Translate

venerdì 12 febbraio 2010

LAMPIONE, LO SCOGLIO DEGLI SQUALI






Gli scatti di Lampione del subacqueo e fotografo Roberto Merlo, pubblicati sul mensile 'Mondo Sommerso' nell'agosto del 1964. Il reportage documentò la presenza degli squali grigi nelle acque dell'isolotto deserto del Canale di Sicilia, al largo di Lampedusa. Secondo Merlo, ad attirare questi pesci predatori - tuttora presenti a Lampione - sarebbe stata anche la pesca con il tritolo praticata allora dai pescatori lampedusani: gli squali si sarebbero cibati dei pesci uccisi dalle deflagrazioni e sfuggiti alle reti
  
“Cominciamo a vedere dei fusi oscuri – più scuri dell’ambiente – squali. Uno, due, sono in molti. Vengono a curiosare verso di noi e, ad una decina di metri, deviano in ampi giri. Uno di loro è veramente grosso. Potrà misurare tre metri, tre metri e mezzo. Ha un corpo tozzo, è sicuro di sé, azzarda qualche puntata più vicina. ( … ) Gli squali sono ora più diffidenti. Ma uno, sui due metri, vuole vedere chi siamo. Romano gli va incontro e larghe falcate, gli si affianca. Un boato e lo squalo è colpito. E’ il primo squalo catturato a Lampione da un subacqueo. Siamo esultanti”.

Quello proposto da REPORTAGE SICILIA è probabilmente uno dei primi articoli giornalistici dedicati agli squali di Lampione, il grosso roccione deserto che si erge sul mare del Canale di Sicilia, 12 miglia ONO da Lampedusa e già noto ai naviganti di epoca greco-romana con il nome di ‘Schola’; di quell'epoca, rimangono le tracce restituite dall'archeologia sottomarina: ceppi, contromarre d'ancora e lingotti in piombo, anfore di tipo africano ed anche una grande macina a doppio invaso.  La storia di questo estremo lembo d’Italia, geologicamente legato alla piattaforma continentale africana, lascia spazio a poche indicazioni: un divieto di approdo per motivi sanitari – motivato dal rischio di contagio della peste libica, nel 1783 – e la scoperta tra i fondali dello scoglio, nel 1897, di un florido banco di spugne nere, oggetto di razzia ad opera di pescatori greci e dalmati.

Il reportage venne pubblicato nell’agosto del 1964 dalla rivista ‘Mondo Sommerso’, a firma del subacqueo Roberto Merlo. Quest’ultimo, poche settimane prima vi aveva organizzato una spedizione di tre giorni, proprio con l’intento di documentare la presenza degli squali. Grazie all’aiuto di Raimondo Di Malta, definito “il famoso oste di Lampedusa”, un paio di pescatori della maggiore delle Pelagie trasportarono a Lampione l’equipe di subacquei, ed i viveri necessari alla sopravvivenza su quel rettangolo di terra lungo 250 metri ed alto 36, popolato solo dalle berte maggiori, da lucertole e formiche di origine africana.

Il reportage di ‘Mondo Sommerso’ restituisce l’immagine crudele della caccia con il fucile agli squali – una pratica oggi fortunatamente avversata dalla maggioranza dei subacquei – ed i colori del mare di uno dei pochissimi luoghi ancor oggi davvero selvaggi del mar Mediterraneo. Ai nostri giorni, Lampione ospita un colonia di squali grigi e squali martello. Il lato occidentale dell'isolotto - il più spettacolare - prosegue sotto il pelo dell'acqua con una grande ricchezza di flora multicolore ed anfratti, sino ad un pianoro di roccia chiara con centinaia di ricci di scogliera. Nel 1964, le fotografie di Roberto Merlo documentarono una circostanza da mettere forse in relazione alla presenza degli squali: l’utilizzo del tritolo da parte dei pescatori provenienti da Lampedusa, all'epoca impegnati nella razzìa di centinaia di grosse ricciole. “La notte è gelida, la tramontana ci ha intirizzito le ossa. Mentre appena alzati ci scaldiamo qualcosa – scrive Merlo – ci scuote un gran boato. Corriamo verso il sommo dello scoglio e possiamo scorgere un peschereccio con l’equipaggio che scruta in acqua. Hanno lanciato il tritolo. Forse era un branco di ricciole. Ora sappiamo perché a Lampione ci sono gli squali. Troppi bombardieri da queste parti assolutamente incontrollati. Il fondo è deserto di fauna e di flora. Passano solo le ricciole e, pronte ad attenderle, trovano le bombe. Poi, quelle che cadono su fondali troppo alti, finiscono in bocca ai pescecani, avvertiti della mangianza da lunga consuetudine”.

giovedì 4 febbraio 2010

SICILIA DI IERI: LA FOSSA DEL GALLO

Il mare palermitano di Barcarello e della Fossa del Gallo
( Depliant turistico tedesco di Palermo, fine anni Cinquanta )

martedì 2 febbraio 2010

PALERMO, 72.000 KM IN GIRO PER IL MONDO

La copertina del primo numero del bimestrale 'Italia Mondo' che, nell'aprile del 1953, documenta il giro del mondo automobilistico da Palermo a New York.
Sotto, nell'ordine, la 'Monterosa' Fiat 1100 ritratta a Manila; l'autore del viaggio, Franco Nacci, editore e direttore della rivista; l'arrivo in Arizona, durante l'ultima tappa del tour, tra San Francisco e New York. La maratona di Nacci partì dalla Sicilia il 31 dicembre del 1950 ed ebbe conclusione a Palermo 22 mesi dopo, al termine di 72.000 chilometri.




Ventidue mesi di viaggio solitario in auto, fra le strade di tre continenti e di 33 Paesi, per un totale di 72.000 chilometri. L’impresa, che ai nostri giorni manterrebbe intatto il suo fascino, assume maggiore valore se la collochiamo temporalmente nella metà del secolo scorso. Esattamente il 31 dicembre del 1950, una vettura allestita dalla carrozzeria Monterosa di Torino su autotelaio Fiat 1100 partì da Palermo con il cofano rivolto verso Oriente e destinazione finale New York. Autore della maratona meccanica fu Franco Nacci, da poco fondatore e direttore della rivista ‘Italia Mondo’, bimestrale di “vita italiana nel mondo” pubblicato a Palermo ( la redazione era ubicata in via Mariano Stabile 60 ) e nato – come recitava nel suo box di presentazione – “per l’aiuto morale e per il contributo materiale di molti italiani ed amici d’Italia”.


Il ‘lancio’ del bimestrale, appunto, fu preceduto dal viaggio fra Palermo e le coste orientali degli Stati Uniti, per un periodo complessivo di 22 mesi: il resoconto dell’impresa venne pubblicato sul primo numero di ‘Italia Mondo’, datato aprile-maggio 1953. Il reportage della traversata automobilistica raccolto ora da REPORTAGESICILIA trasuda spirito di pionierismo. “Dopo avere attraversato lentamente tutta l’Italia – vi si legge - valicammo ai primi di marzo del 1951 il confine svizzero, dirigendoci da Domodossola su Ginevra, in una marcia notturna disperatissima, sotto una eccezionale tempesta di neve, con un tergicristallo fuori uso, un thermos senza caffè ed una radio senza musica”. Il racconto di Nacci restituisce oggi pezzi di storia europea, così come essa si presentava pochi anni dopo la fine del secondo conflitto mondiale. “Attraversate velocemente una Germania in evidente ripresa ed un’Austria ancora incrociata da pattuglie internazionali, siamo entrati da Maribor nella Jugoslavia dell’oggi presidente Tito, dove abbiamo goduto la rara possibilità di vagare e di fermarci liberamente, immagazzinando interessanti osservazioni e preziosi insegnamenti ed entrando abbastanza profondamente in contatto con l’animo di questo popolo ed i riflessi di quelle situazioni”.


La corsa europea della Monterosa-Fiat 1100, curiosamente targata PA18000, proseguì da Graz, attraverso Zagabria e Nish, sino al confine bulgaro di Dimidrograd, dove Nacci ebbe modo di notare “una pattuglia senza sorrisi, che, inesorabilmente, ci rimbalzò indietro malgrado i regolari visti dalla indivisibile ‘ cortina di ferro’”. Poi, dopo un complicato giro attraverso la Macedonia e Salonicco, il tour toccò la Turchia ed il traghettamento del Bosforo, “con un commosso arrivederci all’Europa ed un primo, preoccupato sguardo a quella temibile Asia che con le sue immense distanze, brucianti deserti e religiosi fanatismi si ergeva minacciosa ed implacabile dinanzi ad un piccolo uomo ed ad una fragile auto, soli in un mondo strano, senza la minima speranza di comprensione, simpatia od assistenza”. Da qui, il viaggio promozionale proseguì in Medio Oriente – Beirut, Damasco e Baghdad “con il suo clima impossibile e l’atmosfera poco amichevole” – sino alla capitale dell’Iran, Teheran, allora scossa dalle tensioni che anticiparono il colpo di stato ai danni del primo ministro Mohammad Hosaddeq.


Di lì a poco, il lungo viaggio avrebbe conosciuto il tratto più duro: i quasi 4.000 chilometri dei deserti dell’Iran, dell’Afghanistan e del Pakistan, percorsi in pieno agosto. Nel diario di bordo, Nacci ricordò “la temperatura media di 60°, dove uomini e vita venivano incontrati soltanto a grandissimi intervalli di vuoto, dove la benzina era difficile a trovarsi, i viveri assolutamente immangiabili e l’acqua così sporca che a guardarla attraverso un bicchiere, con un po’ di buona volontà, si potevano osservare i microbi giocare a pallanuoto”. Nel “deserto del sale”, una depressione fra Bam e Zahedan, il viaggio cominciato a Palermo rischiò di finire anzitempo, a causa di un profondo insabbiamento dell’auto, risolto “dopo 16 ore di solitario lavoro di scavo”.


L’arrivo in India – una tappa anche a Nuova Dehli ed al Taj Mahal – fu quindi il prologo all’imbarco sul ‘Bintang’, per una traversata di 22 giorni attraverso Indonesia, Filippine, Giappone ed Hawai, sino alla “grande bocca senza denti del Golden Gate bridge di San Francisco, dove ricevemmo l’affettuoso benevenuto di quella magnifica comunità italiana che, come prima cosa tenne ad offrirci una completa revisione e riverniciatura della vettura oltre al primo grosso nucleo abbonati di questa rivista”. Da qui, Nacci e la sua Monterosa-Fiat 1100 percorsero 8.000 chilometri attraverso 80 città degli Stati Uniti, confortati dall’accoglienza – e dalle sovvenzioni – delle comunità di siculo-americani. Le fatiche di guidatore e vettura ebbero quindi termine a New York; qui, dopo un mese di soggiorno e di intense ‘pubbliche relazioni’, il fondatore e direttore di ‘Italia Mondo’ si imbarcò sul ‘Biancamano’ diretto a Genova, in vista del “conclusivo colpo di freno a mano a Palermo”.

A distanza di 60 anni da quel giro del mondo targato Palermo, non conosciamo quale sia stata la sorte di Franco Nacci, né del suo bimetrale, né dell’automobile che affrontò il faticoso viaggio: e così, quel vecchio reportage rimane oggi una delle poche testimonianze di quella che Nacci definì “la storia semplice e breve di un uomo, di un’auto e di una idea proiettati in un eccezionale messaggio mobile della nostra Italia sulle più difficili ma anche più belle ed indimenticabili strade del mondo".