra avvalora la regolare sostituzione che intorno all'anno Mille venne iniziata: chiese cristiane in luogo dei templi arabi.
Ruggero aveva scelto Cefalù per essere qui sepolto, il posto gli piaceva, il rumore del mare avrebbe cullato i suoi sonni eterni come in un poema dantesco; ma come in una tragedia di Shakespeare la sua tomba di porfido e quella dell'imperatrice Costanza conm uno stratagemma furono invece trasportate nella cattedrale di Palermo, dove tuttora riposano..."












venerdì 25 dicembre 2015

L'ISOLA SCOPERTA NEI COLORI DI GIANBECCHINA

L'impronta  siciliana nell'opera del pittore di Sambuca in un testo     pubblicato nel catalogo "Gianbecchina nella sua terra: un inno alla pace", edito da Publisicula nel 1984


"Pane e coltello", 1951, olio su faesite,
opera citata

"Materia della mia pittura è la terra siciliana nella quale respiro quando vago tra i campi biondi di messi o tra le distese viola di sulla, oppure riposo all'ombra degli ulivi d'argento o contemplo l'azzurro profondo del cielo e del mare.
In questa terra, io non cerco idillico rifugio ma vado scoprendo la misura e la bellezza della Grecia pagana, la tenacia degli Arabi, l'intraprendenza dei Normanni, l'esuberanza degli Spagnoli, la somma dei caratteri che costituiscono il nostro popolo.
Cerco soprattutto nella fatica quotidiana degli uomini, nello sguardo delle madri, nel sorriso dei bimbi, l'eredità antica della civiltà contadina che va scomparendo sospinta dall'incalzare della macchina; ma i cui valori, come si sono salvati tra infinite sofferenze e invasioni e trasformazioni, possono ancora salvarsi, possono ancora trasmettersi, insegnando la pacifica convivenza degli uomini, l'amore della terra che, scaldata dal sole e mossa dal lavoro, alimenta la vita.
Questa saggezza di una civiltà millenaria è la materia del mio canto.
A questa terra che soffre e vive al volgere di ogni stagione appartengono i miei colori"


"La mia terra", 1940, olio su tela,
opera citata

Questa breve autobiografia artistica porta la firma di Gianbecchina - all'anagrafe, Giovanni Becchina ( Sambuca di Sicilia, 1909 - Palermo, 2001 ) - e spiega meglio di ogni analisi critica la pittura di un artista profondamente legato alla Sicilia
L'illustrazione dei motivi dell'opera di Gianbecchina - ispirati dal mondo contadino, dalle sue attività e dai suoi valori messi sempre più a rischio dall'abbandono della civiltà agricola - è tratta dal catalogo "Gianbecchina nella sua terra: un inno alla pace", edito da Publisicula.
L'opera venne pubblicata dal Comune di Sambuca di Sicilia in occasione di una mostra allestita fra l'agosto ed il settembre del 1984 all'interno dell'ex monastero di Santa Caterina.


"Uomini", 1970, olio su tela,
opera citata

La storia pittorica di Gianbecchina è profondamente legata a quella della sua isola, anche in quegli aspetti di natura privata che sempre influiscono sulla formazione delle persone comuni e degli artisti.
Tutto comincia agli inizi del XX secolo, con una delle migliaia vicende di emigrazione siciliana:

"I genitori partono per l'America nel 1912" - scriveva Franco Grasso nel catalogo di quella mostra - "e lasciano a Sambuca Zabut - il paese nativo nella vallata del Belice - il bambino di soli tre anni, affidato a uno zio che curerà la sua prima istruzione e tenterà di avviarlo alla professione di perito agronomo, l'unica allora possibile in un centro agricolo dell'interno.
Ma la pittura esercitava già su di lui un fascino determinante, da quando una pittrice dilettante gli aveva mostrato, a otto anni, la prima tavolozza e i primi tubetti.


"Morello di Pasquale", 1970, olio su tela
opera citata

Passava intere giornate a contemplare i decoratori di soffitti che lavoravano in paese, finché uno di questi, Gaetano Grippi, non lo assunse come garzone: fu il suo primo maestro, gl'insegnò a mescolare i colori, ad eseguire gli ornati, a dipingere falsi stucchi e riquadri con fiori e uccelli.
Poi cominciò a lavorare in proprio, a sperimentare l'affresco su pareti di case e di chiese.
Ma si accorse che l'istinto e la buona volontà non bastano a fare il pittore: coi primi risparmi partì per Palermo, seguendo l'esempio di altri due sambucesi, i pittori Antonio Guarino e Alfonso Amorelli.
Si sistemò in una stanza della vecchia via Alloro e si iscrisse alla Scuola libera del nudo nell'Accademia di belle arti, che gli consentiva di apprendere la tecnica fondamentale del disegno e della pittura.
Teneva quella cattedra Archimede Campini, scultore di profonda sensibilità e cultura che dopo una breve fortuna a Parigi era venuto in Sicilia chiudendosi in un triste pessimismo che però non gli impediva di scoprire ed aiutare il talento dove c'era.
Fu lui a spronare agli studi per la maturità artistica il giovane, che lavorò da solo e fu l'unico nel 1933 a conseguire il diploma fra trenta candidati. 
Ventenne, con lo spirito d'avventura dei siciliani più intraprendenti, partì per Roma senza una lira e si iscrisse a quella Accademia delle Belle Arti frequentandola dal 1934 al 1935 sotto la guida di Umberto Coromaldi.
Fu lì che conobbe Pippo Rizzo il quale, apprezzando le sue qualità e vedendo le ristrettezze in cui viveva, lo indusse a concorrere ad una borsa di studio messa in palio dall'Accademia di Palermo: la vinse e potè continuare senza preoccupazioni.
Era l'epoca del sodalizio tra Guttuso, Barbera, Lia Pasqualino Noto e Nino Franchina; frequentava anche lui le riunioni che si tenevano nello studio di corso Pisani e poi in casa dei Pasqualino, con Topazia Alliata, Arturo Massolo, artisti, musicisti, giornalisti, un cenacolo anticonformista, aperto al nuovo.
Con Guttuso specialmente, che vedeva spesso a Bagheria, condivideva le idee antifasciste, il bisogno di evasione verso orizzonti più larghi.


"Zolfo", 1952, olio su faesite,
opera citata

Nella primavera ed estate del 1937 affittò, insieme al giovane studioso d'arte Beppe sala, una casetta di pescatori a Cefalù e visse per sei mesi tra mare e campagna dipingendo all'aperto, soprattutto acquarelli.
Il ricordo di questo soggiorno è rimasto in un libro dell'amico, 'Sodalizio a Cefalù', illustrato da Gianbecchina.
Poche opere rimangono di questo periodo giovanile, ma già rivelatrici della scelta dell'artista: una interpretazione amorosa ma libera della natura siciliana, degli uomini che in essa vivono immersi nella sua atmosfera, alcuni acquarelli limpidi e canori, paesaggi ad olio concepiti come distese i cui elementi morfologici giocano in funzione pittorica, fuori dai canoni accademici e dal quattrocentismo di maniera raccomandato dai fautori del 'Novecento' ufficiale che andava penetrando allora in Sicilia.
Niente Sironi e niente Carrà, Van Gogh e Cézanne semmai..."

Le opere di Gianbecchina riproposte nel post da ReportageSicilia sono tratte dallo stesso catalogo e indicano la sua naturale capacità di rendere l'atmosfera dei paesaggi, ricchi di figure ed eventi legati alla vita ed al lavoro della campagna dell'isola.
Osservandole, si avverte nel pittore di Sambuca - scrisse ancora Aldo Gerbino nel 1984"la necessità di ripercorre con lirica partecipazione i momenti di una cultura del lavoro e di esemplificarne i ritmi nelle grandi partiture cromatiche e nei volti segnati di una sicilianità accesa e violenta..."


giovedì 24 dicembre 2015

LA SICILIA FRANCESE DI PIERRE SEBILLEAU

L'appassionata ricerca dei legami storici tra l'isola e il suo Paese nel saggio "La Sicilie" di un diplomatico francese, edito in Italia nel 1968 da Cappelli


"Trasporto in comune a Nicosia",
questa la didascalia della fotografia di M. Bernard Aury
pubblicata nel saggio di Pierre Sébilleau

"La Sicilie", edito in Italia nel 1968 da Cappelli 


Primo segretario dell'ambasciata di Francia a Roma fra il 1946 ed il 1955, Pierre Sébilleau fu un appassionato cultore dell'Italia ( al punto da occuparsi della questione meridionale in "L'Italie des contrastes" ) e, soprattutto, viaggiatore attento della Sicilia.
All'isola il diplomatico francese dedicò infatti il saggio "La Sicilie", pubblicato in Francia nel 1966 da Editions Arthaud e tradotto in Italia da Cappelli nel 1968.
L'opera si legge ancor oggi con il gusto della scoperta di numerose notazioni sulla vita e sul costume della Sicilia e dei suoi abitanti, ben oltre le scontate descrizioni di Palermo, Catania, AgrigentoSiracusa, Taormina o Erice.



Al termine delle 148 pagine del reportage, l'autore potrà così scrivere parole di lucida verità sull'identità siciliana:

"Abituati come vi siete, ormai, ai contrasti siciliani, vi sembrerà del tutto naturale che l'Isola triangolare possa essere luminosa e scura, immensamente ricca e immensamente povera, Paradiso terrestre e paese fra i meno sviluppati d'Europa.
Voi lo vedete adesso come realmente è, terra ad immagine dell'uomo, cioè con pregi e difetti, e in cui l'uomo che è in voi, quale esso sia, ha conosciuto in pieno la gioia di vivere"

Le attenzioni di Sébilleau - viaggiatore girovago e amante delle divagazioni su strade interne e vallate solitarie dell'isola - furono rivolte anche alla ricerca dei legami storici fra la Sicilia e la Francia.



Nel libro sono ad esempio ricorrenti i riferimenti alla guerra del Vespro:

"E' inutile che cerchiate a Palermo tracce sicure dell'occupazione francese.
Tuttavia, se il vostro patriottismo non se ne avrà a male, potrete andare a vedere, in un vecchio cimitero posto a Sud della città, l'austera chiesa di Santo Spirito, sul cui sagrato quella occupazione si concluse nel bagno di sangue dei Vespri Siciliani..."

Pierre Sébilleau invita quindi il lettore francese a viaggiare lungo le tortuose strade della provincia di Enna per raggiungere Sperlinga.
Il pretesto di questa tappa siciliana rimanda ancora una volta ai fatti del 1282:

"Questa misera borgata, infatti, ha meritato il motto che potrete leggere sulle rovine della sua piccola fortezza, sempre che ve la sentiate di scalare la colossale lastra di pietra inclinata in cima alla quale esso è scolpito, 'quod Siculis placuit, sola Sperlinga negavit', quando, cioè, i siciliani si decisero a fare i 'Vespri Siciliani', solo Sperlinga si rifiutò di associarsi alla cacciata dei Francesi e diede, anzi, loro asilo.
Per questo, sembra che sussista qualche traccia della nostra lingua nella parlata locale..."




Quindi il diplomatico francese raggiunge Nicosia, ammirando la sua disposizione scenografica sui fianchi di quattro rupi.
Sébilleau ricorda che durante il medioevo il paese fu ripopolato da immigrati "venuti dall'Italia del Nord e principalmente dal Piemonte".
Da qui, il dubbio di questo attento narratore della Sicilia:
  
"Ci domandiamo, allora, donde può venire il suo nome ellenistico, e anche cipriota, quando sappiamo benissimo che nel periodo della dominazione greca essa si chiamava Herbita.
Non potrebbe trattarsi di una fantasia del suo benefattore, l'imperatore Federico II, sempre lui, la cui memoria e le cui infinite cognizioni sarebbero state colpite dall'aspetto singolarissimo di questa zona?
In realtà, quando, venendo dall'Ovest, salirete verso Nicosia in mezzo a un bosco di pini a ombrello, vi vedrete comparire davanti delle rocce che vi faranno subito pensare alle Meteore di Tessaglia.
Questi pani di zucchero di calcare che sorreggono, l'uno un castello, l'altro una chiesa, sono stati, del resto, la disgrazia della città, precipitando su di essa nel 1757.
Ne deriva che Nicosia è essenzialmente XVIII secolo, con prospetti barocchi un pò ricercati ma piacevoli.
Le frane hanno tuttavia risparmiato la cattedrale, il suo campanile e il portico laterale, che sono gotici.
Davanti a questo insieme gotico circondato da costruzioni rococò, in questa cittadina siciliana che porta un nome greco, dove si usano parole di origine quasi francese, vi sentirete abbastanza lontani dal regno di Demetra e, forse, anche dalla Sicilia, e avrete la fuggevole impressione di essere a casa vostra.
Sarà come una sosta nel vostro viaggio, che, senza dubbio, non vi farà rimpiangere la variante di Nicosia" 


    

mercoledì 16 dicembre 2015

SICILIANDO














"O voi dotti, ben colti Stranieri, che cotanto amate ricercare, ed osservare tutti quegli oggetti, che in genere sa bramare il vostro elevato spirito, intraprendete con animo ilare il viaggio della Sicilia, né più vi spaventi il tragitto tra la favolosa Scilla e Cariddi, né temete gl'incomodi di faticosi cammini...
Venite, o Ammiratori della veneranda antichità, che ben soddisfatto resterà il vostro erudito genio, in osservare la Sicilia tutta sparsa, ed adorna delle più rispettabili vetuste magnificenze, testimonio ben chiaro di sua antica opulenza.
Richiameranno esse alla vostra memoria tutti quei fatti della lontana Storia dai Greci, e dai Latini Scrittori riferiti..."
Ignazio Paternò Castello, principe di Biscari
"Viaggio per tutte le antichità della Sicilia", 1781   

lunedì 14 dicembre 2015

GLI ALTARELLI DI NICOLOSI SCAMPATI ALLA LAVA DELL'ETNA

Un esempio di piccola architettura religiosa e di devozione popolare a Nicolosi, ricorrente scenario delle imprevedibili colate laviche del vulcano
 
I "Tre Altarelli" di Nicolosi, risalenti al 1776.
L'immagine del post è tratta dall'opera di Giuseppe Di Lorenzo
"L'Etna", edita nel 1907
dall'Istituto Italiano D'Arti Grafiche di Bergamo
per la collana "Italia Artistica" 
 
In un recente post, ReportageSicilia ha riproposto la  fotografia di una processione degli abitanti di Bronte al cospetto di un minaccioso fronte lavico dell'Etna spintosi in prossimità del paese http://reportagesicilia.blogspot.it/2015/10/la-processione-dei-brontesi-contro-la.html.
Un'altra testimonianza di questi atti di fede delle comunità etnee è rappresentata dalla costruzione a quasi due chilometri a Nord di Nicolosi dei "Tre Altarelli": un'edicola votiva  a tre  arcate dipinte con le raffigurazioni di Sant'Antonio da Padova, Sant'Antonio Abate e la Madonna delle Grazie, protettori del paese.
La storia di questo monumento religioso - costruito nel 1776 sul luogo in cui l'anno prima la lava si era fermata dinanzi ad una processione - attesta la secolare minaccia costituita per i nicolositi dalle eruzioni del vulcano.
 
 
A dare corpo alla devozione religiosa per i "Tre Altarelli" fu l'insperato epilogo della corsa di un fronte lavico largo tre chilometri, nel maggio del 1886: quando la popolazione era già rassegnata a vederla distrutta, le rocce incandescenti superarono la costruzione senza distruggerla.
La fotografia riproposta da ReportageSicilia mostra questa edicola votiva nel 1892, in occasione di un'eruzione che cancellò ampie zone coltivate alla periferia di Nicolosi.
 
 
L'immagine venne pubblicata nel volume di Giuseppe Di Lorenzo "L'Etna", edito nel 1907 dall'Istituto Italiano D'Arti Grafiche di Bergamo per la collana "Italia Artistica".
Così scriveva Di Lorenzo a proposito di quell'eruzione:     
 
"L'Etna però, per la sua stessa origine e funzione eruttiva, offre ben altri mutamenti, che non siano quelli dovuti al semplice variare delle stagioni.
Non sono ancora scorsi 15 anni da che io lo vidi per la prima volta, nel 1891, e già uno di tali mutamenti è ben visibile nel suo fianco meridionale.
Guardando infatti da Catania quelle falde nevate si scorgono, un po' a sinistra dell'asse mediano e tra 1750 e 2000 metri d'altezza, su quel candore immacolato alcune macchie nere, allineate da Nord a Sud, su cui la neve pare non abbia fatto presa: sono i crateri ancora caldi dell'eruzione del 1892.

 
Il 9 luglio 1892 nella zona su accennata, dopo che v'erano state per tutto il dì innanzi le scosse sismiche premonitorie, crescenti sempre d'intensità, che sogliono precedere le eruzioni, e dopo che dal cratere centrale s'era innalzato il gigantesco pino pliniano, che ne è un sicuro sintomo, si squarciò il fianco dell'Etna con due grandi fratture radiali, sulle quali immediatamente si formarono due serie di bocche, eruttanti le più alte vapor d'acqua e materiali frammentarii e le più basse correnti di lava incadescente, che si diresse verso i castagneti e le vigne di Nicolosi, tutto distruggendo e coprendo sul loro passaggio.
L'attività di questo apparato eruttivo durò, con varie intermittenze, pause e recrudescenze, fino a tutto il dicembre del 1892: il risultato di tutta l'eruzione fu una serie di bocche e di coni craterici di poche decine di metri d'altezza, ed una nera corrente di lava di circa 8 chilometri di lunghezza e 1-2 chilometri di larghezza media.
Nel 1883 e nel 1886 su quella medesima zona v'erano state altre due eruzioni simili, ma d'importanza minore; la seconda delle quali aveva spinto le sue lave fin presso l'abitato di Nicolosi, con grave danno delle campagne e molto spavento degli abitatori..."

 
 
FONTI ON LINE
 

giovedì 10 dicembre 2015

DISEGNI DI SICILIA


ATTILIO RAVAGLIA, litografia ENIT-FS, 1928 circa

mercoledì 9 dicembre 2015

L'INEFFABILE FULGORE DI SUTERA E DELLA SUA ROCCA

Una pagina dello scrittore Matteo Collura guida i viaggiatori alla visita del borgo nisseno raccolto ai piedi dello scenografico Monte San Paolino


La rocca ed il borgo di Sutera
in una fotografia pubblicata nel 1971 dell'opera
"Enciclopedia delle Regioni Meravigliosa Italia-Sicilia",
Edizioni Aristea


Anche qui - nel cuore della provincia nissena, terra del feudo e delle miniere di zolfo - si ripetono le attrattive paesaggistiche e le suggestioni storiche di tanti altri piccoli paesini della Sicilia.
Sutera sparge la sua secolare edilizia ai piedi di una rocca con una forma di scoglio quadrato, simile ad una immensa torre di gesso; dalla sua sommità, si scorge una delle più complete e belle viste dell'isola.
Naturalmente, tanta naturale suggestione dei luoghi  non poteva accontentare l'ingegno siciliano; è per questo motivo che qualcuno ha pensato di utilizzare due milioni di fondi europei per costruire su quella fantastica opera della natura  un improbabile ascensore panoramico.  
Il paese, in parte distrutto nel 1905 da una rovinosa frana, conserva pochi resti di un castello un tempo munitissimo e oggi testimone di millenarie ed inquiete vicende ( nel 1299 vi fu illustre prigioniero Filippo d'Angiò, principe di Taranto e secondogenito del Re di Napoli ).



Fra i pochi scrittori che hanno dedicato qualche pagina a questo borgo figura l'agrigentino Matteo Collura:

"Visto dal basso - viaggiando appunto da Agrigento o da Palermo - il paesino appare attaccato a un dente di roccia, come a un dito femminile un anello di non preziosa sostanza ma d'ineffabile fulgore.
Come Caltabellotta - si legge in "Sicilia Sconosciuta, itinerari insoliti e curiosi", edito da Rizzoli nel 1997 - Sutera è un nido d'aquila difficile da raggiungere e per questo in gran parte salvato dal dilagare delle seconde case.
L'abitato è disposto lungo le pendici del Monte San Paolino ( 823 metri sul livello del mare ).
L'antico quartiere del Rabato conserva i caratteri arabi, con le tipiche stradine tortuose e gli archi seminascosti in un tessuto urbano che sembra mimetizzarsi con la roccia circostante..."




Sutera, infine, al pari di molti altri paesi nisseni ha patito il dramma dello spopolamento per l'emigrazione di centinaia di famiglie ( alla fine dell'Ottocento si contavano oltre 4.000 abitanti, oggi diventati circa 1.500  ).
Le pene, i rimpianti ed i disagi legati all'abbandono della propria terra negli anni Settanta ed Ottanta furono raccontati in tutta Europa da Momò Salamone e dai fratelli Enzo e Lorenzo Mancuso: poeti, musicisti e cantastorie partiti da Sutera e diventati cantori dei ricordi di chi, per vivere, è costretto a lasciare la sua terra e la sua gente. 


     

sabato 5 dicembre 2015

UNA DOMENICA CATANESE TRA GLI SCOGLI E IL MARE



 
"DOMENICA ITALIANA - CataniaGitanti a colazione sul piccolo lido della città nelle vicinanze del Lido dei Ciclopi"
 
Con questa didascalia la rivista "L'Europeo" commentò la fotografia pubblicata il 10 settembre del 1952 a illustrazione di un articolo di Luigi Barzini Jr. intitolato "Chi sono gli italiani? O ci odiano troppo o ci amano troppo".
L'immagine descrive l'happening di decine di catanesi - uomini e donne di ogni età, bambini - sugli scogli lavici che orlano la costa della città ionica.
Seduti o sdraiati a gruppetti, c'è chi è arrivato con le canne da pesca, chi fuma o chi - in camicia e cravatta, la testa protetta dal sole con un fazzoletto o un cappello di giornale - mangia piatti di pasta o caponate profumate dall'odore del mare e delle alghe.
La fotografia - testimonianza di costumi ed abitudini catanesi ancor oggi attuali -  rimanda alla memoria certe nitide e palpitanti pagine di Ercole Patti:
 
"L'odore del mare di Catania nel 1920, quell'odore di vecchie tavole imbevute di salsedine, di scogli ricoperti di alghe verdi o avana pallido carnose e sensibili come branche di polipo.
L'aria marina trascorreva tra i pali e le passerelle di legno dei vecchi stabilimenti balneari.
Qualche riccio bluastro si vedeva sul fondo ingrandito dall'acqua limpida sotto la verandina battuta dalla brezza marina.
Il mare salato penetrava nelle narici, attaccava le mucose, faceva lagrimare gli occhi durante i numerosi tuffi a chiodo datti dal piccolo trampolino sporgente dalla scogliera di Guardia Ognina.
Mentre l'acqua marina scivolava sul corpo felice i pensieri confusi del meraviglioso pomeriggio da trascorrere ronzavano nella testa sommersa sott'acqua.
L'acqua scorreva sul corpo compatto e abbronzato in un desiderio struggente della pasta con le melanzane che aspettava a casa sotto un piatto capovolto ancora tiepida..."

 
 
 

mercoledì 2 dicembre 2015

SICILIANDO














"E stavolta ti dico questo: da un pò di tempo m'accorgo che ogni cosa nuova che leggo sulla Sicilia è una divertente variazione su un tema di cui ormai mi sembra di sapere già tutto, assolutamente tutto.
Questa Sicilia è la società meno misteriosa del mondo: ormai in Sicilia tutto è limpido, cristallino: le più tormentose passioni, i più oscuri interessi, psicologia, pettegolezzi, delitti, lucidezza, rassegnazione, non hanno più segreti, tutto è ormai classificato e catalogato.
La soddisfazione che danno le storie siciliane è come quella d'una bella partita di scacchi, il piacere delle infinite combinazioni di un numero finito di pezzi a ognuno dei quali si presenta un numero finito di possibilità.
Mentre per ogni altro capitolo dello scibile umano, per ogni altra voce dell'enciclopedia, sappiamo che non riusciremo mai a toccare il fondo, che più ne impariamo e più qualcosa ci sfugge, la voce 'Sicilia' ci dà il piacere più unico che raro di confermare a ogni nuova lettura che il nostro bagaglio d'informazioni era adeguatamente ricco e aggiornato.
Tanto che speriamo ardentemente che nulla cambi, che la Sicilia resti perfettamente uguale a se medesima, così potremo al termine della nostra vita dire che c'è almeno una cosa che abbiamo conosciuto a fondo!"
Italo Calvino, lettera a Leonardo Sciascia del 10 novembre 1965 

DIFESA DEI TAGLIAPIETRE DEI MOSTRI BAGHERESI

Contro il severo giudizio espresso due secoli prima dal Goethe, un articolo del giornalista catanese Saverio Fiducia rivalutò nel 1953 l'oscura opera dei creatori delle orride statue settecentesche di Villa Palagonia


Alcune delle statue dei "mostri"
della settecentesca Villa Palagonia, a Bagheria.
Le fotografie del post sono da attribuire a Fosco Maraini
ed illustrarono un racconto del giornalista catanese Saverio Fiducia
apparso nel marzo del 1953 sulla rivista mensile "Tutta Sicilia"

A dispetto della sua complessiva eccezionalità architettonica, la Villa Palagonia di Bagheria è conosciuta e visitata soprattutto per le sue bizzarre statue di "mostri" che a partire dal 1747 furono commissionati ad ignoti scultori dal principe Francesco Ferdinando Gravina e Alliata.
Fra le molte pagine che raccontano la storia di questi "mostri", quelle di Rosario Scaduto ( "Villa Palagonia, storia e restauro", Eugenio Maria Falcone Editore, 2007 ) individuano la loro fonte di ispirazione nell'opera "La Sicilia ricercata nelle cose più memorabili", pubblicata nel 1742 da Antonino Mongitore:

"Il Mongitore accennò all'esistenza di alcuni animali molto particolari conservati nel museo del Collegio dei Padri Gesuiti di Palermo, come ad esempio, dei due capretti interi e legati nel ventre, dei quali furono pure fatti analisi e disegni 'per conservarne la memoria; poiché si dubita, che col tempo resteranno consumati' o quello, al tempo recentissimo, di una vacca ermafrodita nata nella masseria di Antonio lo Monaco, in località 'Montagna dei cani in Palermo', cioè nella montagna Pizzo Cane, vicino Bagheria, all'epoca facente parte del territorio di Palermo"




Ancora Rosario Scaduto ( opera citata ) attribuisce giustamente la "mostruosità" delle sculture di Villa Palagonia anche alle caratteristiche della pietra tufacea utilizzata per abbozzarle: la secolare esposizione all'atmosfera ne ha intaccato l'aspetto originario, sia per l'azione erosiva delle piogge che per le alterazioni di natura chimica, a cominciare da quelle provocate dagli inquinanti atmosferici: 

"Si conferma che per alcune delle statue - si legge ancora nel saggio di Scaduto - più che di raffigurazioni mostruose debba invece parlarsi di metamorfosi dei materiali costituenti, che da pietre lavorate e rivestite da una scialbatura di latte di calce, come si mostrano in parte oggi alcune statue si sono trasformate a causa del degrado in spaventosi mostri"

I "mostri" di Villa Palagonia hanno attratto a Bagheria molti viaggiatori illustri del passato; e nessuno di loro, probabilmente, vi metterebbe oggi piede per osservare le moderne mostruosità edilizie bagheresi, visibili già dagli svincoli autostradali dell'autostrada Palermo-Catania.  
Ancora Scaduto ricorda i nomi settecenteschi di questi personaggi: Michael De Borch, Johann Wolfgang Goethe, Richard Colt Hoare e Lèon Dufourny.
Fra i tanti autori siciliani che hanno scritto delle deformi statue del principe Francesco Ferdinando Gravina e Alliata figura invece anche il giornalista catanese Saverio Fiducia ( 1878-1970 ).
Il suo racconto venne pubblicato nel marzo del 1953 dalla rivista mensile "Tutta Sicilia" ( edita a Catania da Edizioni Camene ); le fotografie che corredarono il testo - ora riproposte da ReportageSicilia - sono da attribuire a Fosco Maraini, il cui nome compare nella lista dei collaboratori della rivista.



L'articolo di Fiducia - intitolato "Fantasia dell'arte in Sicilia. Villa Palagonia" - difendeva il valore artistico delle statue dei "mostri", in aperta polemica con il severo giudizio espresso quasi due secoli prima da Goethe

"Chi più chi meno ci si indignarono tutti, i viaggiatori del Settecento, nel visitare a Bagheria la villa dei Principi Gravina di Palagonia, dall'Houel al Goethe, per dir dei maggiori; il secondo, anzi, nel 'Viaggio in Italia', dedicò alle 'pazzie' del Principe sei pagine del suo diario palermitano, mentre - mi perdoni l'ombra magna di Lui - non tracciò un rigo per il Duomo e per la Cappella Palatina, per gli stucchi di Giacomo Serpotta e per le tele di Van Dyck e del Monrealese.
E' una carica a fondo quella dell'autore di 'Faust', giustificata dall'avere ricevuto la sua squisita sensibilità vibrante di classicismo, da quella 'kermesse' del mostruoso e della caricatura, il più fiero dei colpi.
Mostri, draghi, serpenti, chimere, nani, gobbi, pulcinelli, personaggi mitologici con attributi umoristici, cavalli con mani umane, corpi umani con teste equine, tutto insomma il bailamme di scolture ammassato dal Principe Francesco Ferdinando VII senza discernimento e senza scopo sopra zoccoli piedistalli muri, esasperò Goethe, lui sempre vigilatissimo nei suoi giudizi.
Giacchè a sentir lui, Goethe, ed egli lo avrà senza dubbio appreso a Palermo, ciò che nella Villa vi è 'di stravagante, di frenetico e di delirante', è dovuto all'iniziativa di questo VII principe dei Palagonia, che il Poeta stesso vide un giorno in una strada della città in parrucca e spadino, solennemente e gravemente presenziare la questua fatta dai suoi servi per riscattare gli schiavi cristiani di Barberia; ma la la costruzione rimonta al 1715 ed è dovuta 'nella parte più nobile e punto stramba', allo zio Francesco Ferdinando e al padre Salvatore, rispettivamente V e VI Principe del casato.



E dovevano essere gente da tenere di conto questi Gravina, se i re di Spagna insignirono del Tesor d'oro i maggiorenti di essi, e se uno è fama abbia coraggiosamente detto a un tracotante Borbone:
'Vostra Maestà può disporre della mia vita, non della mia volontà!'
Del resto, a parte le stravaganze disseminate nella Villa ( sulle quali dirò il mio pensiero ), e per quanto Goethe abbia annotato nel suo Diario:
'Avrebbe fatto meglio ad impiegare le sue enormi ricchezze nel riscattare gli schiavi, anziché prodigarle per le pazzie della Villa', anche Francesco Ferdinando VII dovette essere uomo di proposito, se era Capo dell'Opera religiosa dei Mercedari, quella che appunto mirava a liberare gli schiavi, e se ne andava in giro a chiedere l'obolo, sia pure facendo stendere la destra ai servi.
Penso, comunque, che costui sia stato un emerito burlone, uno a cui piaceva beffarsi del prossimo; beffarsi soprattutto, con le sue clamorose trovate, della casta a cui apparteneva.
D'altronde non è la memoria sua che intendo difendere; ma dove Goethe, a mio modo di vedere, esagera, è nel volere coinvolgere nelle 'pazzie' del Principe, gli artefici materiali di quelle sculture, e nel giudicarli con severità.
'L'aspetto disgustoso - scrisse - di questi mostri, abborracciati da un qualsiasi tagliapietre, è reso anche più evidente dal volgarissimo tufo in cui sono scolpiti'.
In quanto al tufo, materia vile, non era copia della Venere Siracusana o dell'Apollo di Belvedere che il proprietario commetteva ai suoi scultori; ma in quanto all'esecuzione di queste opere vituperate, io difendo gli artigiani che le eseguirono.
Basta, per convincersene, guardare la caricatura, che direi aristofanesca, del Socrate addossato ad uno dei pilastri del cancello, e meditare sull'indiavolata fantasia inventiva con cui sono ottenute certe 'chimere'.
Che il Palagonia abbia dettato il tema di 'uomini con teste equine' e di 'cavalli con estremità umane', lo ammetto; ma l'inimitabile sorriso ironico di quel goffo Socrate, l'ibrida animalità decorativamente pittoresca di quelle chimere, sono dovuti esclusivamente a quei 'qualsiasi tagliapietre'.
E poi, sono tutte brutte e repugnanti quelle figure?
Non ve ne sono di danzatrici, di dame e cavalieri, di pastori e di pastorelle, ben proporzionate e impostate, vivacemente mosse?
Io vidi Villa Palagonia molti anni or sono, in fretta in fretta, come in un sogno direi.
Era d'inverno, e la giornata piovosa, le nuvole basse e grigie, creavano attorno ad essa e su di essa un'atmosfera d'infinita malinconia; ell'era veramente la casa di nessuno, destinata a sgretolarsi e a scomparire sotto i rovi e le ortiche.
Nel secolo degli scherzi frivoli ed epidermici, nel secolo dei labirinti, verdi come quello di Stra o di pietra come il Biscariano di Catania, la Villa Palagonia fu una beffa clamorosa, giocata da uno spirito bizzarro alla sua stessa casta.
Oggi non è che la testimonianza di un'epoca; un nobile monumento con particolari stravaganti ma significativi, reso triste dall'abbandono..." 



       

domenica 29 novembre 2015

ATTRAZIONI E OPPOSIZIONI NELLO STRETTO DI BARTOLO CATTAFI

Capo Peloro e lo Stretto di Messina
in due fotografie di Italo Zannier.
Le immagini vennero pubblicate nell'opera
"Coste d'Italia - la Sicilia" edito nel 1968 dall'ENI

"La sua lunghezza, disse Plinio, è di 15.000 passi; la sua larghezza è di 607 stadi, disse Strabone; di 12 stadi, precisò Polibio; per Plinio sono 1500 passi; per Tucidide 20 stadi, 3416 metri, dicono i moderni.
Questa distanza sarà vera sul piano fisico, non su quello metafisico o morale.
Talvolta lo Stretto di Messina - scrisse il poeta barcellonese Bartolo Cattafi in "Lo Stretto di Messina e le Eolie" ( L'Editrice dell'Automobile, Roma, 1961 ) - può diventare oceano incalcolabile, Sicilia e Calabria come due persone che si sfiorino, restando dentro di sé remote; due cose contigue ma lontanissime, nella dimensione dell'essere.
Vien voglia, nella mente, di allontanare con grande stacco queste coste per sancire topograficamente una realtà spirituale, oppure di violentare quest'ultima, saldando l'una costa all'altra, pur di uscire dall'inquietudine, di rompere l'enigma.



La 'rema montante' che la Sicilia indirizza contro la Calabria, e la 'rema scendente' che segue la rotta inversa, sono fasci alterni di energie che le due terre si scambiano attraverso lo Stretto.
Come braccia di due corpi che si respingono; non ostili, ma desiderosi di distanza" 

venerdì 27 novembre 2015

QUELL'INSIDIOSA TARGA FLORIO DEL 1964

Un vecchio reportage del mensile "Quattroruote" racconta le insidie meccaniche offerte dal circuito stradale delle Madonie nell'anno della vittoria della Porsche di Colin Davis ed Antonio Pucci


In questa e nelle altre due seguenti fotografie
la sequenza del cedimento meccanico
dell'equipaggio Rupert-Ratcliffe,
alla guida di una Mini Cooper S
durante la Targa Florio del 1964.
Le fotografie del post sono tratte dal mensile "Quattroruote"
pubblicato nel giugno del 1964


Le cronache delle storiche edizioni della Targa Florio hanno spesso sottolineato le insidie di un circuito stradale che metteva a dura prova la meccanica delle vetture in gara.
Si è scritto e si è detto che le strade delle Madonie sono state un "banco di prova" per le Case costruttrici; e che grazie alla Targa siano state messe a punto modifiche e miglioramenti alla meccanica di molte automobili di serie.
Ora, ReportageSicilia non è in grado di suffragare una simile verità, conservata forse negli archivi degli studi di progettazione delle aziende automobilistiche. 
Certo, però, nel giugno del 1964 il mensile "Quattroruote" avallò questa tesi in un lungo articolo ( "Porsche senza rivali" ) dedicato alla 48a edizione della Targa Florio, disputata il 26 aprile sulla distanza di dieci giri.



Nella scheda intitolata "Considerazioni tecniche", F.Moscarini scrisse che il tormentato tracciato siciliano forniva "utilissime e probanti indicazioni per le migliorie da apportare alle macchine di serie di loro produzione".
Quell'anno il successo della Targa Florio andò alla Porsche 904 di Colin Davis e Antonio Pucci, unico equipaggio a superare in 7h 10'53" la media dei 100 km/orari ( 100,256 ).



La vettura tedesca diede prova di velocità e robustezza, in una gara molto selettiva:
"Sul percorso della Targa Florio, tortuoso, difficile, con fondo non sempre perfetto - scriveva ancora F.Moscarinitutti gli organi delle vetture vengono messi al vaglio duramente e ciò è dimostrato dal fatto che, anche quest'anno, su 64 macchine partite solo 32 si sono classificate, e molte fra queste non sono neppure giunte al traguardo finale.


La Porsche "904" vincitrice guidata da
Colin Davis ed Antonio Pucci

Se esaminiamo le cause dei principali ritiri si possono trarre conclusioni assai interessanti: ad esempio si scopre che gli organi meccanici che hanno meno resistito alle impetuose sollecitazioni sono stati, nell'ordine, le sospensioni ( circa il 50 per cento dei ritiri ), seguite dai differenziali.
I cambi, tutto sommato, non hanno palesato grosse lacune, e così pure i freni ed i motori..."


Sullo stesso tratto del circuito,
l'Alfa Romeo "Giulia TZ"
di Roberto Bussinello e Nino Todaro

Quindi il reportage di "Quattroruote" analizzò il comportamento di ciascuna casa costruttrice impegnata in quell'edizione della Targa:
L'Abarth ( "molti ritiri dovuti, pensiamo, ad una insufficiente preparazione delle vetture in una gara così impegnativa e tormentata" ); l'Alfa Romeo ( "bilancio nettamente positivo, dovuto alla regolarità ed al rendimento delle due Giulia TZ preparate dalla Casa" ); l'ATS, ( "ha bisogno, come si suol dire, di 'farsi le ossa' per eliminare quei piccoli inconvenienti che solo nella esasperazione di una corsa possono affiorare" ); la BMC ( "è stata tradita, come altre vetture, dalla trasmissione" ); la Ford ( "da notare che verso la fine della gara alle vetture ancora in corsa si sono rotte le sospensioni: si è così determinato, come avviene in un laboratorio, il cedimento, per affaticamento, di una parte evidentemente non sufficientemente dimensionata" ); la Porsche ( "sospensioni e strutture hanno in parte risentito della durezza della gara, ma la splendida duplice affermazione della Porsche è la più evidente dimostrazione della perfezione raggiunta dalla macchina tedesca" ); e la Renault "le vetture preparate dalle connazionali Bonnet e Alpine hanno denunciato debolezza nelle sospensioni e nelle ruote" )


Un passaggio della Ferrari "GTO"
di Corrado Ferlaino e Luigi Tamarazzo


Quell'articolo di "Quattroruote" conteneva poi alcune gustose notazioni sui piloti e sulla Targa Florio del 1964.
Una riguarda Antonio Pucci, il vincitore in coppia con Davis:

"E' un autentico prodotto locale, di quelli con la Targa Florio nel sangue; un veterano della classica siciliana - scriveva C. Mariani - altre volte piazzatosi egregiamente ma mai riuscito nell'impresa più sospirata, la conquista della vittoria assoluta.
Questa volta è andata bene, il traguardo a lungo inseguito è stato finalmente raggiunto; il settimo cielo non è poi così lontano.
Alto, distinto, tanti figli, un paio di baffetti alla 'Divorzio all'italiana': tutti lo ricordano così, lo hanno visto sempre così.
E qualcuno, fiducioso, per non ripetere continuamente il cognome ad un certo punto scrive, parlando di lui, "il baffuto barone siciliano".
Tragico errore: è sempre siciliano, è ancora barone, ma i baffi non li ha più, se li è tagliati.
Adesso magari è convinto che siano stati proprio quelli, i baffi, ad impedirgli fino ad oggi di conquistare l'ambitissima vittoria"


La Ford "Cobra"
di Dan Gurney e Jerry Grant


La cronaca di "Quattroruote" scrisse di un altro protagonista di quella Targa Florio: il pilota catanese dell'americana Ford "Cobra", Enzo Arena.
Il suo approdo sul sedile di guida della potente vettura era stato il frutto di un ingaggio seguito alle ottime prestazioni messe in mostra qualche settimana prima al volante di un'Abarth, in Germania:

"E' entusiasta di un pilota scoperto per caso, Peter Schelby ( il dirigente sportivo della Ford, n.d.r ): di Arena, il minuscolo siciliano che sulle strade di casa ha fatto meglio di grossi calibri come Phil Hill, Gurney, Gregory.
Suo è il miglior tempo di tutta la squadra della "Cobra"; e un posto assicurato per tuta la stagione, questo è il più importante.
Schelby accarezza con lo sguardo il sorprendente "picciotto", individuandolo a fatica sulla poltrona nella quale si è sprofondato.
Un vero peso mosca, Arena.
A vederlo impegnato in gara, piccolissimo nel vasto abitacolo del macchinone americano, sembrava di rivedere qualche scena del film "L'uomo invisibile"; e forse qualche concorrente si è sentito il cuore in gola, durante la corsa, nel vedersi superare a fortissima andatura da una vettura apparentemente senza pilota.
Ma c'era, il "manico", e del tutto padrone di quel "camion" capace di quasi 300 all'ora; se non è arrivato fino in fondo, la colpa non è stata sua"

Infine, proprio ad uno dei piloti americani della Ford - di quei piloti cioè abituati a correre su veloci piste, ricavate da vecchi aeroporti - il giornalista del mensile milanese attribuì  un'affermazione sprezzante riguardo la durezza del percorso della Targa:

"Questo circuito - afferma convinto uno dei piloti ufficiali della "Cobra" - è stato disegnato e attuato da un gruppo di persone nel periodo più acuto di una colica intestinale collettiva..."