mercoledì 30 dicembre 2020

CRONACHE DELLA GRANDE SETE DI LICATA

Distribuzione di acqua a Licata.
Le fotografie del post, non attribuite,
furono pubblicate dal settimanale 
"Domenica del Corriere" il 6 giugno del 1967


L'ultima ordinanza che vieta l'utilizzo dell'acqua per usi alimentari a Licata risale allo scorso mese di giugno; alla piaga dell'inquinamento si aggiunge poi quella ancora frequente degli allacci abusivi, che limitano la dotazione quotidiana di acqua per i licatesi.

Nella cittadina agrigentina il problema idrico appare irrisolvibile da sempre. Nel 1559, quando a Licata abitavano circa 6000 persone, non esistevano fontane pubbliche e bisognava rifornirsi dai pozzi di acqua piovana sparsi soprattutto nelle campagne. Qualche anno dopo - il 1538 - entrò in funzione un primo rudimentale acquedotto, con una tariffa fissata in un grano per ogni quartara ( circa dieci litri ).

Nel 1921, fu finalmente deliberata la costruzione di moderno acquedotto e di un impianto fognario; i licatesi dovettero aspettare il 1939 per ammirare i tubi che avrebbero dovuto garantire il trasporto dell'acqua dalle Madonie.




Il sollievo durò però pochi giorni. Il regime decise che quelle condutture sarebbero servite per la costruzione di un acquedotto in Albania: i tubi tornarono nel porto di Licata e da qui presero la rotta verso l'Adriatico. La soluzione del problema slittò così al secondo dopoguerra, quando l'Assemblea regionale siciliana prospettò una legge speciale, rimasta per sempre nel cassetto.

La protesta dei licatesi sfociò in tragedia il 5 luglio del 1960, quando una manifestazione che contestava anche la mancata costruzione di una centrale idroelettrica nel territorio comunale - poi sorta a Porto Empedocle - alimentò una sassaiola contro le forze dell'ordine nei pressi della stazione.

Oltre alle pietre, volarono anche colpi di arma da fuoco che uccisero il 25enne Vincenzo Napoli.  

In quegli anni, la distribuzione idrica a Licata continuò ad essere affidata a carri-botte trainati da cavalli o asini, inseguiti da una processione di uomini, donne e bambini in competizione per riempire pentole, bidoni e ogni altro tipo di contenitore.

Negli anni Cinquanta e Sessanta dello scorso secolo, le fotografie dei carri-botte di Licata diventarono il soggetto preferito di giornali e riviste che spedivano in Sicilia i loro inviati per raccontare la sete d'acqua nell'Isola.

Un esempio è rappresentato da un reportage firmato da Vittorio Paliotti e pubblicato sul settimanale "Domenica del Corriere" il 6 giugno del 1967. L'articolo, intitolato "Una rivoluzione contro la sete", prese lo spunto da un episodio ancor oggi ricordato dagli anziani licatesi: la spedizione da Licata di ventimila cartoline dirette alla Presidenza della Repubblica e del Consiglio, alle redazioni dei più importanti quotidiani italiani ed a cittadini di altre città scelti a casaccio dalle guide telefoniche ancora esistenti più di mezzo secolo fa.

Illustrate con fotomontaggi dei titoli dei giornali siciliani dedicati alla secolare crisi idrica, l'invio delle cartoline - regolarmente affrancate con francobolli da quindici lire - venne promosso da un "Comitato per la soluzione del problema dell'acqua" presieduto da Ernesto Licata, professore d'inglese ex consigliere comunale che molti anni dopo - nel 1994 - sarebbe diventato il sindaco della cittadina.


Ernesto Licata, al centro,
fra gli altri componenti
del "Comitato per la soluzione
del problema dell'acqua" a Licata

Nel suo reportage, Paliotti scrisse:

"Le cartoline vengono poste in vendita a venti lire ciascuna e i licatesi ( ... ) fanno a gara ad acquistarle e ad inviarle alle persone più impensate. E questa 'rivoluzione' già sta dando i suoi frutti, visto che, se non altro, è riuscita a far sapere agli italiani che in Sicilia c'è un città ove non si beve..."

Il motto coniato da Licata - morto quasi centenario nel giugno del 2019 - fu semplice ed esplicito, "Fatti e non promesse". L'esortazione arricchì le espressioni ed i modi dire dei licatesi ispirati dalla carenza della risorsa idrica: da "Se vince Maiorana l'acqua resta a Catania, se vince Lalumia l'acqua resta in ferrovia" ( frase legata ad una competizione elettorale ), a "Che, hai trovato l'acqua?", beffardamente pronunciata dai licatesi ai compaesani che mostravano contentezza. Sembra infatti che in quel 1967, la dotazione idrica pro-capite fosse di appena 19 litri al giorno, contro la media nazionale di 100: una situazione aggravata dalle frequenti infiltrazioni di acque nere nell'acquedotto Tre Sorgenti.

Rimanevano pure semplice promesse le indicazioni di un finanziamento da 10 milioni di euro da parte del ministero dei Lavori Pubblici per la soluzione della crisi idrica e di un risolutivo ma fantomatico progetto di un nuovo acquedotto che il Comune avrebbe dovuto approvare entro il mese di ottobre per dare il via ai cantieri. Di tanto in tanto, grazie ad un contratto fra l'amministrazione cittadina e l'Ente Acquedotti Siciliani per la costruzione di due serbatoi d'acqua, si iniziavano operazioni di scavo che venivano puntualmente interrotte.

Nell'attesa di un intervento concreto, a Licata il tifo e la tubercolosi affliggevano centinaia di persone, costrette a lavarsi contando su una sola ora di distribuzione idrica a settimana.

Spinto dall'immobilismo della politica, oltre a promuovere l'invio delle cartoline, il Comitato diede così corpo all'astensione dal voto dei licatesi in occasione delle elezioni regionali dell'undici giugno: iniziativa che ottenne il risultato sperato, in un clima incandescente di proteste in occasione dei comizi elettorali organizzati a Licata in vista dell'apertura dei seggi.

Accadde infatti che le iniziative guidate da Ernesto Licata costrinsero il presidente del Consiglio Aldo Moro a convocare a Roma il sindaco Giovanni Saito, che pure non gradiva affatto l'invito all'astensionismo portato avanti dal Comitato, accusandolo di strumentalizzare l'emergenza per fini politici e personali.

Dopo quell'incontro romano, la definitiva soluzione del problema idrico a Licata rimase ancora una volta disattesa. Nel 1972, una rete colabrodo ed ancora inquinata dalle acque nere assicurava poche ore di distribuzione settimanale, alimentando un "mercato nero" degno degli oscuri anni del dopoguerra.

Oggi a Licata, dopo vari interventi sulla rete idrica compiuti negli ultimi vent'anni, la soluzione definitiva del problema non è stata raggiunta; ed il ricordo di Ernesto Licata e del Comitato che lottò per l'acqua continua ad essere attuale, ponendosi come esempio di lotta civica per il diritto ad un bene essenziale, mal gestito e spesso sprecato qui e in altri luoghi della Sicilia.


 

venerdì 25 dicembre 2020

IL PRESEPE DI VINCENZO CONSOLO

Presepe palermitano in cera di Luigi Arini.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


In "I nostri Natali ormai sepolti" - racconto pubblicato nel 2001 in "Cantata di Natale. Racconti per venticinque notti di attesa ( San Paolo, Milano ) - Vincenzo Consolo ricordò le "mele gialle e lucide, dolcissime, che impregnavano la casa di profumo" regalate da compare Panascì. Nelle stesse pagine, descrisse così l'allestimento del presepe negli anni dell'adolescenza, ovvero "la nuda creazione di un ritaglio del mondo", frutto di una ricerca lungo le sponde del torrente Rosmarino, tra Alcara Li Fusi e Sant'Agata di Militello:

"Per il presepe, io e mio fratello Melo andavamo prima d'ogni cosa alla ricerca delle pietra laviche, nere e porose. Erano, queste pietre, la base del presepe, formavano, ammucchiate, montagne, valli e grotte. Veniva poi la raccolta del muschio e dello spino. Ed era questa l'avventura lungo il torrente Rosmarino. Un torrente che scorreva incassato dentro alti terrapieni, in mezzo ai giardini d'arance e di limoni. Era la ricerca del muschio e dello spino, ma era anche la caccia alle rane e ai granchi, che scovavamo nelle gore, nel fango, sotto le pietre..."


sabato 19 dicembre 2020

LE CITROEN MEHARI NEL PAESAGGIO DELLE ISOLE DI SICILIA

 

Una Citroen Mehari a Levanzo.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Il blu, l'azzurro ed il verde del mare: a chiazze, a strisce, mischiati l'uno con l'altro.
Il rumore della risacca, ipnotico e uguale da sempre.
Il respiro dei venti, rinfrescante o asfissiante.
L'odore della salsedine.
Quello del pane appena sfornato che finisce subito.
L'ospitalità spesso disinteressata degli isolani.
Il loro orgoglio.
E le Citroen Mehari in plastica e vetroresina, scassate ma coloratissime: muli meccanici capaci di resistere a decenni di maltrattamenti da parte di turisti irrispettosi di uno dei mezzi tecnologici più comuni e preziosi delle isole siciliane.

lunedì 7 dicembre 2020

IL TRAGICO NAUFRAGIO DEL "MADONNA DEL SOCCORSO" DI SCIACCA

Il porto peschereccio di Sciacca.
Fotografia di Gaetano Armao,
tratta dalla rivista "Sicilia"
edita a Palermo
dall'assessorato regionale Turismo e Spettacolo
nel giugno del 1962


Isola di navigatori e di pescatori, la Sicilia; e, di conseguenza, di tragedie del mare la cui memoria finisce con l'essere levigata dal passare dei decenni, facendo perdere il ricordo di nomi di barche affondate e dei loro equipaggi travolti dalle onde.

Una di queste tragedie toccò la mattina del 29 luglio del 1909 alla ciurma del peschereccio di Sciacca "Madonna del Soccorso".

In una giornata di forte vento e di mare mosso, l'imbarcazione colò a picco lungo la costa fra Ribera e Secca Grande. Dei nove pescatori a bordo, ne morirono sette: Ignazio Abruzzese, Giuseppe Sutera, Accursio Corino, Alfonso De Nino, Calogero Bono, Salvatore Curreri e Giuseppe Fiorentini, tutti di Sciacca.



I due superstiti - Marinello Amodio e Ignazio Catanzaro - furono salvati dall'equipaggio del "cutter" di Trapani "Lorenzo", comandato dai fratelli Giacomo ed Alberto Genovese.

Nel 2003, i subacquei del Club Seccagrande guidati da Mimmo Macaluso rinvennero al largo di Borgo Bonsignore i resti di un relitto che potrebbe essere identificato con quello del "Madonna del Soccorso".



L'esplorazione, resa allora difficile dalla torbidità dell'acqua, potrebbe essere ripetuta nei prossimi mesi, riportando così alla luce il ricordo di una dei più gravi lutti sofferti nel Novecento dalle flotte pescherecce della Sicilia.  

  

domenica 6 dicembre 2020

IL PONTE DI SAN BRANCATO CON VISTA SUL "MARE DEI PETRALESI"

Il ponte di San Brancato,
nel territorio di Petralia Sottana.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


La bellezza ambientale di buona parte del territorio delle Madonie è arricchita dalla presenza di manufatti che raccontano la secolare presenza dell'uomo, che qui ha trovato sostentamento grazie all'agricoltura, alla pastorizia ed allo sfruttamento delle risorse boschive.

Una di queste opere è il ponte di San Brancato, nel comprensorio di Petralia Sottana: una struttura di epoca tardo medievale ( datazione comunque incerta, come accade per altri antichi ponti siciliani ), costruita per scavalcare il torrente Mandarini lungo il percorso di una "regia trazzera", percorsa in passato con frequenza da pastori, carbonai e briganti delle Madonie.




Il ponte in pietra ed a schiena d'asino è in buono stato di conservazione; vi si giunge dopo una camminata di una ventina di minuti lungo una strada sterrata prossima all'ospedale di Petralia Sottana. La portata idrica del Mandarini - che qualche centinaia di metri prima di attraversare l'arco di pietra del San Brancato si produce in una suggestiva cascata - è costante e di una certa abbondanza.

Subito dopo avere superato il ponte, l'acqua si raccoglie in una piscina naturale di una certa profondità ed ampiezza, tale da avergli attribuito la fama di "mare dei petralesi" almeno finché la costruzione dell'autostrada Palermo-Catania non li ha avvicinati alle spiagge del Tirreno.




Ancor oggi il ponte di San Brancato è un'opera architettonica perfettamente inserita in un paesaggio boschivo quasi del tutto integro, in un'armonica integrazione fra azione della natura ed intervento dell'uomo.




Dinanzi a questo manufatto - e ad altri storici di più elementare costruzione nelle Madonie -  vale la constatazione espressa da Salvatore Curcio in "L'architettura del Parco delle Madonie per una didattica del progetto" ( in "I tesori architettonici nel Parco delle Madonie", a cura di Giuseppe Antista, Ente Parco delle Madonie, Petralia Sottana, p.112, 2011 ): 

"Il Parco delle Madonie presenta infiniti esempi di costruzioni che, attraverso i materiali, si relazionano con l'ambiente circostante in modo inscindibile.

Se ( consideriamo ) il sapiente utilizzo dei materiali, ci rendiamo conto che il nostro territorio ha molto da rivelare in termini di qualità e di approccio al progetto.



Paradossalmente, in una terra dove l'abusivismo edilizio ha cercato di devastare le bellezze paesaggistiche, sussistono manufatti costruiti sovente da umili contadini non indottrinati, che si presentano all'apparenza poveri ed essenziali, ma che nascondono la complessità del sapere universale, oggi difficilmente apprendibile nelle aule universitarie..."    

lunedì 30 novembre 2020

IL DISINTERESSE DEI SICILIANI VERSO LA BELLEZZA DELLA PROPRIA TERRA

Abusivismo edilizio 
su una spiaggia fra Tusa e Finale di Pollina.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


In sosta su una piazzola di servizio della strada statale 113, fra Palermo e Messina, a ridosso della deserta costa sassosa fra Tusa e Finale di Pollina. C'è un magnifico silenzio, il mare di novembre - blu scuro, appena increspato dal vento - quando lo sguardo scopre proprio a ridosso della battigia un gruppo di casette a schiera: una sfrontata lottizzazione abusiva, visibile a chiunque si sia mai affacciato da  questo luogo per godere di un paesaggio sfregiato da chissà quanti anni.

Di posti così in Sicilia se ne contano tanti, e in un periodo in cui nell'Isola si prospettano nuove sanatorie, ennesimi condoni edilizi. Il primo disegno di legge presentato per questa materia all'assemblea regionale siciliana - in nome del diritto di costruire ovunque, magari con la giustificazione dello "stato di necessità" - risale all'ottobre del 1976

Il provvedimento ebbe il via libera il 30 settembre del 1978, legittimando nell'Isola l'idea stessa che costruire edifici come quelli visibili fra Tusa e Finale di Pollina, con la complicità delle leggi, fosse cosa del tutto lecita.

Secondo uno studio della facoltà di Ingegneria di Palermo, nel solo decennio 1971-1981 sono sorti in Sicilia almeno 345.000 alloggi abusivi. 

Da allora, il cancro cementizio che non ha mai smesso di crescere, deturpando il paesaggio, favorendo la politica clientelare, l'economia illegale e la piaga della burocrazia: sino al 2016, le pratiche di sanatoria edilizia giacenti negli uffici comunali dell'Isola erano oltre 360.000, inequivocabile certificazione del disinteresse dei siciliani nei confronti della bellezza della propria terra. 



domenica 22 novembre 2020

POVERTA' E TUMULTI A TROINA NEL FEBBRAIO DEL 1898

Una veduta di Troina.
La foto di Gaetano Armao
è tratta dalla rivista "Sicilia"
edita dall'Assessorato al Turismo
della Regione Siciliana
nel dicembre del 1973


Le condizioni di miseria di molte province della Sicilia alla fine dell'Ottocento - anticipatrici di una "questione meridionale" mai affrontata e risolta in Italia - provocarono rivolte popolari in molti comuni dell'Isola.

Fra le più gravi, si ricordano quelle avvenute a Troina nel 1898: centinaia di uomini, donne e ragazzi furono protagonisti di disordini con carabinieri, delegati di pubblica sicurezza e soldati dell'esercito mandati in tutta fretta dalla Prefettura di Catania per sedare i tumulti.

Già nel settembre del 1887 - nei tragici giorni di un'epidemia di colera, favorita dall'assenza di una moderna rete idrica e fognaria - le condizioni di miseria a Troina avevano provocato altre rivolte, costate la vita ad un carabiniere.

Le violenze del 1898 ebbero luogo per tutta la seconda metà del mese di febbraio; così il Corriere della Sera riferì quelle più gravi, avvenute nelle giornate del 17 e del 18:

"Una grande moltitudine di contadini di Troina affamati, da molti giorni chiedendo inutilmente distribuzioni di farina e di frumento, assalì il Municipio, penetrò negli uffici, ruppe i mobili, percosse gli impiegati , prese una bandiera e scese in strada chiamando la popolazione alle armi.

Incontratisi con i soldati, cominciarono la sassaiola. I soldati risposero col fuoco. Vi furono quattro morti e una ventina di feriti. furono feriti anche un tenente di fanteria, il delegato Boccafurni e quattro soldati.

I contadini maggiormente compromessi si sono dati, armati, alla campagna. Furono spedite in rinforzo due compagnie. La causa dei gravi torbidi si attribuisce alla scarsezza del lavoro e al rincrudimento delle tasse..."

lunedì 16 novembre 2020

RICORDO DI UNA MEMORABILE PESCA DI RICCIOLE A MARETTIMO

Approdo allo scalo vecchio di Marettimo.
Foto del post
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


"Il Maretimo ha il circuito di otto in nove miglia circa. E' una montagna alta, ed alpestre; non forma alcun seno accessibile, meno di una piccolissima baja, ove può appena ricovrarsi un battello di piccola portata. La sua figura è quasi sferoidale. La parte che guarda il ponente è quasi intrattabile. Quella di levante è un poco meno inclinata, e contiene pochi terreni seminativi. Il rimanente del terreno sarebbe atto ad alberi d'alto fusto, poiché consiste di terra, e piccole pietre. In tutte le stagioni quasi è dominato dai venti, che nell'inverno si manifestano violentissimi. Tali circostanze hanno disanimato i naturali di Favignana a coltivarlo. Vi sono dalla parte di Levanzo alcune sorgenti d'acqua dolce..."  

Questa storica descrizione di Marettimo ( Documento 8, Attività e passività nella gestione delle Isole, con esclusione delle Tonnare, nel 1816, Archivio di Stato Palermo, Real Segreteria, Incartamenti, busta 5401, anno 1816, tratto da "Lo Stabilimento Florio di Favignana, storia, iconografia, architettura", Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Trapani, Regione Siciliana, 2008 )   spiega in maniera eloquente come i marettimari - al contrario degli abitanti di gran parte delle altre isole siciliane - siano stati costretti a diventare abilissimi pescatori.



La natura rocciosa e scoscesa dell'isola ha di fatto impedito la pratica delle colture agricole e la sussistenza è stata quindi da sempre affidata alle fatiche e ai rischi della pesca in mare.

L'abilità degli isolani li ha portati con successo a pescare gamberi e aragoste in California e salmone in Alaska: mari lontani che non gli hanno tuttavia impedito di fare spesso ritorno in quest'angolo delle Egadi, in visita a nipoti e cugini.

Oggi i pescatori di Marettimo - poche decine, sui circa 200 abitanti - si limitano alla pesca di scorfani, polpi, calamari, triglie e lampughe; preda ambita rimane sempre la ricciola, che in passato era molto più presente nelle acque dell'isola.



A testimonianza di ciò, a Marettimo si conserva un targa in marmo che tramanda un'eccezionale pesca di ricciole effettuata il 26 aprile del 1870 da Gaspare Liotti e Vincenzo Spadaro.

L'iscrizione, collocata ai piedi di un altare votivo dedicato a San Francesco da Paola, nei pressi dello scalo vecchio, ricorda quelle in pietra di tufo che all'interno della tonnara della vicina Favignana celebrarono nell'Ottocento le eccezionali annate di cattura dei tonni, in un approccio già industriale delle attività di pesca. 



A differenza delle favignanesi, la piccola targa in marmo di Marettimo rievoca la straordinaria e miracolosa pesca di ricciole di due pescatori usciti in mare per provvedere al quotidiano sostentamento delle proprie famiglie; e, almeno quel giorno di aprile di 150 anni fa, la loro missione risultò talmente fortunata da diventare memorabile.  


domenica 8 novembre 2020

LA DISADORNA E SOLITARIA BELLEZZA DI SCLAFANI BAGNI

Sclafani Bagni,
la chiesa di San Filippo.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Con i suoi trecento abitanti, Sclafani Bagni è il più isolato e tranquillo paese delle Madonie; un luogo che prepara il viaggiatore alla solitudine sin dalle dissestate e deserte strade che permettono di raggiungerla: bellissima quella che la collega a Cerda, che si snoda lungo un anfiteatro di discese e salite su cui si sfidarono i bolidi della Targa Florio.
Arrivati a destinazione, Sclafani Bagni mette in mostra i resti severi del millenario castello e l'architettura di elementare eleganza di un buon numero di chiese, prova evidente dello spopolamento subito dal paese nei secoli.



Il centro abitato ricorda l'ambiente di molti altri paesi delle Madonie, così come descritto nel 1961 dallo scrittore  Giovanni Guaita in "Paesi delle Madonie - I campi da sci della borghesia palermitana" ( "Sicilia", volume I, collana "Tuttitalia", G.C.Sansoni - Istituto Geografico De Agostini, pp.240-241 ):

"Le case sono spesso disadorne, ma di una nudità sincera e civile, l'erosione del tempo e la unicità del materiale impiegato hanno creato una uniformità di tono che non dispiace, ogni tanto le decorazioni di un arco catalano, col loro rigoglio simile a quello di cosa vegetale, o un terrazzo settecentesco, con la sua ricca ringhiera in ferro tutta aperta come un fiore sul paesaggio cittadino, dimostrano un'antica dignità di vita locale...

L'importanza della montagna è espressa in modo scenografico: tutti i paesi le sono disposti intorno in un'alta catena eguale e ininterrotta, senza intrusione di quelle borgate un pò difformi nate nell'Ottocento o nel Novecento ai nodi stradali o ferroviari, o di quelle altre, piatte e aperte, costruite nel Settecento da qualche ricco feudatario.

Sono centri cresciuti su se stessi, ciascuno nel suo angolo di montagna, collegati tra loro da strade rotabili, e collegati invece al territorio interno da un ventaglio di trazzere.
Ma certo la montagna ha sempre agito in un senso conservatore, su una società già tesa sino allo spasimo a conservare i rapporti e le tecniche tradizionali..."   
 

mercoledì 4 novembre 2020

SE ANCHE UN BANDITO IN SICILIA ENTRA NEL RACCONTO DELL'"ISOLA DEL MITO"

Il bandito Salvatore Giuliano.
Sotto, un avviso sulla taglia offerta
per la sua cattura e il corpo di Giuliano
così come venne fatto ritrovare a Castelvetrano.
Le foto sono tratte dall'opera
"Salvatore Giuliano" edita nel 1961 da FM
a cura di Tullio Kezich


"L'uomo non ha cessato, neanche nei tempi storici, di favoleggiare sulla Sicilia, che è la terra stessa del mito: qualsiasi seme vi cada, - ha scritto Cesare Brandi in "Sicilia mia" ( Sellerio editore Palermo, 2003, p.19 ) - invece della pianta che se ne aspetta, diviene una favola, nasce una favola.

Si pensi a cosa era diventato Giuliano: un bandito sia pure, ma così vicino al mito da superare la sua sorte: e il tradimento che lo fece cadavere, fu tradimento non una sistemazione dei conti con la giustizia.



Ma perché la cosa accadeva in Sicilia: in qualsiasi altro luogo sarebbe rimasto un bandito senza aggettivi, e la sua morte un fatto collegato alla vita abominevole che aveva condotto.

Questa è la forza e la spontaneità del mito siciliano..."



martedì 3 novembre 2020

LE RACCOMANDAZIONI DI INGHAM AI VITICOLTORI TRAPANESI

Vitigni nel territorio di Erice.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


"Sono secoli per non dire millenni che i siciliani coltivano le loro vigne con tenacia e fatica immutata; quei ceppi bassi, che si alzano a pochi centimetri dalla terra calda e asciutta dalla quale ricevono l'essenza del loro vigore..."

Così scriveva Claudio Ragaini in una delle note di "Sicilia", edito da Zanichelli nel 1980 con una raccolta di fotografie di Pepi Merisio e un'introduzione di Fortunato Pasqualino.

Oltre un secolo prima - nel 1853 - un catasto borbonico calcolava l'estensione complessiva in 145.000 ettari ed un totale di 774 milioni di viti

Così, oggi i vigneti contraddistinguono e modellano una buona parte del paesaggio dell'Isola: oltre 100.000 ettari, buona parte dei quali nella provincia di Trapani, una fra le più vitate d'Italia.

Qui, i ceppi sfidano in tutte le stagioni i venti di maestrale, levante e scirocco: accade ad esempio su una delle colline ai piedi della rocca di Erice, con una vista che spazia sino a Mazara del Vallo e Marsala.

Proprio in questo angolo di provincia trapanese - ha ricordato Enrico Iachello in "Il vino: realtà e mito della Sicilia ottocentesca" ( "La Sicilia del vino", Giuseppe Maimone Editore, Catania, 2003 ) - nell'Ottocento Benjamin Ingham dettò alcune raccomandazioni che miravano a razionalizzare la coltura e la vinificazione:

"Per la coltivazione raccomandava di liberare i terreni dalle erbacce e far eseguire con accuratezza la potatura, nonché di sollevare da terra, nei mesi di luglio e agosto, i grappoli di uva che 'possono toccarvi' al fine di 'evitare il disgustevole sapore di terra, spesse volte rimarchevole nei vini di Sicilia'.

Raccomandava poi di iniziare la vendemmia solo quando le uve erano 'perfettamente mature' e di non mischiare uve nere e bianche e far attenzione di evitare 'la fermentazione del mosto dei palmenti... sommamente pregiudizievole al vino... adottando a preferenza il metodo di pestare e imbottare, detto pestimbotta'..."

GLI IGNOTI CAPIMASTRI E SCALPELLINI GREGARI DEL "LIBERTY" SICILIANO

Il portico d'ingresso 
di un edificio del periodo "Liberty"
in un bosco del palermitano.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Accanto ai più noti esempi dell'edilizia monumentale e residenziale, della scultura e delle così dette "arti minori", il Liberty siciliano ha lasciato molte tracce del lavoro di decine di semplici capimastri-scultori: anonimi costruttori di edifici in cui vennero riproposti temi architettonici e decorativi di quell'Art Nouveau che tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento ebbe ampia e più nota espressione a Palermo e nelle altre città dell'Isola.



"Essi operavano spesso in proprio - si legge nel saggio di Eugenio Rizzo e Maria Cristina Sirchia "Sicilia Liberty" ( Libreria Dario Flaccovio Editore, Palermo, 1986, pp.18-19 ) - senza la direzione di un architetto: L.Maiorca di Francavilla infatti, nel suo opuscolo relativo alla storia del Palazzo di famiglia sito in piazza Verdi, testimonia che alla fine dell'Ottocento gli ingegneri e gli architetti costituivano un'esigua schiera; ad essi si ricorreva solo eccezionalmente mentre per il lavoro di manutenzione e per le piccole fabbriche era ritenuta sufficiente l'opera dei capimastri.



Questo costume è comune a tutta la Sicilia come attesta la tradizione orale dalla provincia di Trapani a quella di Ragusa; nei centri meno evoluti esso si perpetua in tutta la prima metà del Novecento.

Non di rado dunque ci imbatteremo in costruzioni ideate e realizzate da semplici capimastri..."

Uno di questi edifici - una palazzina rurale immersa in un bosco della provincia di Palermo - versa da qualche decennio in stato di abbandono.

La fabbrica, strutturata su un piano terra ed una prima elevazione, si presenta sostanzialmente integra; l'ingresso è scandito da un portico colonnato che sostiene una terrazza che offre una magnifica vista sulle vallate circostanti.



Qua e là, si scorgono modanature e fregi frutto dell'estro di ignoti capimastri e scalpellini locali.

Il loro fu un ruolo da umili gregari di quella cultura del Liberty che, anche nei suoi protagonisti più noti, ha finito a volte col riproporre un'arte diventata semplice ripetizione di se stessa.      


lunedì 19 ottobre 2020

GLI INSOSTENIBILI ONERI DELLE SFARZOSE VILLE DI BAGHERIA

Il prospetto di villa Larderia,
a Bagheria, privo di balconi.
Foto tratta da "Le ville di Palermo",
opera citata


Sontuose ville punteggiarono la piana agricola di Bagheria soprattutto nel secolo XVIII, quando le famiglie aristocratiche del tempo gareggiarono in sfarzosità nel costruire scenografiche dimore di villeggiatura, non lontano da Palermo.

Sembra che il costo di villa Palagonia - una delle più note residenze bagheresi del periodo - abbia superato quello di qualsiasi altra coeva villa palermitana, con l'utilizzo di materiali pregiati e di opere di scultura mai prima esibite in edifici rurali.

Capitava così che i proprietari abituati all'impiego del marmo di Billiemi e di complessi apparati decorativi non riuscissero a terminare l'originario progetto della villa, dilapidando i propri averi nell'acquisto del materiale e nel pagamento di operai ed artigiani.

E' quanto forse accadde - secondo quanto riferito nel 1965 da Gioacchino Lanza Tomasi - per villa Larderia, oggi inglobata nel centro urbano di Bagheria ed i cui lavori furono interrotti dalla famiglia Moncada nel 1753, pochi mesi dopo l'apertura del cantiere.

Lanza Tomasi ricordò così le dissennate spese economiche sostenute per la costruzione di molte dimore di villeggiatura nel palermitano:

"La villa Larderia costruita verso la metà del Settecento - si legge in "Le ville di Palermo", Edizioni "Il Punto", Palermo - è l'unico esempio di residenza a pianta stellare che s'incontri nel palermitano.

Essa rimase incompiuta, in quanto dopo l'apertura del Corso Butera, i suoi spazi vennero subito occupati dalle nuove arterie bagheresi e la fabbrica sbozzata, passò presto in mano di una congregazione religiosa.

Le membrature superstiti del finestrone, i timpani e le mensole, che non ricevettero mai i balconi, ne fanno un relitto suggestivo ed imponente.

L'incompletezza delle fabbriche non è un fatto raro in una società che stentava a misurare le sue reali forze economiche, molte fra le ville maggiori furono costruite ( e potevano arrestarsi spossate per esaurimento di questi temporanei rinsanguamenti ) con le doti delle ereditiere, da famiglie i cui patrimoni erano da tempo impegnati in soggiogazioni"

domenica 18 ottobre 2020

LA PALERMO PUBBLICITARIA DI MINO MACCARI



Giornalista, vignettista satirico, disegnatore, incisore e pittore, Mino Maccari ( 1898-1989 ), senese, è stato uno degli artisti più eclettici del Novecento italiano, specie negli anni che hanno preceduto e seguito il secondo conflitto mondiale.

A lui si deve, fra gli altri, un reportage compiuto nell'aprile del 1929 a Lipari con preziose indicazioni sulla vita dei confinati che il fascismo volle allontanare dalla vita politica del Paese.

Nel vastissimo repertorio della sua attività di disegnatore, alla fine degli anni Quaranta dello scorso secolo Maccari realizzò per fini pubblicitari alcune vedute delle più importanti città italiane: fra queste, Palermo.



Il committente dell'opera - pubblicata in quel periodo anche dal settimanale "L'Europeo" - fu l'AGIP di Enrico Mattei, l'Azienda Generale Italiana Petroli che si valse in più occasioni dell'apporto di Maccari; nel 1951, con la realizzazione di 12 disegni per il volume di Marcello Boldrini "Questa è l'Italia: preludio a un giro turistico", l'anno successivo, in qualità di giurato della commissione che scelse il famoso cane a sei zampe come logo dell'AGIP.



La veduta palermitana di Maccari inquadra la Cattedrale di fondazione normanna, dietro la quale si stagliano l'edificio del Teatro Massimo e la mole incombente di monte Pellegrino: una rappresentazione di maniera, con sicuro tratto grafico ed una impronta di modernismo rappresentato dalle tre stilizzate automobili che utilizzano il carburante dell'azienda. 

  

martedì 6 ottobre 2020

UN INTERESSATO INGANNO DEI TONNAROTI DI PORTO PALO DI CAPO PASSERO

Gruppo di pescatori
a Porto Palo di Capo Passero.
La fotografia venne pubblicata
nell'opera "Italia Nostra", volume 4,
edita nel 1965 da Federico Motta Editore


La tonnara di Capo Passero ha avuto una storia secolare, ed una fama di pescosità che meritò le attenzioni dello scrittore romano Caio Giulio Solino - sua l'indicazione della "magna thynnorum copia" del mare di Pachino - e, in seguito, del poeta pisano Fazio degli Uberti.

Quest'ultimo, nel XIV secolo, riferendosi all'abbondanza dei tonni di quel mare, scrisse:

"Passato Compassaro e volti al canto di Pachino, vedemmo andare in frotta tonni per mare che parea un incanto..."

Oltre che per l'abbondanza di tonni, questa tonnara siracusana ebbe notorietà per un'altra e meno rimarchevole fama: gran parte dei tonnaroti venivano infatti designati fra i reclusi del carcere allestito all'interno del forte dell'isolotto di Porto Palo di Capo Passero.

Di conseguenza, pare che durante le attività di pesca dei tonni, i galeotti non mancassero di dare corso a qualche espediente che permettesse loro di arrotondare i miseri compensi ricevuti dai proprietari della tonnara.



"Secondo una voce raccolta a Portopalo presso alcuni ex-tonnaroti - ha scritto Sebastiano Burgaretta in "L'isola di Capo Passero", edito dall'Ente Fauna Siciliana nel 1988 - nei primi del Novecento, quando le annate registravano abbondante passaggio di tonni, qualche tonnaroto si prestava, clandestinamente e dietro lauto compenso, ad assecondare gli interessi e le manovre di qualche commerciante privo di scrupoli, il quale intendeva forzatamente fare alzare il prezzo dei tonni limitandone la mattanza, a seconda delle condizioni di mercato.

A tale scopo si ancorava di notte una carogna di capra nella zona di mare in cui passavano i tonni, i quali pare che venissero allontanati dal cattivo odore della carogna.


Quando il commerciante aveva smaltito il pescato giacente in magazzino, allora, sempre clandestinamente, la carogna veniva rimossa dal tonnaroto connivente.

Si spiegavano così repentini e periodici movimenti di tonni che apparivano inspiegabili agli stessi tonnaroti..."


domenica 27 settembre 2020

LA COLAZIONE DEI "PISTATURI" DI MONTE ILICE

Il pasto dei "pistaturi" durante una vendemmia.
La fotografia è di Enzo Sellerio
ed è tratta dalla rivista "Sicilia"
pubblicata a Palermo nel marzo del 1964


Nell'ottobre del 1923, Ercole Patti fu testimone del rito della spremitura dell'uva sul cratere avventizio di monte Ilice, fra Trecastagnani e Zafferana Etnea.
Nell'area di un palmento, gruppi di "pistaturi" - i pestatori - diedero allora vita ad un'attività agricola legata alla vendemmia che per secoli ha rappresentato uno dei momenti di più forte aggregazione e coesione per i braccianti in Sicilia.
Pur nella durezza delle condizioni di lavoro proprie di una vendemmia, infatti, i "pistaturi" avevano infatti l'occasione di rivendicare ed ottenere alcune concessioni dal padrone della vigna, a partire dal vitto e dall'alloggio.
Come ha ricordato Eugenio Magnano di San Lio in "Le architetture del vino" ( pubblicato in "La Sicilia del vino", Giuseppe Maimone Editore, Catania, 2003 ), la loro fatica

"Era una festa durante la quale, almeno nel linguaggio, era permesso più di quello solitamente lecito, un baccanale che si ripeteva così da secoli, a dispetto dei padroni della vigna e dei sorveglianti che arcignamente badavano solo al lavoro.
Si mangiava insieme e il vitto era a carico del padrone ch'era tenuto a rispettare certi diritti consuetudinari, come quello per cui nella minestra dovevano essere lasciati i gambi dei prelibati peperoni, affinché il capo ciurma ne potesse verificare il numero, per come stabilito negli accordi.
Le donne dormivano in locali separati da quelli degli uomini ma la vendemmia era ugualmente una buona occasione per conoscersi e combinare qualche matrimonio..."
 
Di quella rude convivialità fra i "pistaturi", Ercole Patti fu attento e felicissimo narratore, grazie ad una scrittura nitida e voluttuosa, attenta a cogliere gesti e umori dei suoi protagonisti ( qualità presenti nella fotografia di un pranzo di pestatori scattata anni dopo da Enzo Sellerio, riproposta nel post da ReportageSicilia ):

"Davanti alla porta del palmento verso le otto del mattino - si legge in "Diario siciliano", Bompiani, Milano, 1971  - la massara prepara la colazione per i pigiatori; taglia grosse fette di formaggio salato e oleoso, dispone le acciughe e i peperoni arrostiti su ruvidi piatti, stacca grandi fette triangolari di pane fitto e pesante, riempie un bariletto di vino rosato e limpido che diffonde intorno nell'ora mattutina un profumo inebriante.
I pigiatori con le gambe inzaccherate di mosto e di chicchi di uva spremuti scendono giù dalle scalette di lava siedono sull'orlo di una tina, cavano fuori i coltelli e cominciano a mangiare piano piano.
Mangiano con gusto e attenzione tagliando strisce di pane su cui adagiano con cura un'acciuga, un pezzetto di peperone.
Il bariletto passa di bocca in bocca, gli uomini lo sollevano in aria, incollano le labbra al buchino laterale e mandano giù tre o quattro sorsate di vino senza versarne neanche una goccia..."

martedì 22 settembre 2020

LA "VERITA' MOMENTANEA" DEI RACCONTI FOTOGRAFICI DI SCIASCIA

Caltagirone.
Le fotografie del post sono di Leonardo Sciascia
e sono tratte dal catalogo "Leonardo Sciascia.
Sulla fotografia", opera citata

Per volontà della famiglia, gli archivi privati di Leonardo Sciascia hanno resa pubblica la passione dello scrittore e saggista per la fotografia, testimoniata dalla mostra inaugurata sabato scorso a Racalmuto dalla "Fondazione Sciascia".

La rassegna propone 27 scatti che l'autore realizzò durante i suoi viaggi in Sicilia e lontano dall'Isola, da solo o con la famiglia.

La mostra ( visitabile sino al 21 febbraio del 2021 ) segna l'inizio delle manifestazioni per ricordare il centenario dalla nascita di Sciascia.

Curato dal critico, storico e saggista Diego Mormorio, l'allestimento racconta l'attenzione dello scrittore anche per la vita quotidiana del suo paese.

Vi si scorgono i giochi di strada dei ragazzini, un pecoraio che vende casa per casa il latte, mungendo la capra sulla soglia delle abitazioni; visione - quest'ultima - che rimanda alla raccolta sciasciana di modi di dire e comportamenti della civiltà rurale di "Occhio di capra".

Davanti a una casa,
opera citata

Nella prefazione al catalogo della mostra ( "Leonardo Sciascia fotografo", Mimesis / Sguardi e Visioni, Sesto San Giovanni, 2020 ) Mormorio scrive:

"Alla fine degli anni Settanta, a ridosso di quello che per alcuni di noi era stato un anno fatidico, il 1977, cominciai ad occuparmi di fotografia per alcuni giornali dell'estrema sinistra. Una domanda mi veniva continuamente in mente: in che modo la fotografia può contribuire alla verità e alla lotta politica?

Era quasi un assillo, e durò fino al 1982, fino a quando cioè lessi la prefazione di Sciascia al libro 'Capuana, Verga, De Roberto fotografi' dell'amico Andrea Nemiz: 

'Cosa è la fotografia' - scriveva Sciascia - 'se non verità momentanea, verità che contraddice altre verità di altri momenti?'.

La frase non poteva non finire in una delle discussioni del 'Gruppo libertario di controinformazione fotografica' che avevamo costituito.

Normalmente, si sentiva dire che la fotografica dice la verità. E la cosa non mi piaceva. Quale verità?

Randazzo,
opera citata


Nonostante tutti gli appelli gli anni passati, ricordo quasi perfettamente ogni parola che ci siamo detti in una saletta di Radio Città Futura, in piazza Vittorio a Roma.

Sciascia aveva ragione, la fotografia è verità momentanea e, soprattutto, 'verità che contraddice altre verità in altri momenti'. In questo senso poteva essere la nostra verità contrapposta a quella dei giornali che rappresentano gli interessi del potere.

Borgo siciliano,
opera citata


Nonostante tutta l'acqua passata e le disillusioni, la frase rimane indimenticabile. Spesso mi trovo ad associarla a un brano del 'Gattopardo':

'In nessun luogo quanto in Sicilia la verità ha vita breve: il fatto è avvenuto da cinque minuti e di già il suo nocciolo genuino è scomparso, camuffato, abbellito, sfigurato, oppresso, annientato dalla fantasia e dagli interessi; il pudore, la paura, la generosità, il malanimo, l'opportunismo, la carità, tutte le passioni - le buone quanto le cattive - si precipitano sul fatto e lo fanno a brani; in breve è scomparso'.

Così, un giorno che venne chiesto come mai la Sicilia ha avuto così tanti importanti fotografi, risposi - e ne sono ancora convinto - che molti siciliani sentono un particolare bisogno di verità, perché, in questo nostro posto, come dice Tomasi di Lampedusa, la verità sembra non esistere"