domenica 29 settembre 2013

AGRICOLTURA, QUELLA DOMANDA DI CARLO LEVI

Lavoro contadino
nelle campagne agrigentine di Cammarata.
La fotografia è tratta dall'opera
"Il folklore, tradizioni, vita e arti popolari"
edita nel 1967 per la collana
"Conosci l'Italia" dal TCI

"Dove è il mondo contadino? Nelle fabbriche e nelle miniere di Milano e Torino, della Germania, della Svizzera, del Belgio, senza terra o sotto terra, negli astratti purgatori dove anche la lingua è altra.
Si disse dunque che il problema contadino, il problema della terra, non esisteva più: una certa politica, un certo sviluppo storico li aveva eliminati.
I 'poli di sviluppo', la riforma, la nuova fase dell'economia europea, li aveva respinti nella secolare inesistenza: essi ora non serviranno più, erano tornati nell'ombra".
Con quella domanda posta come incipit e con le considerazioni che ne seguono, Carlo Levi inserì nel 1966 questo passaggio nell'introduzione al saggio di Mario Farinella "Profonda Sicilia", edito da Libri Siciliani-Célèbes.
Era quello il periodo del grande abbandono delle terre agricole dell'isola, spopolate dall'urbanizzazione costiera e dalle prospettive di meno faticosi e più remunerativi lavori cittadini, possibilmente lontano dalla Sicilia.
A distanza di quasi mezzo secolo da quegli anni, l'agricoltura isolana continua ad essere una straordinaria occasione mancata di sviluppo; tanto più in un periodo in cui il mondo produttivo e del lavoro non offre più quell'alternativa di occupazione industriale o nel terziario, nel resto d'Italia ed in Europa.
Le campagne siciliane continuano oggi ad essere spopolate e scarsamente sfruttate. 
Il senso comune delle cose fa supporre che una terra ricca di potenzialità agricole potrebbe garantire prosperità e benessere ai suoi abitanti.
A questo senso comune sfuggono però le venali logiche del mercato comune e le regole imposte dalla grande industria alimentare per le quali - ad esempio - nei supermercati di Palermo o Catania si trovano limoni argentini e non siciliani.
Certo, sarebbe oggi anacronistico riproporre politiche protezionistiche o di autarchia; e, tuttavia, bisognerebbe comprendere che ogni comunità ha il diritto di vivere e produrre sfruttando anzitutto i prodotti della propria terra, alimentando un mercato che avrebbe ricadute positive su molti altri aspetti della locale vita quotidiana.
A distanza di cinquant'anni, insomma, la domanda di Levi "dove è il mondo contadino?" grava ancora sulla storia della Sicilia, rivelando una datata ed illogica dissipazione di potenzialità umane ed economiche nell'isola.      

   

sabato 28 settembre 2013

I SICILIANI NON ITALIANI DI MONTANELLI

Locandina in forma di necrologio
apparsa in numerose edicole palermitane
nei primi mesi del 1960.
Nel febbraio di quell'anno,
Indro Montanelli aveva rilasciato un'intervista
in cui metteva in dubbio l'italianità dei siciliani.
La vicenda è stata ricordata nel 1989
dal giornalista palermitano Michele Russotto.
ReportageSicilia ripropone il suo scritto
e le fotografie delle locandine
pubblicate nel saggio
"La Sicilia negli anni Sessanta",
edito da Edizioni Anvied 

In un interessante e poco conosciuto saggio del giornalista palermitano Michele Russotto - "La Sicilia e gli anni Sessanta, vicende e scandali in immagini e parole, la storia torna cronaca", edito da Edizione Anvied nel 1989 - si ricorda la polemica sollevata nel 1960 da alcune dichiarazioni rilasciate da Indro Montanelli in merito ai siciliani ed al romanzo "Il Gattopardo".
Il giornalista toscano - all'epoca già affermato cronista, storico e scrittore - nel febbraio di quell'anno rilasciò un'intervista alla prestigiosa rivista francese "Le Figaro Letteraire" in cui si leggeva, fra l'altro:

Un celebre scatto di Montanelli.
La fotografia è tratta  dall'opera
"La mia eredità sono io"
a cura di Paolo Di Paolo,
edita nel 2008 da Rizzoli

"Ah! La Sicilia! Voi avete l'Algeria, noi abbiamo la Sicilia. 
Ma voi non siete obbligati a dire agli algerini che sono francesi. Noi, circostanza aggravante, siamo obbligati ad accordare ai siciliani la qualità di italiani".
"Non appena i giornali nazionali diffondono il testo dell'intervista - scrive Russotto - in Sicilia si scatena una vera e propria santabarbara. 
E' una valanga di lettere di protesta che si riversano sui giornali. Tutti attaccano Montanelli in maniera aggressiva, al limite del vituperio".

La locandina che invitava a non leggere
i giornali cui collaborava Montanelli:
l'iniziativa venne portava avanti
dalle Federazioni Provinciali dei Giornalai
e dei Commercianti di Palermo 

Le dichiarazioni francesi del giornalista lasciano il segno anche per un giudizio sprezzante nei confronti de "Il Gattopardo", da mesi al centro di un grande successo letterario.
"E' un esempio ammirevole - dichiarò Montanelli - di ciò che bisogna fare in Italia per riuscire in letteratura. 
Attaccarsi a un 'caso'. Creare ad ogni costo un 'caso'. 
Certo 'Il Gattopardo' è una bella fetta di vita! 
Ma io dico spesso agli amici: chi leggerebbe Lampedusa se Lampedusa non fosse morto? 
Ve lo accordo, il libro non è male".

Una delle prime edizioni de "Il Gattopardo".
Nell'intervista finita al centro delle polemiche,
Montanelli fu anche protagonista di
una graffiante stroncatura del romanzo
di Giuseppe Tomasi di Lampedusa
   
La stroncatura del romanzo di Tomasi di Lampedusa non fece che gettare altra benzina sul fuoco nelle invettive isolane dirette verso il giornalista. 
Salvatore Quasimodo - che qualche mese prima aveva vinto il premio Nobel per la letteratura - commentò: 
"Montanelli è un giornalista che si finge di essere specializzato in tutto. 
Egli arriva in un Paese straniero e dopo due giorni è già capace di scrivere un libro su qualsiasi argomento: di costume, di politica, di organizzazione per il futuro. 
Così fa anche in letteratura. Dice che non capisce niente di poesia e poi trincia dei giudizi sui poeti. 
Insomma, con la stessa superficialità giudica di tutto e di tutti. 
Ma quello che è peggio, Montanelli è il primo denigratore dell'Italia, quando si trova all'estero". 

Salvatore Quasimodo, da poco Nobel per la letteratura,
fu il più titolato fra gli intellettuali isolani
a criticare i giudizi del giornalista toscano.
Montanelli venne da lui accusato di superficialità
e volontà denigratoria
nei confronti dei siciliani 

La frase contro l'italianità dei siciliani costò al giornalista di Fucecchio addirittura una denuncia alla Procura di Milano da parte del deputato democristiano di Termini Imerese Bartolomeo Romano; il Movimento Monarchico chiese invece che Montanelli venisse privato della cittadinanza italiana.
"Sul piano pratico, la protesta più appariscente - scrive ancora Russotto - è degli edicolanti che per settimane si rifiutano, apponendo nelle edicole appositi cartelli, di vendere i giornali che contengono articoli di Montanelli. La 'Domenica del Corriere' soprattutto..." 
"Contro di lui prendono posizione l'associazione siciliana della stampa e il Comitato regionale per le celebrazioni del centenario dell'unità d'Italia. 
Vibrate voci di protesta si elevano dai consigli comunali di mezza Sicilia appositamente convocati. 
Guglielmo Lo Curzio propone che per rispondere a Montanelli venga bandito un concorso nazionale sul tema 'I siciliani veri'. 
C'è una Lega Mondiale dei Siciliani, con sede a Palermo in via Libertà, che accusa Montanelli di miseria morale e mentale".
Nel suo saggio, Michele Russotto chiese un commento sulla vicenda al giornalista palermitano Roberto Ciuni, che all'epoca rivestita l'incarico di direttore del quotidiano "La Nazione" di Firenze.
"Montanelli forzò la polemica sui siciliani - dichiarò - anche perchè allora i siciliani erano molto antipatici... 
Intendiamoci, non è che paragonare la Sicilia all'Algeria sia poi tanto cattivo, perchè l'Algeria è una terra che ha la sua storia, la sua dignità, la sua cultura. 
Però allora i siciliani non gradirono. Ricordo che allora ci furono reazioni molto pesanti, quasi da sfida a duello. 
Era un periodo in cui nel meridione ci si offendeva facilmente. 
Noi siciliani siamo antipatici perchè in questo bel paese si cerca sempre il diavolo per esorcizzare i problemi generali. 
Così la Sicilia, la Calabria o addirittura Napoli ogni tanto diventano il diavolo per far dimenticare quali sono i veri problemi. 
Così per Montanelli, che voglia definirsi fiorentino o milanese faccia lui, è facile dire che i problemi sono tutti al Sud del Garigliano...".

Anni dopo la contestata intervista,
Indro Montanelli avrebbe espresso
giudizi negativi anche su
Giuseppe Garibaldi e sulla condotta
dell'impresa dei Mille in Sicilia.
L'immagine, attribuita ad Enzo Sellerio,
ritrae un quadro raffigurante
lo sbarco a Marsala
conservato presso il Museo del Risorgimento
 a Palermo

Per quanto noto, Indro Montanelli non smentì mai le dichiarazioni rilasciate al "Le Figaro Letteraire" ( e del resto una smentita avrebbe messo in dubbio la fama di uomo ed intellettuale dalle salde convinzioni ).
Anni dopo anzi - era il 1967 - avrebbe confermato i suoi poco lusinghieri giudizi su personaggi e protagonisti delle vicende siciliane, dando dell'incapace a Giuseppe Garibaldi.
L'ennesima stroncatura venne espressa nel corso di un convegno che ebbe luogo a Torino, e durante il quale Montanelli liquidò così il ruolo del capo militare dell'impresa dei Mille.
"Garibaldi aveva poche e confuse idee, era uno scadente politico ed un mediocre stratega: era più geniale che astuto. Cercava sempre un capo che legittimasse le sue azioni ed era insofferente alla disciplina. Oggi il cinema americano gli avrebbe però dedicato centinaia di film".
Più tardi - nel 1989 - in occasione della morte di Leonardo Sciascia, Montanelli avrebbe così infine fissato il suo giudizio sugli isolani per i quali trent'anni prima aveva lamentato l'attribuzione della qualifica di italiani:
"Era siciliano fino al midollo; e, come tutti i siciliani veraci, combattuto fra l'amore per la sua terra com'è, e l'odio perchè è come è".         

giovedì 26 settembre 2013

VILLA IGIEA, IN PRINCIPIO FU L'IGAZOLO


Villa Igiea in un disegno
allegato ad una pubblicità
dell'albergo e pubblicato
in un numero speciale della rivista
"Illustrazione Italiana", nel 1909


Eminenti studiosi di architettura, di storia del costume e di economia della vecchia Palermo hanno ricostruito in modo esauriente la storia di Villa Igiea e del suo famoso albergo. 
Questo post si limita ad aggiungere a quanto già pubblicato sull'argomento anche il contribuito poco noto di un disegno dell'edificio, di quattro fotografie di interni ed esterni e di una inserzione pubblicitaria del Grande Hotel Villa Igiea, datati 1909 ( l'anno successivo all'inaugurazione ): il materiale riproposto da ReportageSicilia è tratto dalla rivista "Natale e Capo d'Anno dell'Illustrazione Italiana" dedicata a "La Sicilia-La Conca d'Oro", edita da Fratelli Treves Milano.


Pochi anni prima quella pubblicazione - alla fine del secolo XIX - Villa Igiea era stata costruita su iniziativa di Ignazio Florio allo scopo di ospitare un sanatorio per la cura della tubercolosi.
La struttura sanitaria - destinata a degenti facoltosi - sarebbe stata affidata alla direzione del professore palermitano Vincenzo Cervello, all'epoca considerato un luminare nella cura della tisi e sperimentatore di un farmaco denominato "igazolo".


Il porticato d'ingresso di Villa Igiea, e, sotto,
la statua della Rinascita, opera di Ettore Ximenes.
A seguire, due scatti
delle sale interne della Villa,
decorate da Ettore de Maria Bergler.
Le fotografie sono tratte
dal citato numero speciale della rivista
"Illustrazione Italiana"



L'iniziativa venne promossa con l'acquisto di un edificio residenziale in stile neogotico con annesso giardino nella borgata marinara dell'Acquasanta: la proprietà era di un ammiraglio inglese in pensione, Sir Cecil Domville, del quale si tramandano le quotidiane nuotate lungo questo tratto di costa palermitana.
  


Pietro Zullino - autore nel 1973 di una sarcastica e ben informata "Guida ai misteri e piaceri di Palermo" edita da Sugar Editore - avrebbe scritto che "si scoprì, purtroppo, che non soltanto la prossimità del mare era dannosa ai ricoverati, ma che la stessa terapia del medico panormita era letale. 
Dopo i primi decessi, i Florio trasformarono prudentemente la clinica in albergo di lusso... 
Ora al Villa Igiea si tengono riunioni politiche molto esclusive e riservate. Un altro genere di terapia letale per il popolo siciliano".


Un veliero alla fonda dinanzi Villa Igiea.
L'immagine, riproposta dall'opera
"Vincenzo Florio, il gusto della modernità",
edita da Eidos Edizioni nel 2003,
offre una testimonianza
delle ricche frequentazioni dell'albergo

L'albergo sorto nelle strutture del sanatorio - come ha scritto Eva di Stefano nel volume "Vincenzo Florio, il gusto della modernità", edito nel 2003 da Eidos Edizioni - diventò per possidenti ed industriali un luogo della vecchia Europa "dove ci si poteva sottrarre per mesi o per anni alle frenetiche attività produttive, e consumare la vita all'ombra confortevole del proprio patrimonio".
L'ambientazione paesaggistica e le raffinatezze architettoniche del Basile e degli altri artisti ( De Maria Bergler, Di Giovanni, Cortegiani, Ximenes, Ducrot ) assicurarono prestigio e rilevanza mondana all'albergo. 


Visite regali e serate mondane
al Villa Igiea:
le prime due fotografie ritraggono
la famiglia reale inglese in visita nel 1909
ed i reali d'Inghilterra nel 1925.
La terza immagine mostra invece
l'interno del Circolo degli Stranieri,
luogo di incontro della borghesia del tempo.
Le tre fotografie sono tratte dal saggio
"Palermo Felicissima", edito nel 1974
da Edizioni Il Punto
con testi di Leonardo Sciascia e Rosario La Duca



Rosario La Duca aggiungerà quindi che Villa Igiea "fu riconcepita come stazione invernale ed era destinata, nelle intenzioni di Ignazio Florio, a battere il lungomare di Nizza. Ospitò molte teste coronate: Eduardo VII d'Inghilterra e la concorte Vittoria di Danimarca, il Kaiser Guglielmo II, il re del Siam, la regina di Romania, Giorgio V di Inghilterra ed altri ancora. 
In una delle sue camere morì in silenzioso esilio re Costantino di Grecia.
Il padiglione, detto "Circolo degli Stranieri" - staccato dal complesso edilizio, cui era collegato con una galleria sospesa a vetrate con struttura portante in ferro, oggi non più esistente - vide le serate mondane dell'aristocrazia e della migliore borghesia palermitane".



Dopo la disfatta economica dei Florio, Villa Igiea avrebbe vissuto una stagione di declino strutturale e gestionale.
La proprietà passò dalla famiglia di origini calabresi alla Società dei Grandi Alberghi Siciliani.
Nel secondo dopoguerra, l'edificio entrò a far parte del patrimonio del Banco di Sicilia, che nel 1980 decise di affittare la struttura alberghiera alla società ATA HOTELS di Salsomaggiore.
Infine, dalla fine degli anni Novanta l'ex sanatorio per tubercolotici è passato di mano al romano Francesco Bellavista Caltagirone, presidente di Acqua Pia Antica Marcia: passaggi di proprietà e ristrutturazioni che hanno del tutto cancellato il ricordo dei tempi in cui il professor Cervello somministrava inutilmente ai suoi degenti i fumi dell'"igazolo".  

martedì 24 settembre 2013

QUELLE VERDI COLLINE DI CEFALU'


ReportageSicilia dedica spesso i suoi post a Cefalù.
Più volte, ha sottolineato lo stravolgimento subìto dal paesaggio e dall'architettura di uno dei luoghi isolani che più rappresenta le contraddizioni legate alle ragioni dello sviluppo del turismo.
Passeggiando lungo corso Ruggero - ad esempio - è oggi possibile imbattersi in negozi di souvenir che diffondono ad alto volume tarantelle pseudo-siciliane o che vendono magliette con la scritta "Sono stato nell'isola del Padrino".
Da questa Cefalù avvilente - capace ad esempio di generare qualche anno fa un residence-formicaio nella zona di Santa Lucia - viene allora voglia di scappare, chiedendosi perché mai le autorità locali abbiano concesso a commercianti e costruttori di intaccare con la paccottiglia e con l'edilizia d'assalto il decoro stesso della cittadina. 
La fotografia riproposta da ReportageSicilia - realizzata da Josip Ciganovic e pubblicata nell'opera "Il folklore, tradizioni, vita e arti popolari", collana "Conosci l'Italia", edita dal TCI nel 1967 - restituisce l'immagine di una Cefalù non ancora intaccata dalle logiche devastatrici del turismo di massa.
Simili fotografie abbondano nell'iconografia della pubblicistica dei decenni passati, a dimostrazione che per lungo tempo questi luoghi hanno preservato il loro originario fascino.
In questo caso, la solitaria figura di un giovane seduto dinanzi ad un gruppo di barche svela la nuda presenza delle abitazioni dei pescatori, senza alcun sottofondo di finte tarantelle; e anche lo sfondo delle verdi colline ci riporta indietro nel tempo, quando Cefalù era un luogo non ancora sfregiato dal suo stesso sviluppo economico.     

domenica 22 settembre 2013

LE SCOMPARSE "MORBIDE RENE" ISOLANE

La spiaggia di Magaggiari, a Terrasini.
La fotografia porta la firma di Fosco Maraini
e venne pubblicata nella guida del TCI
"Marine d'Italia", edita nel 1950.
ReportageSicilia ripropone alcune delle immagini
contenute in quell'opera: ne emerge
una visione di un'isola in cui
le località balneari non erano
ancora stravolte dalle ragioni dello sviluppo economico

" ...Visto nell'insieme, il litorale siciliano è come una fascia, a tratti ampia ma più spesso avara di spazio, stretta fra il bastione montuoso e il flutto, su cui la spiaggia marina distende ora un manto di morbida rena, ora uno strato di ciottoli e di ghiaia, qua e là interrotti dalle pietre delle scogliere che immergono il piede nell'azzurro mare.
Alle spiagge e ai greti si affacciano numerosi centri di marinai e pescatori, che nella stagione estiva apprestano un festone di stazioni balneari circoscritte per lo più agli abitanti del luogo e dei dintorni, e quindi prive di organizzazioni ricettive atte a sostenere l'afflusso di bagnanti forestieri...".


Termini Imerese e la sua spiaggia,
oggi stravolta dalle opere portuali
e da quelle viarie.
La fotografia è attribuita a B.Stefani 

Con prosa che oggi ha un piacevole gusto del desueto, l'anonimo redattore del Touring Club Italiano così descrisse nel 1950 il litorale siciliano nella guida "Marine d'Italia", stampata presso le Officine Grafiche A.Mondadori di Verona.
Alle marine siciliane la guida del TCI dedicò 37 delle sue 400 pagine.

La Plaia di Catania.
L'immagine è firmata
Ente Provinciale Turismo

Il volume venne corredato con numerose fotografie dell'isola scattate prevedibilmente negli anni immediatamente successivi la fine del secondo conflitto mondiale; in questo post, ReportageSicilia ripropone alcune di quelle immagini.
La selezione delle località offerta all'epoca dagli autori della guida offre oggi qualche motivo di riflessione.

L'inconfondibile paesaggio di Cefalù.
La fotografia è ancora una volta
attribuita a B.Stefani
  
Anzitutto, colpisce la scelta dei luoghi proposti nell'itinerario siciliano. 
La lista comprende da un lato siti oggi non più presenti nella consueta offerta balneare dell'isola, come Pozzallo, Scoglitti, Gela, Marina di San Leone, Avola, Porto Empedocle, Alcamo Marina, Marsala, l'Acquasanta di Palermo, Termini Imerese, Casteldaccia, Santa Flavia, Barcellona o Patti Marina.

Oggi il promontorio palermitano di capo Zafferano
è quasi completamente soffocato
dall'edilizia e dalla chiusura dei varchi al mare.
Ben diverso era il suo aspetto
quando Fosco Maraini
realizzò questa panoramica

A distanza di sessant'anni, questi luoghi hanno perso la loro attrattiva perchè nel frattempo le loro "marine" sono state stravolte dall'avanzata del cemento, dall'insediamento di grandi impianti industriali o dalla sistematica chiusura degli accessi al mare.
Di contro, in questa guida del TCI non vengono neppure citate le località balneari oggi maggiormente note e frequentate: da San Vito Lo Capo a Scopello, da Menfi  a Favignana, da Lampedusa a Marzamemi.


Il mare ragusano di Pozzallo,
località oggi scarsamente citata dalle guide
delle località marine della Sicilia.
La fotografia è di Antoci

L'autore delle schede dedicate ad ogni singola località descrive una Sicilia balneare dalla bellezza allora semplice e primordiale, spesso paesaggisticamente legata all'ambiente agricolo: scenari oggi per lo più scomparsi, per mano dell'uomo e della natura.
Di Terrasini scrive che il luogo si distingue per le "case bianche e luminose, ville e villini che si stendono in declivio fino alla spiaggia; vie rettilinee che si tagliano ad angolo retto. La campagna circostante è tutta coperta di olivi e vigne, produttrici di un vino di bella forza".


Ancora uno scatto di Fosco Maraini.
L'immagine venne realizzata a Vulcano
ed inquadra le isole di Lipari e Salina

Di Alcamo Marina invece segnala "la spiaggia profonda ed estesissima, di sabbia morbida e fina, con dune mobili che in certi punti si spingono fino a 500 metri nell'entroterra".
Il Lido Ponticello di Marsala attrae perchè "è una vasta distesa di sabbia morbidissima, posta al margine di un piatto tavolato tutto coperto di vigne e inciso dai solchi delle fiumare".
La Gela non ancora stravolta dagli impianti del petrolchimico appare "una stazione balneare assai frequentata; sotto la città la spiaggia distende una vasta fascia di morbida rena, dotata di uno stabilimento per bagni ( terrazza a mare e ristorante ) e di un buon numero di cabine".


Pescatori in mare lungo la costa
di Giardini-Naxos.
La fotografia porta la firma Licari

Nel lido di Pozzallo, invece, "le case si affacciano alla vista di dolcissime alture rivestite di un manto di olivi e di carrubi... La spiaggia distende due arenili: quello di Levante ( Pietre Nere ) e quello di Ponente ( Raganzino ): essi dispongono di tre stabilimenti balneari ritti su palafitte. Clientela distinta; mare azzurro..."


Porticciolo di pescatori ad Aci Castello,
con lo sfondo dei faraglioni di Aci Trezza.
La fotografia è firmata B.Stefani

La Sicilia costiera descritta in queste pagine, insomma, era quella in cui la fruizione balneare non riusciva ancora ad incidere sulla natura stessa dei luoghi, stravolgendone l'aspetto con parcheggi, villini abusivi e chilometrici stabilimenti balneari: un patrimonio immolato alle ragioni di uno sviluppo economico che molto spesso ha cancellato per sempre nell'isola "morbide rene" e visioni di "azzurro mare"


Faraglioni a Lipari,
ancora in una fotografia attribuita a
Fosco Maraini

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               

SICILIANDO
















"Il siciliano è naturalmente fiero di sè, e questo costituisce il suo limite e il suo principale difetto.
Egli è infatti quello che gli americani chiamano un 'perfectionist': non gli piacciono i mezzi termini, pretende di saper fare tutto e di poterlo fare bene.
Non è escluso che spesso ci sappia veramente fare, e i nomi dei siciliani che hanno lasciato un'orma nei vari campi delle attività umane stanno lì a dimostrarlo.
Ma la sua naturale fierezza lo porta, come aveva già fatto notare Pirandello, a una sorta di isolazionismo spirituale, per cui in Sicilia manca quasi del tutto lo spirito associativo, e raramente attecchiscono e prosperano le imprese collettive o le società commerciali.
I siciliani, da questo punto di vista, sono veramente un esercito di generali".
Santi Correnti


giovedì 19 settembre 2013

CONTASTORIE DI CATANIA



Un recente post di ReportageSicilia http://reportagesicilia.blogspot.it/2013/06/i-contastorie-gli-ultimi-rapsodi.html ha riproposto le fotografie di due vecchi contastorie palermitani.
L'arte del "cuntu" ha però trovato applicazione fino a qualche decennio fa anche a Catania, soprattutto a villa Pacini ed a villa Bellini; le due immagini ora riproposte in questo post mostrano due contastorie della città etnea.
Come ha scritto Ettore Li Gotti nel saggio "Il teatro dei pupi" ( edito da Sansoni nel 1957, e poi da S.F. Flaccovio nel 1978 ) i contastorie catanesi, a differenza da quelli palermitani, hanno preferito il "cuntu" letto o in versi a quello recitato a memoria o in prosa.
Prima di essere definitivamente cancellati dalla diffusione dei televisori e dei cinema, gli ultimi contastorie siciliani hanno cercato il loro repertorio di storie dai fatti di cronaca, soprattutto di natura passionale: vicende giornalistiche colorite con la voce e le note di una vecchia chitarra, strumenti oggi scomparsi dalle piazze e dalle ville dell'isola.


Le due fotografie riproposte ora in questo post sono attribuite a Publifoto ( "Il folklore, tradizioni, vita e arti popolari", collana del TCI "Conosci l'Italia", 1967 ) ed a Folco Quilici ( "Italia dal cielo", De Donato, 1980 ). 

sabato 7 settembre 2013

IL PASSAGGIO SULLO STRETTO


Per alcuni siciliani, l'attraversamento dello stretto di Messina non è soltanto il prologo o l'epilogo di un lungo viaggio autostradale.
La breve crociera a bordo del traghetto è la più naturale delle occasioni per riflettere sulla loro condizione di insularità, ciascuno con il proprio bagaglio personale e segreto di stati d'animo.
Così, mentre la costa dell'isola si allontana o si avvicina alla vista, questi siciliani si ritrovano per istinto a fare un bilancio di ciò che la loro terra gli ha dato e tolto, e su ciò che il motivo di quel viaggio può regalare o sottrarre alle loro vite: lavoro, affetti, nuove prospettive o sacrifici per la propria esistenza.
In fin dei conti, la logora questione della costruzione del ponte - la più inutile delle discussioni, vista l'improbabilità di una concreta esecuzione dei progetti - non tiene conto di quella valutazione sul valore della traversata in mare, con lo sguardo verso le due coste e la mente immersa nei propri pensieri.
La fotografia dello stretto è di ReportageSicilia.

PASTORI E CONTADINI, GLI SCATTI DI ZANNIER

Pastori, capre e cani nelle campagne
occidentali dell'Etna.
Le tre fotografie di questo post
sono opera di Italo Zannier
e risalgono ad una quarantina di anni fa

Le fotografie di pastori e contadini riproposte in questo post da ReportageSicilia sono firmate da Italo Zannier e vennero pubblicate nell'opera "Monti d'Italia, Sicilia e Sardegna", edita da ENI nel 1975.
Le immagini corredarono un reportage sulla vita quotidiana negli ambienti rurali delle due isole, basato sulla riproposizione delle storie personali raccontate dagli stessi pastori e contadini: una forma di documentazione resa popolare dall'antropologo americano Oscar Lewis - con le sue storie di vita raccolte nelle campagne messicane - e già sperimentata pochi anni prima in Sicilia dal sociologo Danilo Dolci.


L'incontro fra due contadini
in una strada rurale di Canicattì

Nel volume edito dall'ENI, le storie furono tratte dai nastri registrati dal ricercatore del Folkstudio di Palermo Mario Giacomazzi fra gli allevatori, i mezzadri e gli agricoltori della borgata di Calcarelli: ciascuno di loro venne citato con nome, cognome ed età.


Contadino al lavoro
nelle campagne dei Nebrodi

"Sono racconti di persone alle quali storicamente - si legge nell'introduzione del saggio - è stata negata sempre una identità, come è stato negato un nome ai grandi attori popolari che recitano durante i carnevali, ai grandi autori di musiche e di poesie, ai maestri artigiani del legno e del corno, alle straordinarie sarte dei costumi sardi, agli eccezionali raccontatori di fiabe...".  

venerdì 6 settembre 2013

SICILIANDO














"Abituata ormai a Roma da parecchi anni, e preda sempre di una tendenza a scegliere piuttosto il lato oscuro delle cose, mai però così forte come in quest'ultimo viaggio in Sicilia avevo sentito il contrasto violentissimo tra la solarità umana e geografica dell'isola e il suo contraltare cupo e direi arcano; una specie di fatalità, che pesa sugli uomini quanto sulle cose, costringendoli a mostrare insieme il meglio e il peggio della loro natura".
Edith de Hody Dzieduszycka, 
"La Sicilia negli occhi", Editori Riuniti, 2004  

giovedì 5 settembre 2013

DAL BAGUTTA A PALERMO: I PALADINI DI VELLANI MARCHI

Angelica e Orlando,
personaggi del teatro siciliano dei pupi.
I disegni riproposti in questo post
da ReportageSicilia sono
dell'artista modenese
Mario Vellani Marchi e sono tratti
dall'opera "Colori di Sicilia",
edita nel 1953 da ERI.
Il volume contiene un saggio
dello scrittore e giornalista
Orio Vergani, anche lui - come Vellani Marchi -
legato al gruppo milanese
fondatore del premio Bagutta

Chissà per quale fortunosa circostanza due personaggi di primo piano del mondo intellettuale milanese firmarono sessanta anni fa un'opera dedicata al teatro dei paladini ed ai carretti siciliani.
Il caso riguarda il giornalista e scrittore milanese Orio Vergani ed il pittore e disegnatore Mario Vellani Marchi, modenese di nascita e anche lui milanese per adozione artistica.



Nel settembre del 1953, Vergani e Vellani Marchi diedero alle stampe il volume intitolato "Colori di Sicilia", edito da Edizioni Radio Italiana in 800 copie numerate e fuori commercio ( 400 delle quali con una traduzione in francese ).



Per i collezionisti occorre aggiungere che il saggio - accompagnato da un elegante biglietto da visita con l'intestazione "con i complimenti della Radio Italiana" e timbro a secco della città di Palermo - riporta questa indicazione: "Questo libro è offerto dalla Radio Italiana ai delegati degli organismi di radiodiffusione aderenti al Premio Italia", che quell'anno - alla sua quinta edizione - si svolse proprio nel capoluogo dell'isola.



Notazioni storiche a parte sulla genesi del libro, Orio Vergani e Mario Vellani Marchi erano all'epoca due notissimi animatori del premio Bagutta: un cenacolo di amici intellettuali - pittori, scrittori, poeti giornalisti e personaggi dello spettacolo -   riuniti dalla comune frequentazione della famosa trattoria milanese Bagutta.



Già nel 1933 - a testimonianza del vecchio legame fra i due - Orio Vergani aveva scritto il testo di un catalogo di Vellani Marchi ( "Trenta disegni di M.Vellani Marchi" ).
Poi entrambi avevano collaborato per "L'Illustrazione Italiana" e "La Lettura": il pittore modenese - che vantava anche doti di incisore, litografo ed illustratore - corredava con i suoi disegni gli articoli dello scrittore. 
La coppia di amici del Bagutta si ritrovò così a lavorare fianco a fianco a Palermo per la pubblicazione di "Colori di Sicilia".
Il balzo da Milano all'isola, da una città allora al centro dei fermenti culturali del dopoguerra ad una terra ancorata all'eredità di Verga e Pirandello - e dove i cenacoli artistico-letterari erano assenti - non diede luogo ad incertezze nella redazione ed illustrazione del libro.


Orio Vergani curò una introduzione sulla storia del teatro dei paladini e del carretto in Sicilia; Mario Vellani Marchi realizzò invece i sette disegni del teatro dei pupi riproposti in questo post da ReportageSicilia ( una serie di fotografie di carretti portano invece la firma di Claudio Emmer, anche lui milanese e cugino del più famoso regista Luciano Emmer ).
I bozzetti di Vellani Marchi furono eseguiti prendendo a modello il teatro ed i paladini del "puparo" palermitano Giuseppe Argento, che dal 1948 aveva una sede fissa in città in Corso Scinà 107.
In questi disegni, l'artista modenese - all'epoca conosciuto con l'appellativo di "fotografo col lapis" - sfrutta la sua esperienza da disegnatore di bozzetti scenici e figurini maturata alla Scala di Milano: i suoi paladini siciliani mostrano un tratto sicuro, a tratti nervoso, quasi che nel disegno non finissero di esprimere quella carica di vitalità trasmessa dal puparo sulla scena.





Nel suo testo, Orio Vergani descriveva così il carattere degli isolani:
"Non sembra che nell'animo del popolo siciliano siano indicati chiaramente i confini fra il sentimento della religione e il sentimento della cavalleria. 
Santi e cavalieri di Carlomagno apparterranno egualmente a quel tipo eroico che il popolo prediligerà e dal quale trarrà la legge morale che è alla base della sua vita stessa: la legge dell'onore.
Amicizia e tradimento: fedeltà alla parola data e fellonia, sono i due poli ai quali passa la dura legge morale del popolo siciliano.
Gesù e Giuda, Orlando e Gano di Magonza sembreranno i personaggi paralleli di una medesima avventura..."
"Colori di Sicilia" - frutto del lavoro documentario di due protagonisti della scena intellettuale del Bagutta - dimostra infine la capacità di affrontare temi ed argomenti assai lontani dalla loro realtà milanese; una sensibilità storicamente estranea a gran parte degli scrittori e degli artisti siciliani, prigionieri degli steccati rappresentati dai quasi esclusivi temi d'ispirazione loro suggeriti dall'isola.

   

mercoledì 4 settembre 2013

POLIPARI, POLPI E MONETE


La fotografia di Enzo Sellerio ritrae due "polipari" all'opera nel mercato palermitano della Vucciria.
Sul bancone di marmo sono apparecchiati alcuni piatti dove il polpo bollito viene servito a pezzi con l'immancabile condimento di uno spicchio di limone.
Altri piatti vengono utilizzati per raccogliere le monete utilizzate dagli avventori per pagare la loro porzione di polpo: nelle intenzioni dei due "polipari", l'esibizione delle monete serve forse per suggerire ai passanti l'economicità di quel veloce spuntino marinaro.
Lo scatto riproposto da ReportageSicilia è tratto dal volume "Libro di Palermo", edito da S.F.Flaccovio nel 1977, e illustra un aspetto tipico della gastronomia palermitana di strada ancora oggi non del tutto scomparso dai mercati popolari della città.  

martedì 3 settembre 2013

IL FAR WEST SICILIANO DI PIETRO GERMI


Una fotografia di scena del film
"In nome della legge", girato a Sciacca nel 1949
e diretto dal regista genovese Pietro Germi.
ReportageSicilia ripropone nel post
alcuni scatti realizzati durante i set
ed in origine pubblicate nell'opera
"Mediterranea, Almanacco di Sicilia 1949",
edito Industrie Riunite Editoriali Siciliane

Le immagini riproposte in questo post furono scattate nel 1949 a Sciacca sul set del film "In nome della legge", diretto dal regista genovese Pietro Germi; ReportageSicilia le ha rintracciate nel volume "Mediterranea, Almanacco di Sicilia 1949, Industrie Riunite Editoriali Siciliane".
Tratto dal romanzo "Piccola pretura", scritto un anno prima dal magistrato palermitano Giuseppe Guido Loschiavo, il film ebbe come protagonisti gli attori Massimo Girotti - reduce dal successo di "Ossessioni" e qui interprete del pretore Schiavi - Charles Vanel e Camillo Mastrocinque.

Pietro Germi dietro la cinepresa.
"In nome della legge", tratto dal romanzo
"Piccola pretura" del magistrato palermitano
Giuseppe Guido Lo Schiavo,
fu il primo dei numerosi film realizzati nell'isola
dal regista ligure

La vicenda si impernia sulla figura di un giovane pretore inviato in servizio nel piccolo centro di Capodarso dominato dagli interessi del mafioso Passalacqua e dei notabili della zona, in un assoluto clima di omertà.

Si gira il passaggio di un treno
nelle campagne agrigentine.
La storia del pretore Schiavi e del suo incontro
con la società di un paese
fortemente segnato dalla cultura mafiosa
venne critica da alcuni
parlamentari isolani del tempo

Germi completò la sceneggiatura di "In nome della legge" nell'agosto del 1948, avvalendosi della collaborazione di Federico Fellini; quindi partì per la Sicilia alla ricerca dei luoghi dove ambientare il film, scegliendo infine la cittadina agrigentina.

Scena d'ambiente a Sciacca

Secondo quanto scritto dal giornalista palermitano Franz Maria D'Asaro, il regista - che alle spalle aveva soltanto due lungometraggi, "Il testimone" e "Gioventù perduta" - era sbarcato nell'isola senza grandi entusiasmi, "senza una spinta, senza una emozione, diciamo pure in malafede".

Altra foto di scena, nel paesaggio siciliano
a suo tempo descritto da Germi
come "miracolosamente sopravvissuto,
dove in tutto c'è il senso della tragedia"

Dopo la lavorazione del film, i paesaggi e l'ambiente dell'isola avrebbero però modificato quell'atteggiamento ostile, almeno da un punto di vista del loro utilizzo cinematografico.
"Sembra ancora di sentirlo - si legge nel saggio di D'Asaro intitolato "C'era una volta la Sicilia", edito da Thule nel 1979 - stupito con se stesso nello scoprirsi così pieno di emozioni, così fragile, così bisognoso - lui taciturno genovese - di abbandonarsi alla voluttà di confidare il suo amore per una Sicilia che non aveva immaginato tanto ammaliatrice.

Massimo Girotti - sopra e sotto -
protagonista del film
nella parte del pretore Schiavi.
L'attore marchigiano era reduce
dal successo nel film "Ossessioni"

Sono parole sue: 'Ora tutto è diverso. Quel paesaggio! Quell'arsura! Quelle facce! Quelle piazze pavimentate di roccia sconvolta, quelle chiese enormi, cadenti e sontuose, quegli sterminati paesoni di tuguri bianchissimi, scaglionati a distanza nell'enorme solitudine bruciata dal latifondo, e i palazzi baronali, l'ombra cupa degli interni, con i tendaggi e le imposte serrate, e con le carovane dei contadini, con i berretti calati sulle fessure degli occhi, che tornano verso i paesi al tramonto, con il fucile di traverso sulla sella!


Ora, tutti gli elementi del racconto hanno acquistato dimensioni e realtà: la mafia, il barone, i banditi, i poveri, i giardini, le serenate, le schioppettate, l'amicizia, la gentilezza, la crudeltà. Il senso del segreto, della prepotenza, dell'orgoglio.
Un paese di frontiera al confine di tre mondi: la Grecia, l'Africa, l'Europa.
Uno scenario miracolosamente sopravvissuto, dove in tutto c'è il senso della tragedia, del mistero, dell'avventura. e il valore evocativo dei nomi, arabi e spagnoli, dei paesi siciliani: Agira, Lercara Friddi, Agrigento, Misilmeri, Favara...
Ora, pensando al film, c'è un'emozione che mi sollecita qualcosa che mi canta dentro".
Negli anni successivi, l'isola avrebbe ospitato altre cinque volte il regista ligure, circostanza che avrebbe dato un'impronta determinante alla sua produzione cinematografica.
Il rapporto di Germi con la Sicilia avrebbe segnato anche le vicende personali, complice il sofferto rapporto con un'attrice catanese oggi ricordata come una sfortunata meteora del cinema italiano: Daniela Rocca, nota per la sua straordinaria interpretazione della moglie di Fefè ( Marcello Mastroianni ) in "Divorzio all'italiana", diretto dallo stesso Germi. 

Charles Vanel, l'attore francese
che interpretò il ruolo
del mafioso Passalacqua

"In nome della legge" venne accolto subito positivamente dalla critica.
Su "L'Unità", ad esempio, il giornalista Gianni Puccini scrisse all'epoca che il film "è un ritratto fedele, documentato e drammatico della Sicilia: la Sicilia dell'interno, che si raggiunge a fatica per mezzo di una ferrovia stentata e antiquata, e di una sgangherata corriera che traballa su strade polverose e scabre, in mezzo ad un paesaggio disperato, bombardato dal sole pieno; e dove una società contorta e primitiva languisce in un medioevo sanguinoso e immobile". 
Simili giudizi e la stessa produzione del film mobilitarono invece l'indignazione di una buona parte della politica siciliana, miope se non connivente con la mafia: i deputati democristiani Giovan Battista Adonnino - avvocato licatese -  e Filadelfio Caroniti - messinese di San Fratello - presentarono addirittura una interrogazione parlamentare nella quale "Il nome della legge" veniva giudicato "immondo, bugiardo e calunnioso".
I due politici, dando prova di una retorica anacronistica ed ipocrita, affermarono che il film "getta discredito sulle autorità statali e sulla civiltà millenaria della Sicilia".
Pietro Germi respinse queste accuse, spiegando di avere cercato di mettere in luce "alcune caratteristiche della struttura sociale siciliana: il feudalesimo dominante, la miseria dei lavoratori, la mafia al servizio dei baroni".


Nel 1963, nel saggio intitolato "La Sicilia nel cinema", Leonardo Sciascia avrebbe così giudicato "In nome della legge", partendo dal romanzo ispiratore ed aggiungendo una notazione di natura ideologica riguardante l'intera opera di Germi:
" Il Loschiavo, magistrato, partecipa di un'opinione sulla mafia piuttosto diffusa nella classe colta siciliana, la mafia come forza ex lege ma con profonda aspirazione alla legge, alla giustizia, e dunque disponibile per una trasmutazione in forza d'ordine; Germi, trovandosi di fronte ad un'interpretazione della mafia come quella del Loschiavo o, più esattamente, a una materia narrativa improntata a un sostanziale ottimismo e nei riguardi dell'uomo in generale e della mafia in particolare, veniva a scoprire che il West il cinema italiano lo aveva in casa, a portata di mano; che la mafia, tutto sommato, e la Sicilia del feudo, potevano essere assunte nei moduli del western: con personaggi un pò fuori della legge ma pronti a rientrarvi, il buon pretore al posto del buon sceriffo, la plaga del feudo in luogo delle selvagge solitudini dell'ovest..."
"...Germi, socialdemocratico in politica, è nell'arte incline ad un ottimismo in cui individuali rivoluzioni sentimentali vengono a surrogare e ad elidere istanze rivoluzionarie collettive.
Come Frank Capra rispetto al new deal, egli ha fede nella nuova democrazia italiana, nei governi con l'onorevole Saragat alla vicepresidenza: che, è vero, non tirano fuori niente di simile al new deal, ma comunque consentono compromissioni tra la bontà e la legge, tra i bisogni e la speranza...".
"... La scoperta della Sicilia da parte di Germi equivale alla scoperta di una frontiera nella storia nazionale, una specie di frontiera americana nella storia d'Italia: e diciamo nel senso che la nozione di frontiera ha assunto passando in America dalla storia, e dalla teoria storica, al cinema: un mondo, cioè, di sentimenti primordiali che esprime e costituisce da sé la legge e che a suo modo, nella speranza, cammina verso la Costituzione.
Nobilissimo intendimento, e non del tutto astratto: solo che i problemi della Sicilia nella storia d'Italia hanno diversa articolazione...".

Una locandina del film.
L'immagine è tratta da 
siciliafilm.wordpress.com