Translate

martedì 26 ottobre 2021

IL PROSSIMO VOLO DEI GRIFONI NEL PARCO DELLE MADONIE

Uno dei grifoni
ospitati nella voliera ad Isnello.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Sterminati dall'ingestione di stricnina aggiunta alle esche utilizzate per uccidere volpi e gatti selvatici - carogne poi diventate loro cibo - nel 1965 i grifoni scomparvero dai cieli della Sicilia. Fu una delle tante perdite del patrimonio faunistico dell'Isola, in anni in cui la completa assenza di una sensibilità per la tutela del territorio e della natura provocò danni ambientali irreparabili. Nei primi anni 2000, un tentativo di ripopolamento dei grifoni nell'area del Parco dei Nebrodi diede risultati positivi: una ventina di esemplari importati dalla Spagna trovarono il loro habitat ideale nel territorio di Alcara Li Fusi e delle Rocche del Crasto



Oggi la colonia di grifoni del messinese raggiunge le 170 unità; fra qualche anno, il ripopolamento potrebbe restituire questi rapaci anche al Parco delle Madonie, territorio che in passato è stato uno dei siti più frequentati dai grifoni in Sicilia. Il progetto per la loro reintroduzione è stato avviato pochi giorni fa nel territorio di Isnello. Una ventina di esemplari provenienti dal Parco dei Nebrodi sono stati posti all'interno di una capiente voliera. Vi rimarranno per un periodo di acclimatamento, al termine del quale i grifoni - a coppie - saranno liberati nei pressi del vicino massiccio montuoso di Pizzo Carbonara: un luogo ideale per la nidificazione, ricco di quella fauna selvatica che costituisce il cibo di questi redivivi frequentatori delle montagne siciliane. 



Il progetto di reintroduzione dei grifoni - che potrebbe essere riproposto anche nell'area palermitana della Rocca Busambra - è stato promosso dai Parchi dei Nebrodi e delle Madonie, con il contributo dell'Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Sicilia e del Rotary Club Sicilia-Malta, che ha finanziato l'allestimento della voliera.  

UN POETA FINLANDESE E GLI INTERROGATIVI SULL'OSPITALITA' SICILIANA

Il poeta finlandese Yryo Kaijarvi.
Nel 1951 scrisse della Sicilia nell'opera
"Viaggio in Italia".
Foto tratta da "Sicilia Turistica",
luglio-agosto 1954


L'innata ospitalità dei siciliani è uno dei luoghi comuni più radicati nell'opinione dei non siciliani; gli abitanti dell'Isola, esattamente al pari di tutti gli altri italiani, hanno nei confronti dell'ospite un atteggiamento variabile, dettato dalla loro personale affabilità e propensione all'accoglienza. Certo, in Sicilia ci sono fattori culturali ed ambientali che favoriscono la socializzazione tra le persone: il clima generalmente benevolo, i piaceri della gastronomia, le condizioni economiche che limitano modelli e logiche comportamentali a volte distorte dalla quotidianità della civiltà industriale.   Altre volte, l'ospitalità del siciliano si lega al sentimento dell'orgoglio, estremo sostegno a condizioni di vita giudicate svantaggiate ( pensiamo alla frequente necessità dell'emigrazione ): la disponibilità può nascere allora dalla volontà di non deludere le aspettative ed i bisogni del forestiero. 

Foto di Leonardo Von Matt,
pubblicata in "La Sicilia antica",
edito da Stringa Editore Genova nel 1964


In casi limite - come fa dire Leonardo Sciascia ad un Ippolito Nievo scettico dinanzi al servilismo di un barone che accoglie generosamente a pranzo Garibaldi - l'ospitalità può essere generata dal timore ( "Io direi, generale, che quest'uomo ha per noi tutto l'entusiasmo della paura... Mi son fatto ormai opinione sicura sui siciliani: e costui mi pare abbia molto da nascondere, da farsi perdonare; e forse ci odia..." ).



Fra gli stranieri che si sono posti qualche interrogativo sull'ospitalità dei siciliani figura il poeta finlandese Yrjo Kaijarvi. Traduttore nel suo Paese delle opere di Palazzeschi, autore di numerose conferenze sull'Italia in istituti culturali finnici, nel 1938 e nel 1949 viaggiò nell'Isola, riportando le sue impressioni in "Viaggio in Italia" ( Helsinki, 1951 ). In quest'ultimo saggio, Kaijarvi descrisse la Sicilia depressa del secondo dopoguerra; una condizione che appare evidente durante la sua visita ad Agrigento, nel corso della quale il poeta finlandese si imbatte nelle contorte logiche dell'ospitalità siciliana:

"La vita appare meschina e povera. Una profonda tristezza sembra posare su tutto come una pesante nuvola. L'Africa è vicina, là dall'altra parte del mare. Qui molte civiltà accavallatesi, o meglio affiancatesi, ed una più assorbita dell'altra, sono sempre presenti, Oriente e Occidente... L'aria è calda, ho sete, un bicchiere di vino mi farebbe bene, e così lungo la strada che conduce alle rovine del tempio di Giove entro nell'abitazione di un contadino: una desolante stanza di pietra, povera e nuda. 



Chiedo un bicchiere di vino. Egli me ne porta tutta una bottiglia. Quando mi offro di pagargliela, non ne vuol sapere: sono suo ospite. Non mi permette nemmeno di dare qualcosa ai suoi bambini. Grazie, contadino della Valle dei Templi, della tua calda gentilezza. Sembra che l'ospitalità in Sicilia sia una cosa naturale, eppure delicata: la si può facilmente offendere. Mi viene in mente uno studente siciliano conosciuto a Venezia. La seconda volta che ci trovammo andammo a passeggiare e chiacchierare in piazza San Marco, e lo pregai di bere con me un bicchiere di Cinzano. Naturalmente volli ad ogni costo pagare, e mi sentii dire: "Lei mi offende, in Italia lei è mio ospite". Solo dopo molto discutere riuscii a pagare. Un bel gesto? Forse. Forse no"        

martedì 19 ottobre 2021

lunedì 18 ottobre 2021

LA SCOPERTA DI HONOR FROST DELLA NAVE PUNICA A MARSALA

Fotografie dello scavo
archeologico subacqueo nel 1971
esposte all'interno
del Museo Archeologico Regionale Lilibeo Marsala


Il 9 agosto del 1971 una missione archeologica britannica guidata dalla ricercatrice subacquea Honor Frost, lavorando nell'area dello Stagnone di Marsala - a poche centinaia di metri da Mozia - individuò a poco più di tre metri di profondità il fasciame di una nave punica: una delle prime scoperte nel tratto di mare fra Tunisia e Sicilia. Come in tutte le storie dell'archeologia subacquea e dei reperti che giacciono sui fondali marini, la storia di questo eccezionale ritrovamento fa registrare un prologo poco noto; sembra infatti che il relitto fosse stato individuato nell'agosto del 1969 durante un dragaggio di sabbia compiuto da alcuni operai di una fabbrica di bottiglie di vetro. Nell'estate del 1970, Honor Frost - una pioniera nell'esplorazione subacquea dei relitti del mondo antico mediterraneo - avviò le prime campagne di studio nello Stagnone di Marsala, culminate, l'anno successivo, nella individuazione del fasciame dell'imbarcazione punica.



 



La nave, che fu forse un'imbarcazione da guerra, doveva avere una lunghezza di oltre trenta metri ed una larghezza di quasi cinque. Diversi materiali furono utilizzati per la sua costruzione: ferro, bronzo e rame per i chiodi, cera e piombo per la calafatura, legno di pino nero, di acero e di quercia per il fasciame. Nella parte più interna della chiglia furono recuperati trucioli di legno, segno forse che nel periodo del suo affondamento - stimato nel terzo secolo avanti Cristo - l'imbarcazione era stata costruita da pochissimo tempo. In diversi punti del fasciame furono individuati disegni, numeri e simboli grafici che indicano come lo scafo fosse stato "prefabbricato", assemblando le singole parti del progetto complessivo. Dai fondali, la spedizione inglese recuperò anche ossa umane di almeno due uomini e di un cane. Cinquant'anni dopo la scoperta del relitto, la nave punica dello Stagnone di Marsala - i cui resti sono visibili all'interno del Museo Archeologico Regionale Lilibeo Marsala  - necessitano di un nuovo intervento di restauro. La Fondazione Honor Frost ha offerto la sua collaborazione al progetto, che dovrebbe essere accompagnato da una ricostruzione in 3D del vascello: un altro contributo inglese alle conoscenze archeologiche in quest'area del marsalese dopo gli scavi avviati dalla famiglia Whitaker a Mozia

Esposizione
della nave punica all'interno
del Museo Archeologico Regionale Lilibeo Marsala.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia






Della scoperta della nave punica, Honor  Frost scrisse il 3 ottobre del 1972 sulla "Domenica del Corriere" un articolo in cui espose alcune considerazioni sull'importanza del ritrovamento:

"Il relitto - si legge nel reportage della Frost, intitolato "Era al primo viaggio la nave cartaginese affondata a Marsala" - è eccezionale per una serie di motivi. Innanzitutto le estremità appuntite della nave sono ben conservate, e questo è già straordinario perché, com'è noto, delle navi affondate si ritrovano di solito soltanto le parti mediane delle chiglie, o le fiancate, mentre tutto il resto, le estremità vive, appunto, va perduto, distrutto dal mare. In secondo luogo, il legno del fasciame è ottimamente conservato, a tal punto che si possono vedere i segni fatti sui pezzi dai costruttori. In terzo luogo, il materiale ritrovato potrà eventualmente consentire di ricostruire l'intera nave. Infine, questa è la prima nave cartaginese che sia oggetto di esplorazione. Perché, vi chiederete, trovare una nave punica dovrebbe essere più eccitante che trovare una nave greca o romana? La risposta va cercata nelle pagine degli storici antichi, come Polibio o Diodoro Siculo. Le guerre puniche furono combattute per la supremazia sui mari. Per costruire l'impero, i romani, che già controllavano tutte le vie di comunicazione terrestri, avevano bisogno di essere anche i padroni dei mari. Ma a quel tempo i mari, senza dubbio, erano dominati dai fenici, o meglio, dai loro successori, i cartaginesi. V'è da dire che la tecnologia dei romani non arrivava alla costruzione delle navi. Così, nel 260 avanti Cristo, per mettere in piedi una flotta di navi da guerra, i romani furono costretti a copiare una nave punica che avevano catturato. Riuscirono così bene che in soli due mesi costruirono ben 120 vascelli. Questa stessa produzione di massa implica una qualche forma di prefabbricazione: ecco perché i segni dei carpentieri sul relitto di Mozia sono così importanti. Studiati meglio dagli specialisti potrebbero risolvere il mistero.







Nella nostra attività abbiamo dovuto risolvere problemi tecnici non indifferenti. E' noto che il legno è un materiale difficile da preservare. La sabbia, facendo da copertura, lo protegge. Ma appena il legno è scoperto e viene in contatto con l'acqua marina, subisce l'azione dell'ossigeno e diventa scuro in pochi giorni. Ancor peggiore è l'effetto dell'aria: portato in superficie, il legno si restringe nel giro di qualche ora; oppure, se lo mettete in una vasca di acqua corrente, è attaccato dalle alghe e da altri organismi. Con tutte queste considerazioni in mente, si può immaginare che la decisione di sollevare i sei metri della poppa della nave punica non è stata presa alla leggera. Siamo stati, in parte, forzati dalle circostanze: la poppa emergeva dalla sabbia, e quindi era già minacciata dall'ossidazione. Inoltre, giaceva in un fondale di appena due metri e mezzo, ed era molto vicina alla spiaggia: abbiamo pensato che difficilmente avrebbe resistito alle tempeste invernali. Devo dire che la decisione di procedere nel recupero del relitto - una decisione per noi davvero storica - è merito del professore Vincenzo Tusa, sovrintendente alle antichità della Sicilia occidentale. Egli ha disposto che che il legname recuperato fosse immediatamente conservato in vasche appositamente costruite: in questi contenitori il materiale resterà almeno per tre anni, il tempo minimo per togliere in sale dal legno. Soltanto successivamente potrà cominciare il trattamento chimico. Allo stesso professor Tusa fa capo un'altra importante decisione: ogni pezzo di legno recuperato dal relitto è stato replicato in calchi di gesso. I risultati finora sono stati eccellenti, grazie all'abilità del professor Salvatore Andò, uno scultore che ha accettato volentieri il singolare compito. In questo modo gli specialisti potranno studiare senza ritardi tutti i reperti: e inoltre sarà assicurata la ricostruzione della nave. E' naturale che tutti coloro che hanno contributo al ritrovamento ed al recupero sognino una degna sistemazione finale dei risultati del loro lavoro. Per quanto mi riguarda, sarei felice se la nave punica che abbiamo ripescato dal mare fosse esposta vicino al luogo in cui il vascello affondò, magari in un museo apposito. Il lettore, a questo punto, sarà probabilmente curioso di conoscere l'esatta consistenza del relitto. Abbiamo trovato le estremità del così detto dritto di poppa, quattro intere ordinate ( le costole, trasversali rispetto alla chiglia, che da prua a poppa costituiscono l'ossatura principale della nave ), alcune tavole di tribordo ( la fiancata destra del bastimento, guardando la poppa ) ancora attaccate dalle ordinate, e numerosi sassi di zavorra ancora al loro posto fra le ordinate.

Oggetti di bordo
della nave punica.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia





La nave era inclinata a sinistra, di modo che le estremità opposte, sporgenti, delle ordinate, erano state consumate dall'acqua. Però le parti centrali di queste strutture, a contatto con la chiglia, erano intatte. La chiglia, nella sua parte centrale, era tutta ricoperta di sabbia, e affondava nel terreno per almeno tre metri. Quanto ai sassi di zavorra, fu per la loro presenza che il relitto rimase sul fondo dopo che la nave affondò. Quanto alle tecniche di scavo, abbiamo cercato, per quanto possibile, di non rimuovere la sabbia, proprio per evitare, come ho già spiegato, che il legno venisse in contatto con l'acqua del mare e subisse la temuta ossidazione. Per delimitare la zona delle ricerche mettemmo due blocchi di cemento da mezza tonnellata ai due lati del relitto, a distanza di circa trenta metri, in modo tale che un'ideale linea retta congiungente i due blocchi coincidesse con la linea della chiglia. E' chiaro che prima di rimuovere un qualsiasi pezzo sommerso abbiamo fatto gli opportuni rilevamenti, con misure precise, tutte segnalate in superficie e tutte riportate, in scala, sul progetto degli scavi che avevamo disegnato. Miss Mary Anderson, stava su un battello e provvedeva a trasferire sulla carta tutti i dati che raccoglievamo mediante uno strumento prezioso, dalla forma simile ad un grosso pettine. Per essere più esatti, questo strumento ci è servito per prendere le diverse sezioni del relitto sommerso: e quando i denti del "pettine" non potevano raggiungere certi parti poco accessibili della nave, ci servivamo di una striscia di piombo, come fanno spesso ingegneri ed architetti. Per esempio, spingevamo la striscia di piombo dentro la cavità della chiglia, in modo che il metallo prendesse la forma esatta della cavità: quindi riportavamo i vari profili su un'apposita materia plastica, in superficie. Del resto, non era molto difficile o complicato compiere questa operazione subacquea, perché la larghezza interna della chiglia era appena di sette centimetri. Infine, devo ricordare un altro strumento prezioso, che viene tecnicamente chiamato sorbona: è un tubo-aspiratore, azionato da una pompa ad aria, che praticamente "succhia" il materiale sommerso. Disegnato da Robert Sneath, ingegnere subacqueo della nostra equipe, lo strumento poteva essere manovrato da un piccolo canotto di gomma e senza eccessiva fatica.

Honor Frost,
l'archeologa inglese
che riportò alla luce la nave punica


C'è infine da ricordare un aspetto della nostra ricerca al quale suppongo che il pubblico sia molto sensibile. Che carico aveva la nave punica di Mozia? Premesso che finora abbiamo cercato soltanto a un'estremità della nave, tralasciando la vera e propria stiva, devo dire che abbiamo trovato una quantità di cocci di terracotta e di ceramica proprio dentro la cavità della chiglia. Questi frammenti erano, per l'esattezza, sotto i sassi di zavorra, e mischiati ad essi. I nostri due colleghi archeologi che lavoravano a terra, cioè il dottor Louis Lehmann e il signor Nigel Kerr, hanno anche fatto una classificazione dei diversi tipi di ceramica: erano ben quattordici. Tutti i vasi finora identificati sono del terzo secolo avanti Cristo, e, ad eccezione di uno solo, sono cartaginesi. I reperti più straordinari, tuttavia, non sono questi. Abbiamo infatti trovato foglie, ramoscelli, gusci di noci, sementi: appartenevano a piante fiorite 2300 anni or sono! Non basta: sotto un'asse c'era un rotolo di corda, nuovo, giallo e pulitissimo. Noterete che non ho ancora accennato alle anfore. In realtà ne abbiamo trovate alcune. Una era perfetta, intatta, con il tappo al suo posto. Tutte le altre erano danneggiate, e, cosa sorprendente, tutte diverse fra loro. Secondo me, la nave punica non portava un carico di anfore: come sapete, le anfore erano i contenitori del tempo, per l'olio, il vino, il miele, le granaglie. Il vascello era dunque un cargo? E se non era un cargo, che cosa poteva essere? Forse una nave da guerra, una di quelle navi che affondarono vicino alla costa siciliana durante la prima guerra punica? E' un segreto affascinante che dovremmo riuscire a svelare con ulteriori ricerche sul relitto di Mozia. 

   

mercoledì 13 ottobre 2021

COLLURA E IL "PULVISCOLO UMANO" DEL CENTRO STORICO DI PALERMO

Centro storico a Palermo.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Nell'introduzione al saggio "Palermo" edito da Bruno Leopardi Editore nel 1999 - un testo contenente 161 fotografie di Giuseppe Leone e Melo Minnella - Matteo Collura si è addentrato nel difficile compito di spiegare l'umanità e la carta d'identità dei palermitani e della loro città. Soffermandosi in ciò che accade nel centro storico, Collura vi ha individuato una precisa categoria di palermitani: quella che compone un "pulviscolo umano, immutato nella sua quotidiana e fantasiosa lotta per l'esistenza". Quindi, il romanziere e saggista agrigentino ha aggiunto:  

"Palermo, come Napoli, come Bombay e Calcutta, è città che costringe i suoi abitanti più poveri ad adattarsi a forme di vita altrove impensabili. Una di queste, come ho già detto, è l'invisibilità; un'altra è l'orgogliosa ostentazione dell'indifferenza di chi troppo ha visto e tutto sa. E' per questo che la fierezza dei suoi abitanti non ha limiti. Tutto, visto dai quartieri popolari di questa città, è relativo, potere compreso, sia esso incarnato da un viceré, sia esso rappresentato da un deputato o da un cardinale. Se il potere ha il volto di un mafioso, allora il discorso cambia, perché in questo caso non si tratta di un potere usurpato, ma di qualcosa che naturalmente s'incarna in qualcuno del popolo, venendo a generare livelli di violenza bestiale. 'Diu è granni ma 'u zu Tanu mancu cugghiunia' ( 'Dio è grande ma neppure lo zio Tano scherza', ndr ) può capitare di leggere sulla sponda posteriore di un motofurgone Ape, il mezzo di trasporto che ha sostituito gli istoriati carretti trainati da asini e muli. Più spesso ci si imbatte in una più sottile e minacciosa frase: 'Dio solo è grande', come a dire che nessuno, su questa terra, anche al cospetto del più diseredato, può dirsi 'grande', vale a dire sicuro di poter fare quel che vuole o di prevalere in un qualsivoglia contrasto..." 

lunedì 11 ottobre 2021

UN REPORTAGE A LENTINI DURANTE LA FESTA DI SANT'ALFIO

Festa di Sant'Alfio a Lentini
nel maggio del 1960.
Le fotografie del post
furono realizzate da Lucio Ridenti
e pubblicate dal mensile "Sicilia"
nel dicembre del 1960


"A Lentini, tutto risuona del nome di Sant'Alfio glorioso, e dei suoi due fratelli, Filadelfio e Cirino, che proteggono le case e le campagne e rendono prosperi e doviziosi soprattutto gli aranceti. Lentini fu l'ultima tappa del loro cammino verso il martirio, che si concluse il 10 maggio del 253 dopo Cristo e i lentinesi ricordano l'evento ogni anno con una serie di manifestazioni che durano tre giorni: il 9, il 10 e l'11 maggio..."

Così nel 1961 Salvatore Lo Presti descrisse la devozione dei lentinesi nei confronti di Alfio, Filadelfio e Cirino, nati in Puglia e che secondo la tradizione, già flagellati a Roma, sarebbero sbarcati in Sicilia per subire lo stesso trattamento dal prefetto Tertullo; giunti a Lentini, i tre fratelli - di 22, 21 e 19 anni - avrebbero liberato dal demonio un giovane ebreo: miracolo per il quale sarebbero stati venerati dai lentinesi. Di questa fede - e della festa patronale che si svolge nella cittadina del siracusano - scrisse nel dicembre del 1960 l'attore di teatro e giornalista Lucio Ridenti ( pseudonimo di Ernesto Scialpi ). Il suo fotoreportage a Lentini - durante i festeggiamenti del precedente mese di maggio ed intitolato "I Santi giovanetti e bellissimi" - venne pubblicato dal mensile "Sicilia", edito dall'assessorato regionale al Turismo e Spettacolo. Del paese, Ridenti sottolineò - prima della devozione religiosa - anzitutto la fama legata al commercio delle arance:

"Lentini è un piccolo centro senza paludamenti storico evidenti benché molto possa narrare a sua gloria, essendo città antichissima. Ma non ne ha il tempo, dato il fervore dei commerci attuali: crediamo sia uno dei maggiori centri, se non il primo, esportatore di agrumi. Per questo il nome di Lentini è noto in tutto il mondo; risaputissimo soprattutto nel nord Europa, in quei fasciati di nebbie, per i quali le arance e le 'lumie' sono la fiaba mediterranea del sole, il richiamo di un mondo di luce e di calore. Una cassetta di arance ad Oslo è certamente più valida che qualsiasi altra propaganda per la Sicilia, e Lentini di cassette ne manda a piramidi, e con ogni frutto quel nome si ripete sulle veline d'involto, tra svolazzi ottocenteschi ed angioletti dorati..."







Quindi Lucio Ridenti così descrisse lo spettacolo dei giochi pirotecnici in onore di Sant'Alfio e dei suoi fratelli:

"Il giovane autista che ci trasportava correva troppo; glielo facemmo osservare e rispose che eravamo partiti in ritardo per poter giungere sul luogo indicato alle dieci precise. 'Altrimenti - concluse - non ci fanno entrare nemmeno vicino alla piazza; nessuno si può più accostare per gli spari: vossìa, ora vedrà: un finimondo accade'. Riuscì a raggiungere ugualmente la piazza, proprio pochi minuti prima che davvero la chiudessero e nel modo più impensato. Avevano cintato il tratto prospiciente la chiesa come si delimita un campo spinato, ma il filo era fulmicotone e le farfalline che si susseguivano intrecciate a quel filo, a distanza di un palmo, erano petardi. Assistemmo al rito. E il 'finimondo' annunciato dall'autista, venne. Le tradizioni popolari hanno sempre un'origine, e forse quell'esultanza al fulmicotone doveva avere una sua particolare ragione; lo sospettammo durante il giorno, perché percorrendo la processione ogni quartiere della città, si rinnovavano gli spari, con la stessa regolarità del richiamo delle campane di Roma. Appena il densissimo fumo si fu diradato un poco, Sant'Alfio apparve sul sagrato, sotto un sontuoso baldacchino a sei colonne. Il santo era seduto sul trono d'argento e la sua bella veste era anche a sbalzo, nello stesso prezioso metallo, lucentissimo..." 


   

     

domenica 10 ottobre 2021

LA SCOMPARSA ANIMA VERDE DI LAMPEDUSA

Foto del post
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Un piatto tavolato calcareo allungato da Ovest ad Est, lungo poco meno di 11 chilometri e largo poco meno di 4; il geologo Aldo Giacomo Segre definì Lampedusa come "l'ultimo relitto inaridito di una zolla continentale", sottolineando la quasi totale assenza di vegetazione, limitata a pochi esemplari di fichi, carrubi ed oleastri. Un progetto di riforestazione, avviato nei mesi scorsi, intende piantare 6500 fra oleandri, carrubi e pini lungo la costa Nord occidentale dell'isola; intenzione lodevole, ma che - se realizzata - non potrà comunque recuperare la ricchezza botanica del passato. In "Guida alla natura della Sicilia" scritta da Fulco Pratesi e Franco Tassi ( Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1974 ), leggiamo che l'isola - prima del taglio della maggior parte degli alberi per ricavarne carbone vegetale e legname da costruzione, a partire dal 1846 - non è stata infatti sempre desertica:

"Il botanico Gussone, che la visitò nel 1828, scrive che era coperta all'epoca di denso boscaglie, di verdi fruticeti, di cespugli densi e impenetrabili e di alberi discretamente alti, tra cui primeggiavano i pini d'Aleppo.


 

Questo patrimonio arboreo, oggi inimmaginabile ma la cui consistenza veniva all'epoca valutata dal Sanvisente a circa 100.000 fusti, doveva avere un influsso determinante anche sul regime idrico dell'isola... Purtroppo i pini di Aleppo sono stati, nel giro di un secolo circa, completamente distrutti, e con essi i ginepri, gli allori, i tamerici, i mirti, gli olivastri e le filliree, che rappresentano ormai solo un vago e lontano ricordo e di cui solo a prezzo di grande fatica si potrebbe ancora trovare forse, negli angoli più remoti dell'isola, qualche sparuto e solitario rappresentante..."