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giovedì 27 aprile 2017

RIFLESSI DI GOETHE NEL TRAMONTO DI VALDESI

La scoperta della "chiave di tutto" nel viaggio dello scrittore tedesco nelle pagine de "L'isola appassionata", il dimenticato libro di racconti siciliani scritto nel 1944 da Bonaventura Tecchi

Tramonto palermitano a Valdesi.
Le fotografie sono di ReportageSicilia
A cercare nella sterminata produzione letteraria del Novecento italiano si trovano romanzi e saggi di ambientazione siciliana poco noti o addirittura dimenticati dalla critica e dai lettori.
E' il caso, ad esempio, dei racconti del libro "L'isola appassionata", scritto da Bonaventura Tecchi e pubblicato per la prima volta da Einaudi nel 1944.
Ristampato nel 1961 nella collana "Nuovi Coralli", il volume è da tempo scomparso dalle librerie; chi volesse trovarne una copia deve affidarsi alla ricerca su internet o sulle bancarelle dei libri usati.
Bonaventura Tecchi nacque nel 1896 nella Tuscia, a Bagnoregio; morì a Roma nel 1968.
Insegnante nelle università di Brno e Bratislava, poi nell'Università di Padova e in seguito ordinario di lingua e letteratura tedesca a Roma, Tecchi fu un cultore del romanticismo germanico.
"L'isola appassionata" raccolse i frutti - trasfigurati dalla fantasia - della "scoperta" che lo studioso e scrittore fece della Sicilia nel 1940, quando vi fu trasferito in veste di censore postale della corrispondenza fra militari in guerra e le proprie famiglie.
Il compito - sicuramente ingrato - non gli piaceva, ritenendolo "umile, banale ed anche indelicato".
Attraverso la lettura di quelle lettere, però, lo scrittore ebbe modo di "conoscere il cuore segreto degli uomini, per conoscere l'anima dell'isola", cogliendone i difetti ma anche le sue "qualità positive ed affettive".
A Palermo, Tecchi fu colto da una "ebbrezza leggera del sangue", frutto di un fervore inesausto di impressioni che presto sgomberò "i parecchi pregiudizi in testa" con i quali, a malincuore, era approdato in Sicilia: 

"Mi piacevano l'aria, la luce - diverse, sembravami - da ogni altra luce e aria che fino allora avevo conosciute... mi piacevano la bellezza e la gentilezza, un poco scontrosa ed estrosa, della gente..."


Tornato a Palermo nel settembre del 1952 - ospite della Fiera del Libro - l'appassionato studioso di letteratura tedesca ricordò quell'opera letteraria, la cui stessa ispirazione si lega più volte al nome di uno scrittore autore nel 1787 di un famoso viaggio in Sicilia: Wolfgang Goethe.

"Come lettore, come studioso modesto di cose tedesche - dichiarò allora Tecchi - avevo in mente il viaggio in Italia di Goethe che riguarda la Sicilia; ebbene mi ricordai di una frase: quando Goethe dice che la Sicilia è la chiave per capire tutta l'Italia"

Nelle pagine de "L'isola appassionata", Bonaventura Tecchi quella chiave la individuò al cospetto del mare palermitano di Valdesi durante una "bellissima sera d'estate, con una luce che scandisce le cose, ne forma i lineamenti, che assegna vita e insieme sobrietà d'arte":

"Rimaneva però sempre da spiegare la parola di Goethe: come mai la Sicilia fosse 'la chiave' dell'Italia.
Che si dovesse intendere nel senso che la bellezza splendente dell'isola incoronava la bellezza di tutta l'Italia, mi pareva troppo poco e troppo semplice.
Ci doveva essere qualche altro significato.
E lo cercavo nel libro di Goethe, non lo trovavo.
Quella frase famosa, come spesso accade in Goethe, appariva quasi isolata, in una pagina in cui non si faceva che parlare, oggettivamente, e quasi seccamente, di osservazioni sui minerali della Sicilia e poi sul clima e perfino sui cibi siciliani.


Un giorno, a Valdesi, mi parve d'avere la rivelazione, o piuttosto una delle due rivelazioni che, secondo me, spiegavano la Sicilia 'chiave' per intendere l'Italia. 
Valdesi è, per chi non lo sapesse, una piccola località sulla via di Mondello, vicinissima anzi a Mondello, che a sua volta è la spiaggia più rinomata di Palermo.
Chi non ha visto, specie verso sera, il colore dell'aria a Valdesi, il colore, la vibrazione, la luce dell'aria sulle pendici di Monte Pellegrino, che in quella parte sono tutte rosse, con l'argento degli olivi nella piana sottostante, il grigio-perla del mare, il cinereo di Monte Gallo dalla parte opposta, non ha visto, io credo, la luce più bella del mondo.
Luce nitida, sveglia eppur non crudele come per sua nitidezza è qualche volta in paesi stranieri; né, d'altra parte, luce morbida come per velature, sia pure impercettibili, di nebbia, spesso avviene nelle contrade del nord: ma luce calma, ferma, d'una virile, umana dolcezza.


Questa era certo la luce che diede a Goethe la rivelazione della 'oggettività' delle cose; di come il mondo, a lui che usciva allora dai 'cammini stretti e oscuri dell'io' ( vedi la VII delle 'Elegie Romane' ) e cioè del più acuto soggettivismo nordico, potesse esistere anche fuori di noi, con la sua nitidezza di forme e di contorni.
Rivelazione che, presentita vagamente già prima del viaggio in Italia, balenata vividamente a Roma, affermata in una celebre lettera da Napoli nella primavera del 1787, doveva compiersi in Sicilia, a Palermo, quando Goethe, in uno scatto d'entusiasmo, corse a comprare una copia di Omero e lesse e rilesse come estasiato, e in Sicilia compose il frammento 'Nausicaa'..."

domenica 23 aprile 2017

L'INCURSIONE DI UN CARRETTO SICILIANO AL PENTAGONO

Cronaca del singolare dono spedito da Palermo al ministro della Difesa George C.Marshall in segno di gratitudine per gli aiuti economici americani alla Sicilia, in piena epoca di "guerra fredda"




Il 25 aprile del 1951 a Washington un carretto siciliano fece comparsa nel cuore del Pentagono.
In piena epoca di sviluppo dell'energia atomica per usi bellici e di "guerra fredda", la presenza di quell'oggetto di legno decorato a mano dovette provocare la perplessità di militari ed impiegati del quartier generale della difesa americana.
Alla sorpresa si aggiunse l'ilarità. 
Il vecchio carro odorava infatti di formaggio, a testimonianza dell'originario uso da lavoro del mezzo. 
L'oggetto era stato spedito dalla Sicilia; da Palermo, per l'esattezza, con destinatario finale il ministro della Difesa George C.Marshall.
Alla cerimonia di consegna - tramandata dalla fotografia pubblicata il 6 maggio in Italia dal settimanale "L'Europeo" - presero parte l'ambasciatore italiano negli Stati Uniti, Alberto Tarchiani e l'amministratore dell'Economic Cooperation Administration, William C.Foster.



Il dono di quel carretto racconta un curioso pezzo di storia nelle vicende che al termine della II guerra mondiale videro gli Stati Uniti impegnati nell'erogazione di contributi economici ai Paesi europei, in funzione anticomunista.
Di questa iniziativa fu promotore proprio il ministro Marshall, destinatario del singolare regalo da un'Isola fondamentale per gli interessi strategici di Washington nel Mediterraneo.
La cerimonia si svolse in pochi minuti.
L'ambasciatore Tarchiani presentò il carretto come  "un pensiero del popolo siciliano al ministro in segno di ringraziamento per gli aiuti americani distribuiti in un luogo afflitto dalla fame e dalla devastazione".
Ad enfatizzare le condizioni di povertà nell'Isola, il pittore avevano ritratto sulle fiancate scene di abitazioni distrutte dalla guerra ( specie dai bombardamenti degli stessi americani nel 1943 ); il tributo di gratitudine agli Stati Uniti era certificato dalla riproduzione di bandiere a stelle e strisce e dei volti del presidente Truman e dello stesso ministro Marshall.



All'epoca della consegna del vetusto mezzo di trasporto al Pentagono la Sicilia aveva ottenuto dal "piano Marshall" fondi per 43 milioni di dollari. 
Nell'elargizione degli aiuti all'Isola che era stata teatro dell'operazione "Husky" ebbe un ruolo decisivo proprio Alberto Tarchiani, un antifascista fuggito dall'Italia nel 1940 e già segretario della "Mazzini Society"
Secondo lo storico Alfio Caruso ( "Il piano Marshall e la Sicilia: politica ed economia", G.Giappichelli Editore, 2013 ), negli anni del dopoguerra l'ambasciatore aveva coltivato in terra americana stretti rapporti  con l'"American Friends of Sicily", un'equivoca associazione controllata sembra dall'OSS ( i servizi di intelligence americani, poi diventati CIA ). 
E' possibile che la donazione del carretto siciliano a Marshall fosse stata organizzata proprio da questa organizzazione, grazie ai contatti con la "madrepatria" nell'Isola.
Durante la cerimonia di consegna - secondo quanto riferito il giorno dopo dal "Chicago Tribune"George Marshall ricordò di avere visitato Palermo nel 1910.




Il ministro americano scherzò quindi  sulla destinazione dell'insolito dono, che secondo l'articolista del quotidiano sarebbe stato opera del carradore Francesco Labianca, dell'intagliatore Francesco Sbacchi e del pittore Francesco Paolo Cardinale.
La moglie - spiegò il numero uno del Pentagono - avrebbe voluto utilizzare il carretto per fare la spesa a Leesburg, la città della Virginia che oggi ospita la "Marshall House", nel frattempo trasformata in museo.
Visti i divieti di circolazione di un simile mezzo di trasporto però, il ministro annunciò l'intenzione di conservarlo in una delle stanze della comoda dimora in stile federale.




Oggi il carretto spedito da Palermo al Pentagono in segno di ringraziamento verso l'interessata generosità americana si trova a Washington, all'interno del Centro Culturale "Smithsonian Institution": chissà se i visitatori avvertono quell'odore di formaggio siciliano che 66 anni fa forse entrò nelle narici di George Marshall.        

sabato 15 aprile 2017

LUOGHI E IMPRESSIONI DELLA "FESTOSA CONCHIGLIA" DI ORTIGIA

Umori e vita quotidiana nello "scoglio" di Siracusa nei ricordi letterari della scrittrice Laura Di Falco
La scogliera di Ortigia a ridosso dello storico
nucleo urbano sul mare di Siracusa.
Le fotografie sono di ReportageSicilia
Per chi vi arrivi su un'imbarcazione o per chi la visiti dopo avere attraversato un ponte stradale, l'isola di Ortigia riserva l'angolo di Sicilia più vicino all'idea di vecchia città mediterranea.
L'impressione si deve anzitutto all'immediato rapporto fra la storica edilizia urbana barocca ed il mare, in un gioco continuo di rimandi fra stradine e scorci di azzurro dai toni variamente  disegnati dalla luce quotidiana.
Ad Ortigia, come ha scritto Giuseppe Tarozzi nel 1961, "il colore del cielo, che non è neppure cielo, tanto è azzurro, fisso, immobile, è una mano d'indaco pennellata sopra chilometri e chilometri di costa; il mare che si spalanca verso l'Africa è tutto percorso da onde azzurro-verdi; la vegetazione è quella di sempre, antica come la storia di questa città, qualcosa di misto fra la Grecia e la Palestina; i colori delle case, cotti, bruciati da un sole caldissimo".
Specie nelle giornate di scirocco, l'odore del mare avvolge quello che i siracusani un tempo chiamavano lo "scoglio"; e né le devastazioni dell'architettura storica compiute durante il fascismo, né le successive speculazioni edilizie sono riuscite a intaccarne la suggestione di un luogo unico in Sicilia.



L'ambiente di Ortigia ha ispirato il romanzo di Laura Di Falco "L'inferriata", edito da Rizzoli nel 1976; ma anni prima - nel 1961 - la scrittrice di Canicattini Bagni ( all'anagrafe Laura Anna Lucia Carpinteri ) aveva descritto l'isola di Siracusa nel II volume dell'opera "Sicilia", edita da Sansoni e dall'Istituto Geografico de Agostini:
   
"E' qui che il forestiero può farsi un'idea di quella che era la deliziosa città di quarant'anni fa, con le sue friggitorie e i piccoli caffè che servono ancora la granita di mandorle; con le barche per il traghetto verso la borgata di Santa Lucia sopra un mare nero d'erba marina, e i barconi che fanno commercio con Malta portando olive secche, ricotta salata, aranci, finocchi; e qualcuno di essi, quando c'è la tempesta, non fa più ritorno.
'Mangiati dai pesciolini minuti', dicono le donne.
L'odore della salsedine e delle alghe invade la città che galleggia sul mare e riempie i vicoli: la calata del Governatore, la calata del Cannone, o la 'viuzza del sale', o quella 'della neve' ( che era portata direttamente dall'Etna, con ancora qualche grano di vera 'sciara' in mezzo, quando non c'era la macchina del ghiaccio ); nomi che ricordano i Borboni, e gli antichi dominatori, di cui Siracusa conserva le tracce nei monumenti e nella parlata.
'Quattro ventine' sono gli anni della vecchietta dei quartieri popolari, la busta della carta da lettera si chiama 'inviluppo', e 'custurera' è la sarta.
Nel mese di settembre l'umidità macchia la facciata delle case, e i selci delle strade non si asciugano né di giorno né di notte anche se il cielo non versa una goccia d'acqua, mentre il sole annega come un disco sfocato nell'aria bassa e pesante.
In compenso la folla brulica per le strade, così strette, a volte, che non vi passa neppure una carrozza.



D'estate i balconcini sono pieni di gente in cerca d'aria, e da un'inferriata all'altra si può, per mezzo di una canna, e qualche volta anche senza di questa, passare alla dirimpettaia la ricetta per il dolce, un canestro in prestito, o una frittella di pesce ancora caldo per non 'far spiumare' dal desiderio il cuore al bambino della vicina.
Tutto passa attraverso queste finestre, salvo il sospetto della povertà, tenuta nascosta come se si trattasse di una malattia infamante.
E però ai vicini non sfugge nulla lo stesso, donde il detto 'il vicino è serpente: se non ti vede, ti sente'.
Dagli odori della cucina si misurano le possibilità economiche della famiglia accanto, se ne può indovinare lo stato d'animo, si è informati degli avvenimenti familiari, dei battesimi, delle morti, in occasione delle quali non si cucina per giorni; e sempre dagli odori si capisce quando il morto comincia ad essere dimenticato...
... D'estate si dorme poco.
La radio e la televisione hanno complicato le cose, poiché ognuno fa a gara a superare il volume dell'apparecchio del vicino, con la ingenua certezza, diceva Alvaro, che il frastuono vuol dire festa e benessere.



Al mattino si è svegliati di soprassalto dal venditore di uova, che annuncia la sua merce con un grido alto e soffocato come se stessero uccidendolo; poi sopraggiunge il venditore di ricotte; e poi il carrettino smilzo, adatto a quelle strettoie, carico di melanzane e peperoni.
Il mare luccica dappertutto; se non lo si vede, lo si indovina, con il suo odore particolarmente fresco a gennaio...
... Se invece arriva la tempesta, il mare assale l'isola di Ortigia con bordate di schiuma che salgono fino ai balconi, il vento marino soffia nei vicoli, le strade sono canali d'aria tagliente, e se viene la pioggia, le viuzze si trasformano in torrenti che corrono al mare; quello stesso mare che nelle notti di scirocco trasforma il porto in un nero calderone d'olio immobile, e nei tramonti di primavera diventa una lastra di cristallo amaranto. 



Ma ritornando alla città levantina con i suoi mille sapori di pesci appena pescati e cotti, di granchi messi vivi a rosolare sul fuoco, di polmoncini di tonno seccati al sole e poi abbrustoliti insieme ai peperoni, per poco che una viuzza si slarghi, la faccia medievale si cancella, e allora si potrebbe indifferentemente credere di essere alla periferia del Cairo o di Alessandria d'Egitto.
Piazza del Duomo è il punto più elevato dell'isolotto di Ortigia. Mio nonno durante le sue passeggiate si fermava proprio qui per respirare a pieni polmoni e indicava intanto il luogo in cui i Borboni avevano fatto fucilare gli Adorno, prima il figlio, sotto gli occhi del padre, e poi quest'ultimo, come attesta la strada intitolata appunto ai due patrioti; e poi anche lo scempio di due saltimbanchi, dati in pasto alla folla in tempo di colera, perché trovati in possesso di certe polverine che servivano loro per preparare i fuochi di artificio.



La prima domenica di maggio in piazza del Duomo si celebra la festa di Santa Lucia delle Quaglie, forse la trasposizione di una ricorrenza pagana all'ombra del tempio di Atena, alla quale appunto la quaglia era sacra.
Dalla vela della badia di santa Lucia le monache si affacciano e lanciano colombe sulla folla.
E' l'inizio dell'estate, che fino a tutto giugno seguita a mantenersi fresca e invitante, senza ancora il vento africano carico di sabbia del deserto in agosto, e senza lo scirocco del mese di settembre.



In questa stagione costeggiare l'intero margine della festosa conchiglia di Ortigia è quanto di più bello si possa immaginare, sempre con sotto gli occhi il mare verde e violetto popolato di gabbiani come i porti di Grecia, dal belvedere San Giacomo a castel Maniace fino a via Alfeo, intitolata al sotterraneo amante di Aretusa, le cui acque dolci sgorgano appunto in quelle vicinanze in mezzo ai papiri un tempo ricchissimi e rigogliosi.



Fu in questa viuzza a ridosso del mare che Giovanni Comisso vide protendersi una mano femminile dalle persiani verdi di una 'casa chiusa' per porgere una tazza al pecoraio: un quarto di latte appena munto dalla capretta, che insieme al piccolo gregge vagava al mattino per la città con un gran tintinnio di campanelli e un odore selvatico che rimaneva a lungo nell'aria immobile dei vicoli..." 



  

venerdì 14 aprile 2017

VINCENZO FLORIO COMANDANTE A CERDA


"Come un comandante al suo posto di manovra, con binocolo e telefoni a portata di mano, Vincenzo Florio seguiva direttamente dalla pista il carosello dei bolidi disseminati lungo l'accidentato percorso delle Madonie"

La didascalia accompagnò la fotografia di don Vincenzo Florio nella sua Floriopoli e venne pubblicata nel marzo del 1959 dalla rivista "Siciliamondo", edita a Palermo e diretta da Franco Nacci.
La pubblicazione fu un omaggio alla memoria dell'ideatore della Targa, morto il 6 gennaio di quell'anno in Francia.
L'articolista così ne descrisse la personalità schiva e refrattaria, suo malgrado, alla notorietà:

"Pochi lo conoscevano veramente bene il "Cavaliere"; la sua era infatti una personalità delle più complesse ed impenetrabili: gentiluomo e signore nel senso più profondo della parola era altrettanto deciso nella organizzazione di tutte le sue manifestazioni; orgoglioso della fama mondiale delle sue opere era altrettanto modesto nella sua persona fisica che raramente portava sulla pubblica ribalta preferendo isolarsi nel chiuso del suo studio e nei riflessi di un suo personale ambiente" 

giovedì 13 aprile 2017

IL VOLTO PREISTORICO DI LEVANZO NELL'ESPLORAZIONE DI JOLE MARCONI BOVIO

Immagini e considerazioni sulle incisioni della grotta del Genovese in un reportage dell'archeologa romana pubblicato nel 1952 dal periodico "La Giara"


Operai al lavoro nelle operazioni di scavo
della grotta "dei Porci" a Levanzo, nelle Egadi.
Le immagini riproposte da ReportageSicilia
illustrarono un resoconto sulle ricerche archeologiche
condotte nell'isola pubblicato dalla rivista
"La Giara" nell'ottobre di 65 anni fa

Le immagini riproposte da ReportageSicilia furono pubblicate dal bimestrale "La Giara" edito nell'ottobre del 1952 dall'Ufficio stampa dell'assessorato regionale per la pubblica istruzione della Regione Siciliana.
Le fotografie illustrarono un reportage intitolato "Arte e civiltà preistoriche a Levanzo" e firmato da Jole Marconi Bovio, la dirigente della Soprintendenza della Sicilia Occidentale che studiò le raffigurazioni scoperte all'interno della grotta del Genovese ( già esplorata per la prima volta nel 1881 ed all'interno della quale la ricercatrice Francesca Minellono individuò nel 1949 i disegni e le incisioni preistoriche ). 

"Le esplorazioni condotte via terra e via mare nelle due isolette di Levanzo e Favignana - scrisse la studiosa - hanno segnalato la presenza di numerose grotte di interesse preistorico: a Favignana di una dozzina, oltre alle tracce di un villaggio neolitico, purtroppo svuotato dai pastori con manomissione del materiale archeologico; a Levanzo di una decina in molto migliore stato di conservazione, specialmente quelle di difficile accesso.



Sopra e sotto, pitture umane ed animali
all'interno della grotta "del Genovese"

In tutte le grotte sono stati raccolti materiale-campione ed in quattro sono stati condotti scavi, dove più ampi come alla "grotta del Genovese" e alla vicina "dei Porci" sulla cala del Genovese, dove saggi come alla impervia grotta "di punta Capperi" e a quella "di Tramontana III" o "Schiacciata", come la chiamano localmente.
Levanzo è l'isola più piccola e più vicina a Trapani, ma la più importante per il numero delle grotte intatte o quasi e per l'abbondanza del materiale archeologico.





Sopra e sotto,
incisioni di un bovide e di un cerbiatto
all'interno della grotta "del Genovese" 
Costituita di formazioni calcaree, mentre al centro ha una conca pianeggiante, presenta coste montuose per lo più: a settentrione ed oriente alte ed impervie, più basse a mezzogiorno, dove oggi si affaccia il pittoresco paesello di pescatori, alte ancora verso tramontana, ma articolate di bellissime cale e quindi di possibili approdi.
E' su questo lato che si apre ad altezze diverse una serie di cavità che ha inizio vicinissimo al paese con la grotta "Scoppiata" e termina al Capo Grosso.
Grotte esistevano anche nel luogo dove è poi sorto l'abitato moderno, distrutte o manomesse, ma è probabile, data la posizione, che fossero abitate come le nove del lato occidentale, mentre pare non lo fossero quelle del Capo Grosso.


Altra incisione raffigurante
un animale all'interno della grotta "del Genovese"
A lungo nei millenni la vita umana vi persistette dai primordi ai giorni nostri: in età preistorica le grotte servirono di vere e proprie abitazioni, di officine, di sacrari, come rivelano nei depositi archeologici i resti di industrie e di pasti e sulle pareti le manifestazioni artistiche; in età storica forse di temporanei rifugi, come testimoniano negli strati superficiali le scarse tracce di fittili romani, unici e arabi e le monete romane e bizantine.
Tracce di civiltà romana si trovano nel resto anche fuori dalle grotte, in avanzi di cisterne e murature ad oriente dell'isola.
Ancora più tardi, essendo le isole toccate dai corsari o in tempi più sicuri abitate, come da documenti storici, le grotte poterono essere utilizzate per depositi o semplicemente per ricovero di animali domestici, com'è in uso tutt'ora.


La grotta di "Tramontana III"


Il faraglione di Levanzo
visto dalla grotta "Grande"
Tra il 60.000 ed il 20.000 avanti Cristo - l'evoluzione del paleolitico superiore europeo, contemporaneo all'ultima fase della glaciazione di Wurm e della regressione post-tirreniana - le grotte erano allora sul livello del mare e sul loro suolo si stabilirono gli uomini.
La loro cultura era già abbastanza evoluta, una delle varie facies del paleolitico superiore mediterraneo, basata sulla caccia, la pesca e la raccolta, con un'industria ben sviluppata della pietra e forse qualche tentativo di lavorazione dell'osso"

Quindi nell'articolo de "La Giara", Jole Marconi Bovio si addentra negli interrogativi sulla fonte artistica e spirituale delle incisioni e dei disegni della grotta del Genovese:

"Il lavoro della pietra e delle pelli e forse dell'osso e del legno, eseguito nei ripari che precedono le grotte, la caccia, la pesca e la raccolta in giro nell'isola, i pasti consumati spesso all'aperto davanti alle cavità, dove si accumulavano i rifiuti: è un quadro di vita primitiva materiale dal quale sembra esulare qualsiasi elemento spirituale.
Ma questo si presenta e ci si impone nella serie di disegni incisi sulle pareti della grotta "del Genovese", rivelando gusto e abilità artistici e particolari moventi.
S'identificano facilmente questi ultimi per affinità con le famose grotte sacre o magiche della Francia, dei Pirenei, della Spagna e per i raffronti etnografici.
Era una grotta sacra, dove si svolgevano i riti magici propiziatori della caccia.


La cala di "Tramontana"


La cala del "Genovese"

La nostra fantasia, nutrita dalla conoscenza di usi di popoli primitivi attuali, immagina cerimonie vagamente illuminate da rami resinosi a base di danze, di gesti simbolici, di stregoni camuffati che pronunciavano formule davanti alle immagini degli animali, che tanta importanza avevano nella vita di popolazioni cacciatrici.
E forse non siamo lontani dalla verità, poiché su una parete è tracciata l'immagine di tre figure umane, che devono essere camuffate, per le loro forme strane e che richiamano certe figure del pari camuffate dell'arte rupestre franco-cantabrica.
Ma quello che è reale e che desterebbe stupore, se non si conoscessero ormai tanti altri esempi più o meno contemporanei, è la freschezza e la vivacità d'espressione delle figurette animali.
Espressione naturalistica, ma non pedante copia; piuttosto notazione rapida di impressioni che ha colto un atteggiamento, un movimento e ha saputo renderlo con immediatezza vitale e mezzi semplicissimi.
Bovidi imponenti nella loro massa pesante su corte zampe e nelle ampie corna lunate che si protendono in avanti per inabilità di resa prospettica o forse anche per una particolare forma razziale; equidi, che ricordano il comune cavallo e asinidi, con la testa un pò abbassata e l'aria paziente, lenta, modesta; cervi e cerbiatti vivaci, agili, vibranti nella rapida corsa o fermi in un'immobilità tesa, pronta a scattare.
Lo stile è in parte tipicamente schematico, in parte semi-naturalistico, di un naturalismo che presuppone una osservazione dal vero, ma un'espressione povera e irrigidita, per cui, a volte, incerta riesce la interpretazione delle figure.


Il centro abitato di Levanzo
Scomparsi gli animali quaternari, troviamo una fauna attuale: bovidi comuni, equidi, suini, il cane, uccelli, crostacei e pesci.
E, fra questi, sgombri per lo più, il tonno: vertebre di tonno tra gli avanzi dei pasti e tonni dipinti.
Si credeva che la più antica testimonianza della pesca del tonno in Sicilia fosse offerta dal famoso vaso dipinto di Cefalù, del IV secolo avanti Cristo.
Nelle Egadi, invece, lo si pescava e lo si mangiava in età preistorica..."


 Anni dopo la descrizione della Marconi Bovio, nel 1970, Cesare Brandi visitò la grotta di Levanzo "insieme  ad una strana compagnia che sapeva poco di speleologia: ragazze in bichini e via dicendo".
Lo storico dell'arte paragonò il guizzo spontaneo di disegni ed incisioni ad una pittura Zen; poi, al termine della sua esplorazione, riassunse così in "Sicilia mia" l'impressione provocata dalle antichissime raffigurazioni:

"E' come assistere ad una nascita, che so io, all'aurora, a Venere che emerge dalle spume del mare: si sente l'umanità che sorge, in quei graffiti, con il meglio di quel che fa l'uomo: la contemplazione, la capacità simbolica, l'immobilizzazione di un attimo e la sua rifusione sintetica, il piacere di un lavoro pulito, ordinato, la chiarezza di un pensiero cesellato in un'immagine".  

giovedì 6 aprile 2017

IL VIAGGIO NEL TEMPO DELLE CAMPAGNE CORLEONESI

Il ricordo di una descrizione d'inizio Novecento nel paesaggio segnato dalla presenza di un casolare abbandonato nel feudo Tagliavia
Casolare nelle campagne corleonesi del feudo Tagliavia.
Le fotografie sono di ReportageSicilia
"E' la regione tipica del latifondo e del grano, la cui coltura alternata con le fave, la sulla ed il pascolo, copre immense estensioni di monti, valli e colline.
L'occhio spazia per chilometri e chilometri sull'ampia distesa dei campi e pascoli, privi d'alberi, che, una volta estirpati, difficilmente riattaccano per lo spaccarsi del terreno argilloso.
Rari sono i paesi e di un triste color grigio come l'argilla del suolo.
A grandi distanze nella campagna si incontrano i casamenti dei feudi come oasi in un deserto.
Silenzio profondo e solenne rotto soltanto dal trillo di qualche raro uccello o dal raglio lamentoso dell'asino e dalle grida dei lavoratori che incitano sé e le bestie al lavoro.
Passano lunghe file di muli recanti al mercato il grano trebbiato e la paglia; e li scortano i mulattieri o bordonari, e i campieri a cavallo col fucile traverso la sella"


Così Giovanni Lorenzoni, delegato per la Sicilia della Giunta parlamentare d'inchiesta nominata nel 1907 per studiare la condizione contadina del Sud d'Italia, descrisse la campagna siciliana della provincia di Palermo.
Oggi, i muli che trasportavano il grano sono da tempo scomparsi e pure i campieri a cavallo armati di fucile ( sostituiti da qualche pastore che vi osserverà con curiosa indifferenza).
Nella sostanza, però, il paesaggio rurale palermitano non è cambiato da come lo descrisse più di un secolo fa il Lorenzoni, protagonista di un viaggio a cavallo per pianure e colline lungo un percorso di 1400 chilometri.

Le suggestioni di quel tempo le forniscono ancor oggi masserie e casolari abbandonati, soprattutto nelle campagne di Corleone; l'edificio ritratto dalle fotografie domina il paesaggio del feudo Tagliavia, già frequentato da contadini e pastori in età islamica.
Pure gravato dalla triste fama imposta dalle cronache della vecchia mafia di Liggio, Provenzano e Riina, il paesaggio corleonese è fra i più suggestivi dell'Isola.


Così, per dirla ancora come l'economista trentino, "tutto questo gran contrasto a chi lo esamini percorrendo l'Isola bella e contemplandola dall'alto in una giornata di sole che tutta la ravvolge fra i tre mari, si fonde in un'armonia superiore: nell'armonia della terra siciliana ricca di storia e di gente..."
  



martedì 4 aprile 2017

DISEGNI DI SICILIA


NINO GARAJO, Stradina di Bagheria, 1949-1950

LA "MOSTRUOSA VICENDA" DEL DELITTO DI PASQUALE ALMERICO

Cronaca poco ricordata dell'omicidio politico e mafioso dell'ex sindaco di Camporeale, nel marzo di sessant'anni fa: un delitto ancor oggi senza colpevoli e senza memoria
Una fotografia di Pasquale Almerico,
l'ex sindaco di Camporale ucciso dalla mafia
il 25 marzo del 1957.
Le immagini del post
sono tratte dall'archivio di ReportageSicilia
Era il marzo del 1963 quando il giornalista Pietro Zullino ( autore anni dopo di una documentatissima "Guida ai misteri e piaceri di Palermo", edita da Sugarco ) definì il delitto di Pasquale Almerico come una "mostruosa vicenda, della quale le cronache si occuparono brevemente perché l'episodio sembrava simile a tanti altri".
Zullino colse allora la gravità di un omicidio oggi colpevolmente dimenticato e che può considerarsi come un delitto "politico-mafioso", ben prima di quelli palermitani costati in seguito la vita a Michele Reina, Piersanti Mattarella e Pio La Torre.
Pasquale Almerico, già maestro elementare e sindaco democristiano dimissionario di Camporeale ( in precedenza fu un attivista cattolico seguace di Giuseppe Dossetti ) fu ucciso il 25 marzo del 1957 da cinque sicari.
L'agguato, costato la vita ad un giovane passante, Antonio Pollari, dimostrò un feroce accanimento contro Almerico, raggiunto da 114 colpi di mitra e pistola all'addome.
Per la storiografia - e solo per quella, non per la giustizia - mandante dell'omicidio di Pasquale Almerico fu Vanni Sacco, all'epoca capomafia di Camporeale, "grande elettore" del partito liberale e già coinvolto nelle retate del prefetto Mori dopo il 1925.
"L'urto decisivo tra la mafia e il sindaco - scrisse Zullino il 31 marzo del 1963 sul settimanale "Epoca" - fu causato da motivi che esorbitavano dalla modestia cerchia degli interessi di Camporeale.
Si era creato, nel 1956, un fronte unico delle mafie agrarie dei paesi situati nel comprensorio dell'alto e medio fiume Belice, l'unico fiume della zona che d'estate non si asciughi del tutto.
Lo scopo di questo fronte, esteso da Castelvetrano fino ai sobborghi di Palermo, era semplice: controllare il consorzio agricolo del comprensorio e manovrarlo in modo da boicottare una serie di opere pubbliche da tempo in programma.
Quella specie di confederazione delle mafie agrarie era però intollerabilmente debole in un punto: Camporeale, dove Almerico conduceva la sua battaglia.
I gruppi mafiosi delle altre zone premevano sulla cosca di Camporeale perché l'incomodo sindaco fosse tolto di mezzo.
Si premeva da Corleone, poiché da quelle parti già la mafia lottava contro una diga che avrebbe portato l'acqua da tutt'altra parte.
Pasquale Almerico, invece, sosteneva che la diga andava fatta, perché trentamila contadini aspettavano di trovare sul posto il loro pane, invece di essere costretti all'emigrazione.
Si premeva persino da Palermo e dalla fascia costiera, cioè dal regno di un'altra mafia potentissima, quella dell'agrume, timorosa che da un piano di irrigazione venissero fuori, in concorrenza, ricchi agrumeti nell'entroterra"

Schieratosi contro interessi più forti del suo impegno politico, Pasquale Almerico subì allora l'offensiva sempre più pesante del clan di Vanni Sacco, interessato ad allearsi con la DC.

Vanni Sacco, indicato come il mandante del delitto di Almerico

Il boss - già elettore liberale di Vittorio Emanuele Orlando - dapprima cercò di atteggiarsi a paladino del cattolicesimo.
La scusa fu quantomeno sospetta: dopo una sparatoria notturna contro la canonica della parrocchia del paese, Sacco decise di donare alla chiesa una nuova campana.
L'iniziativa diede modo al capomafia di accreditarsi agli occhi dell'elettorato e dei notabili palermitani della Democrazia Cristiana, scalzando a suon di lupara il ruolo locale di Pasquale Almerico.
Poco prima, Almerico si era permesso di negarli l'iscrizione alla sezione locale della DC; Sacco era noto per il suo impegno politico liberale e per la sua fama di "campiere" assurto ai ranghi della "onorata società".
Nel 1952, in occasione delle elezioni amministrative, i liberali riuscirono comunque ad allearsi allo scudo crociato; Almerico fu eletto sindaco, ma dovette accettare l'ingresso in giunta di tre assessori liberali scelti da Sacco.
Dopo avere rifiutato le lusinghe e le minacce degli uomini al servizio del capomafia, venne deciso di mandare in crisi il potere del sindaco.
Il 26 novembre del 1954 fu dato voto contrario allo storno di una spesa di 100.000 lire sostenuta da Pasquale Almerico per partecipare, tre mesi prima, ai funerali romani di Alcide De Gasperi.
L'iniziativa era scorretta ed aveva scopi di natura affatto politica.
Il giorno dopo quell'attacco, Almerico si recò a Palermo per denunciare i fatti al comitato provinciale della DC, ma senza risultati.
Nel gennaio successivo, il sindaco di Camporeale compì un altro passo che gli sarebbe stato fatale: il rifiuto dell'alleanza con i liberali in occasione dell'elezione del Consiglio della Cassa Mutua Coltivatori Diretti, seguito dalla sconfitta di molti suoi candidati.
Ormai screditato a livello politico, Pasquale Almerico ritornò a Palermo, indicando ai maggiorenti della DC nel 9 marzo la data delle sue dimissioni.
In assenza di risposte, abbandonò l'incarico di sindaco, senza neppure avere una risposta dai suoi superiori.


Il travaglio personale di Almerico ed  il cinico  disinteresse mostrato dai vertici provinciali della DC furono documentati in un memoriale scritto dal maestro elementare nell'aprile del 1956, parte del quale riferito ad alcuni scambi verbali ed epistolari avuti col leader palermitano del partito, l'avvocato Giovanni Gioia.
Nel documento - ricorderà nel 1973 il giornalista Giorgio Frasca PolaraAlmerico ricostruì la scalata dei liberali di Vanni Sacco al comune di Camporeale, culminata in una crisi politica della sua giunta "fomentata da forze occulte però ben note in questa nostra terra".
Si chiedeva Almerico:

"Chi erano quelli che venivano ad imporre condizioni?
Il partito ne usciva avvantaggiato?
Avrebbe guadagnato nella considerazione e nei voti?
Si sarebbe l'elettorato mantenuto compatto?"

Alle preoccupazioni dell'insegnante elementare, Gioia avrebbe così replicato:

"Il Dottor Gioia mi rispose che questi problemi non dovevano interessarmi.
Ogni ammonimento era vano e l'intenzione era quella di dare la DC a forze che ne avrebbero sviato e trasformato gli scopi, con uno sconcertante tradimento degli interessi del partito e delle sue finalità". 
Dopo un lungo discorso sulla opportunità di taluni metodi politici in determinate contingenze, Gioia ebbe a dirmi chiaramente che desiderava che io lasciassi la sezione di Camporeale ed anche il paese, offrendomi l'incarico di segretario di zona.
Infine il dottore Gioia, a soluzione di tutta la bassa e meschina faccenda che sa del più lurido compromesso e della più cieca e ottusa visione delle cose" offrì ad Almerico l'assunzione alla Cassa di Risparmio.

Intenzionato a non cedere agli ultimatum ricevuti a Palermo, l'ex sindaco di Camporeale non esitò a presentare un ricorso contro il provvedimento impostogli da Giovanni Gioia, accusato di "abuso ed arbitrio, volontario tradimento e leso prestigio del partito".
La questione finì sul tavolo del collegio centrale dei probiviri della DC, a Roma.
Il 9 agosto del 1956, Almerico venne definitivamente politicamente e moralmente pugnalato: la competenza a valutare la sua denuncia venne assegnata alla segreteria provinciale di Palermo. Cioè, a Gioia.
Gli ultimi mesi di vita di Pasquale Almerico a Camporeale furono segnati dall'isolamento e, forse, dalla consapevolezza di essere destinato alla morte.
Questo timore lo portò a confidare ad un maresciallo dei Carabinieri i nomi dei suoi possibili assassini: Vanni Sacco, suo figlio, Benedetto e Calogero Misuraca.


Nel frattempo, come ha scritto ancora Pietro Zullino, nel dicembre del 1956,

"la mafia ordinò che in paese nessuno più rivolgesse la parola a Pasquale Almerico. Neanche un saluto, neppure un'occhiata.
Almerico si vide a poco a poco scansato da tutti.
Dissero: Almerico è contro le persone onorate perché è pazzo; è pazzo perché porta nel sangue, dalla nascita, qualcosa che fa diventare pazzi; l'hanno sentito bestemmiare, l'hanno visto smaniare e dare nel muro del municipio con la testa.
Ha una malattia vergognosa...
La mafia, allora, capì che stava vincendo la partita, che Almerico era ormai praticamente eliminato non soltanto dalla vita politica, ma addirittura dal consorzio degli uomini.
E volle divertirsi un po' con quell'uomo finito, con quel giocattolo umano.
Per quattro mesi, Pasquale Almerico visse in un pozzo di solitudine.
Nessuno gli rivolgeva più la parola: non aveva più niente da fare a Camporeale, non serviva più.
Vagava per le strade del paese con le mani in tasca o se ne stava in casa a leggere, in un'atmosfera d'incubo, in un silenzio di morte"

Poi, la sera del 25 marzo del 1957, la "mostruosa vicenda" di Pasquale Almerico ebbe il suo epilogo.
Anni dopo il feroce delitto, Vanni Sacco e altri furono accusato dell'omicidio.
Il processo si concluse con l'assoluzione di tutti gli imputati; ed ancora dopo sessant'anni, l'omicidio del maestro elementare che osò sbattere la porta in faccia ad un boss è rimasto senza colpevoli e quasi dimenticato nelle commemorazioni per le vittime di mafia. 
Sacco visse sino al 4 aprile del 1960, morendo nel suo letto con i conforti religiosi; i figli sarebbero stati in seguito uccisi da altri clan di Cosa Nostra.
Adesso, a tardiva memoria di questa storia, il Comune di Palermo ha annunciato l'intenzione di intestare una strada alla memoria dell'ex sindaco che si oppose alla mafia.