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lunedì 31 dicembre 2018

UN OMAGGIO FRANCESE AL PASSATO DI SPERLINGA

Un'abitazione rupestre a Sperlinga, nell'ennese.
L'immagine è tratta dall'opera
"Sicilia felicissima", edita nel 1978 da Edizioni Il Punto
I viaggiatori di svariata e diversa nazionalità che visitano la Sicilia hanno opportunità di trovare nell'Isola sparse tracce del loro Paese.
Uno spagnolo potrà incontrare statue di re e altri notabili ispanici; gli inglesi, cimiteri abbandonati di illustri compatrioti morti qui fra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento; i tedeschi, le targhe che ricordano un lungo viaggio di Goethe; gli americani, monumenti urbani donati dai siculo-statunitensi ai compaesani dei loro paesi di origine; i canadesi, uno dei più curati cimiteri di guerra presenti in Sicilia e dedicato ai loro caduti; ai russi, esempi locali di architettura gotica riproposti a San Pietroburgo; e così via...
Così, al diplomatico Pierre Sébilleau capitò di recarsi sino a Sperlinga per rendere omaggio ad una delle tracce fisiche del legame storico tra la Francia e l'Isola:
      
"Se, però, avrete pernottato a Piazza Armerina o a Enna e ne avrete il tempo - si legge in "La Sicilie", edito nel 1968 da Cappelli - vi consiglierei di prendere, a sinistra, all'uscita di Leonforte, una strada, impressionante per i precipizi che la fiancheggiano, che porta a Nicosia.
Ma, prima di abbordare la rampa che sale verso quest'ultima, abbiate cura di fare, ancora a destra, una breve deviazione di quattro chilometri, motivata dalla riconoscenza che noi, francesi, dobbiamo a Sperlinga.



Questa misera borgata, infatti, ha meritato il motto che potrete leggere sulle rovine della sua piccola fortezza, sempre che ve la sentiate di scalare la colossale lastra di pietra inclinata in cima alla quale esso è scolpito: 'quod Siculis placuit, sola Sperlinga negavit', quando, cioè, i siciliani si decisero a fare i 'Vespri siciliani', solo Sperlinga si rifiutò di associarsi alla cacciata dei francesi e diede, anzi, loro asilo.
Per questo, sembra che sussista ancora qualche traccia della nostra lingua nella parlata locale.
Io, però, credo che la ragione di ciò sia, piuttosto, da ricercarsi nel fatto che il capoluogo di questa regione, Nicosia, fu ripopolato durante il medioevo da immigrati venuti dall'Italia del nord  e principalmente dal Piemonte..."

giovedì 27 dicembre 2018

I QUARANT'ANNI DALLA STRAGE DEL DC-9 "ISOLA DI STROMBOLI"

Il recupero di una parte del DC 9 "Isola di Stromboli"
caduto in mare dinanzi l'aeroporto di punta Raisi,
il 23 dicembre del 1978
Quarant'anni dopo la tragedia, un fatiscente cippo commemorativo a Marina di Cinisi guarda ancora il mare dove il volo AZ4128 - un DC 9 Alitalia denominato "Isola di Stromboli" partito da Roma - planò sulle onde - a 1,5 miglia nautiche dalla costa - toccandole con l'ala destra e ammarando con una violenza da tale da spezzarsi in tre tronconi.
Da 37 minuti e 59" era trascorsa la mezzanotte del 23 dicembre del 1978: morirono 91 persone, compresi i 5 componenti d'equipaggio.
Di altri 17 passeggeri non vennero mai recuperati i corpi, i feriti furono 21.
La strage - 6 anni dopo quella di montagna Longa, costata 115 vittime - alimentò la pessima fama dell'aeroporto di punta Raisi; un'ombra che in quella drammatica vigilia di Natale venne accentuata da circostanze che denotarono i pericolosi limiti operativi dello scalo. 
I soccorsi al DC-9 finito in mare furono affidati per oltre un'ora ai pescherecci di Terrasini perché i mezzi navali di emergenza quella sera erano fuori uso; parte delle luci sulle piste risultarono spente e non vi era ancora la dotazione dell'ISL, il sistema radioelettrico di atterraggio strumentale di precisione.
Le lacune tecniche furono poi aggravate dalle perplessità sollevate dalle modalità grazie alle quali un DC-9 dell'Aeronautica con a bordo il ministro della Difesa Attilio Ruffini avrebbe avuto la precedenza per l'atterraggio rispetto al volo dell'"Isola di Stromboli".
Una sentenza pronunciata nel 1987 non trovò colpevoli per la strage, imputata unicamente alla presunta imperizia dei piloti, anch'essi morti nell'incidente.


"L'inchiesta su questa difficile ricerca della verità - scrisse Vincenza Toscano in "Giù le maschere" ( Gruppo Editoriale Veneto, 1988 ) - per quanto condotta dalla magistratura con impegno e retta intenzione non ha portato in primo piano i veri responsabili del disastro, dei soccorsi a mare e del recupero delle salme.
Se la sono cavata un po' tutti, dai Direttori agli operatori radar, alle apparecchiature e, ahimè, anche i preposti alle stesse Istituzioni ridondanti di responsabilità" 

Nessuno pagò per le omissioni tecniche che di certo favorirono il disastro e che aggravarono il bilancio delle vittime e dei dispersi: alcuni corpi scomparvero infatti per sempre in mare a causa delle improvvisate ( e sciagurate ) modalità di recupero dei tronconi dell'aereo.
Le ricerche delle 17 persone disperse - sollecitate dai familiari - andarono avanti per un paio di mesi: le reti a strascico di quattro pescherecci noleggiati dal ministero dei Trasporti e dall'Aviazione Civile riuscirono però ad imbrigliare solo un teschio allora mai identificato.  
Per molti anni a venire, pezzi del DC9 furono esposti in mostra all'interno di un deposito di rottamazione di una famiglia con un cognome mafioso: portelloni, maniglie ed altri reperti dell'"Isola di Stromboli" diventarono i souvenir di una vicenda dolorosa ed incapace di rispettare il valore della memoria.  

sabato 22 dicembre 2018

IL PESCATORE DI POLPI DI BIROLLI




RENATO BIROLLI, "Pescatore di polpi"

lunedì 17 dicembre 2018

LA CASETTA BIANCA DELLA "SPIAGGIA POP" DI SANT'ELIA

Fotografia di ReportageSicilia
"Questa è sempre stata una spiaggia dalle frequentazioni molto pop ed un luogo per le passeggiate dei morosi", mi spiega Paolo Di Salvo, mentre affondiamo le scarpe sulla sabbia di Sant'Elia.
Dinanzi ai miei occhi si stagliano il mare di Santa Flavia e soprattutto la casetta bianca incastonata su una scogliera traforata da numerose pozze di acqua: una delle costruzioni più singolari e amabili della costa palermitana, che da chissà quanti decenni sfida l'incessante logorio delle onde e della salsedine.
In questo angolo di Sant'Elia si respira l'atmosfera di un passato remoto, tipico di certe località che sono state a lungo naturale e quasi reclusorio teatro di vita quotidiana per le comunità locali.
Qui si è vissuto per secoli di pesca, in condizioni di sussistenza ed isolamento ( così è accaduto per lungo tempo in un borgo ormai conquistato dal turismo come Scopello, nel trapanese ).


La zona conserva tratti riconoscibili di quell'antica bellezza così raccontata nell'estate del 1955 da Carlo Levi:

"Rocce scoscese - si legge in "Le parole sono pietre", edito da Einaudi - terminano in mare con una specie di cornice o di piedistallo di pietra appena sopra il livello dell'onda, che, gonfiandosi dolce, la ricopre a tratti; e questa cornice piena di alghe e di conchiglie e di madrepore e di animali marini, dove si può passeggiare protetti alla vista delle rocce strapiombanti e scavate sotto all'acqua in mille invisibili anfratti, è forata qua e là da larghe buche rotonde o in forma di cuore, come dei piccoli laghi o delle vasche naturali tappezzate di alghe tenere e piene di un'acqua appena mossa.
Qui, in questi cuori marini, ci si può adagiare, mentre dai fori della roccia sale in spruzzi e in getti subitanei, con un gorgoglio sotterraneo, una doccia improvvisa, e, avvolti teneramente dal mare, rimanere a lungo senza pensieri, con null'altro davanti che un impenetrabile azzurro..."

Più avanti, nel tratto che da capo Zafferano conduce sino alla borgata di Aspra, la costa rocciosa offre un esempio dell'illuminata  azione della nomenclatura palermitana degli anni Sessanta e Settanta.


Qui infatti massicci cancelli in ferro ed alti muraglioni proteggono sontuose ville con accesso esclusivo al mare: una cementificazione di lusso ( nulla a che vedere con la coeva e misera fungaia edilizia sorta fra Carini e punta Raisi ), che ha accolto lungo qualche chilometro di magnifico litorale ricchi commercianti, imprenditori edili, dirigenti sanitari, assessori regionali, alti burocrati, stimati magistrati e sanguinari killer della mafia.
Da quelle ville, la splendida vista bifronte di capo Zafferano e del golfo di Palermo ha rappresentato uno status di blindato prestigio sociale e di benessere economico: nulla a che vedere con la vicina "spiaggia pop" di Sant'Elia, con la sua leggiadra casetta bianca e le libere passeggiate dei morosi.


domenica 16 dicembre 2018

UNA MANIFESTAZIONE DI PROTESTA DEI SOLFATARI DI COMITINI

Solfatari al lavoro a Comitini, nell'agrigentino.
La fotografia venne pubblicata nel 1933 dall'opera
"Sicilia",
edita dal TCI per la collana
"Attraverso l'Italia"
Secondo un saggio di Antonio Arnone ( "Solfare e mafia", Medinova, 2002 ), nel 1838 il territorio di Comitini ospitava 38 solfare tra le più attive della provincia di Agrigento.
La fotografia di uno di questi giacimenti venne pubblicata nel 1933 dal volume del TCI "Sicilia" per la collana "Attraverso l'Italia".
Nella didascalia che illustra l'immagine si legge:

"Si scorgono gli ingressi delle cave d'estrazione, e i depositi del minerale in due differenti stadi della lavorazione"

Nei primi decenni dello scorso secolo, i solfatari siciliani avevano fatto più volte parlare di sé per le proteste contro le dure condizioni di lavoro e per i bassissimi salari riconosciuti dai gabelloti delle miniere.
E' lo stesso Arnone a ricordare che in Sicilia

"si continuava a procedere, come se la realtà europea fosse rimasta immobile, con il sistema della gabella.
Il proprietario ( o i proprietari, poiché gli eredi andavano divenendo sempre più numerosi e la miniera di zolfo non poteva suddividersi ) delle solfare chiedeva canoni d'affitto sempre più alti e il gabelloto si rifaceva mantenendo bassi i salari e mirando ad accrescere la produzione.



Tale criterio, però, si rivelò fallimentare, poiché in primo luogo la spartizione degli utili restringeva gli spazi per la pratica di prezzi concorrenziali in un momento in cui stava arrivando in Europa lo zolfo americano.
In secondo luogo la produzione selvaggia, priva di programmazione, determinò la saturazione della domanda e grandi quantità di zolfo dell'agrigentino rimasero invendute nei porti di Licata e Porto Empedocle.
Di conseguenza molte solfare dovettero chiudere i battenti, mentre in altre si ricorse al licenziamento" 

Si spiegano così le frequenti ed accese manifestazioni di protesta in molti comuni delle province di Caltanissetta ed Agrigento, come testimoniato - proprio per i solfatari di Comitini - da questa corrispondenza pubblicata il 6 settembre del 1907 dal "Corriere della Sera"

"L'agitazione degli zolfatari nei vari centri minerari della Sicilia  comincia a preoccupare, essendosi già verificati i primi conflitti e ferimenti.
Ieri nel comune di Comitini alquanti operai esercenti con bandiere, riunitisi nella piazza, improvvisarono un'altra dimostrazione emettendo le solite grida e chiedendo ai presenti che tutti si associassero alla manifestazione senza differenza di classi.
Arrivati in via Indipendenza, davanti al negozio di Girolamo Signorino, invitarono anche questi a seguirli.
In quel momento, non si sa ancora per quali cause, avvenne un vero tafferuglio, tale da indurre i carabinieri che si trovavano sul luogo a intervenire; ma dopo gli incitamenti alla calma, i carabinieri forse per intimorire la folla si diedero a menare calci e pugni.



Allora si videro partire dei sassi dalla folla contro i carabinieri, i quali, temendo una reazione violenta, spararono parecchi colpi ferendo al braccio certo Angelo Moscato e provocando un panico enorme.
Alle detonazioni accorse il delegato Covelli con parecchi carabinieri, i quali dandosi anch'essi a sparare in aria accrebbero lo spavento generale.
Altri carabinieri con baionette innestate si posero agli sbocchi delle vie per impedire il passaggio.
Proprio nella piazza, mentre una signora con un bambino in braccia ed un altro per la mano stava per passare da un negozio all'altro, si vide puntata da otto carabinieri.
Per l'inaspettata minaccia la povera donna non sapeva a qual partito appigliarsi e provò un momento d'indicibile terrore.
Il sindaco telegrafò subito al prefetto di Girgenti che inviò l'ispettore Montalbano per procedere a un'inchiesta e accertare le responsabilità"



   


sabato 8 dicembre 2018

I RIGOGLIOSI TEMPI DEL COTONE A GELA

Ragazzini ed adulti impegnati nella raccolta del cotone a Gela.
La fotografia venne pubblicata da "Italia nostra",
volume IV, edito nel 1965 da Federico Motta Editore
"Rigogliosi campi di cotone, specie nel gelese, hanno dato la possibilità al Cotonificio palermitano di poter lavorare finalmente l'autentico cotone siciliano, al quale è ricorsa tutta l'Europa durante le calamità di tutti i tempi"

Così scriveva nel luglio del 1956 la rivista "Siciliamondo", attestando la ricchezza di una coltura che per decenni ha costituito una delle principali fonti di ricchezza di Gela; ed in quello stesso anno, Daniel Simond poteva riferire in "Sicilia" ( Edizioni Salvatore Sciascia ):

"Le piantagioni di cotone coprono la pianura di Gela"



Soprattutto nei primi decenni dello scorso secolo, la cittadina nissena è stata il centro di produzione, sgranatura, pressatura ed imballaggio di una buona parte del cotone commercializzato in Italia.
Nel 1929, la piana di Gela era coltivata per un totale di 4.500 ettari, diventati 12.000 dieci anni anni dopo.
Nel 1951, si ottennero 50.000 quintali di fibra, ossia la grandissima parte della produzione nazionale. 
Nel periodo in cui "Siciliamondo" celebrava i "rigogliosi campi", Gela stava tuttavia per abbandonare la produzione di cotone per accogliere nel suo territorio agricolo gli impianti industriali per l'estrazione e la lavorazione dei prodotti petroliferi.
Centinaia di braccianti impiegati soprattutto nei mesi di settembre ed ottobre - uomini, donne ma anche bambini - smisero allora di piegarsi sui campi per raccogliere i bioccoli di cotone.



Molti lavoratori adulti finirono con il trovare lavoro nelle fabbriche dell'ANIC e nell'unica azienda locale che per una breve stagione ebbe radicamento grazie a tecnici e maestranze locali: la Gelaplastic, specializzata nella produzione di teloni per serre.
Da qualche anno, preso atto del sostanziale fallimento anche ambientale delle attività industriali, Gela ha tentato di rilanciare la produzione del cotone.
L'impresa non ha però avuto sinora confortanti risultati da un punto di vista commerciale, e dei "rigogliosi campi" celebrati da "Siciliamondo" rimane traccia solo nei ricordi dei gelesi più anziani.




    

   

sabato 1 dicembre 2018

I FELICI TUFFI A PORTO PALO DI CAPO PASSERO

Fotografia di ReportageSicilia

Il sole era tramontato da qualche minuto e l'acqua era così immobile da non provocare neppure un impercettibile sciabordio sulla spiaggia di sabbia e ciottoli. 
Nel silenzio del paesaggio di Porto Palo di Capo Passero, un bagnante ha trovato uno scoglio affiorante a qualche decina di metri dalla riva.
Come un bambino, ha iniziato a tuffarsi a ripetizione, unico e felice padrone del braccio di mare che separa l'imbarcadero dei pescatori dall'isolotto che ospita i ruderi di una vecchia tonnara.
Noi siamo rimasti lungamente a guardarlo, immaginando il piacere di quei tuffi in solitudine.
Il paesaggio ricordava una situazione raccontata da Italo Calvino in "Gli amori difficili":

"L'acqua era calma, con appena uno scambiarsi continuo di colori, azzurro e nero, sempre più fitto quanto più lontano.
Io pensavo alle distanze d'acqua così, agli infiniti granelli di sabbia sottile giù nel fondo, dove la corrente posa gusci bianchi di conchiglie puliti dalle onde".

mercoledì 28 novembre 2018

LA FOTOGRAFIA CHE RACCONTA L'OMICIDIO DEL PROCURATORE SCAGLIONE

Lo scatto che racconta l'omicidio
del procuratore capo a Palermo, Pietro Scaglione,
e l'agente di custodia Antonino Lorusso.
E' la mattina del 5 maggio 1971, in via dei Cipressi.
La fotografia è tratta dall'opera "Sicilia felicissima"
edita nel 1978 da Edizioni Il Punto
La fotografia riproposta da ReportageSicilia ritrae un pezzo di storia palermitana dell'ultimo mezzo secolo: l'assassinio del procuratore capo Pietro Scaglione e dell'agente di custodia Antonino Lorusso, la mattina del 5 maggio del 1971.
Lo scatto di quel duplice omicidio, considerato il primo dei delitti di mafia "eccellenti" per l'alta figura istituzionale di Scaglione, ha la rara dote del racconto: quella capacità cioè di una fotografia di descrivere in un solo fotogramma un'articolazione di situazioni che narrano la trama di un evento.
Guadagnato il balcone al secondo piano di una palazzina in via dei Cipressi - una strada della Palermo più povera e sofferente, delimitata da un vecchio muro oltre il quale si scorge una folta macchia di alberi - il fotografo fissò sulla pellicola la "scena del delitto": nessuna delle 32 persone raffigurate nella pellicola mostrò allora di accorgersi del suo scatto.



A differenza di altre crude immagini di omicidi di mafia di quegli anni, in questa fotografia non compaiono lenzuoli bianchi stesi sui cadaveri, dettagli anatomici delle vittime o chiazze di sangue. 
Lo sguardo si concentra dalla Fiat 1500 scura targata Trieste, con la carrozzeria lucidata a specchio e fori di colpi di arma da fuoco sul parabrezza.
Le ruote anteriori si trovano sopra il marciapiede, segno che Lorusso ha tentato una manovra disperata per evitare il fuoco dei sicari: forse quattro, scesi da una Fiat 850 bianca ed armati di pistole calibro 9 e 38.
La loro azione - avvenuta sotto gli occhi di una statuetta di Santa Rosalia posta in una nicchia di un'edicola votiva - è stata rapida e micidiale. 
Hanno dapprima accostato la 1500 sul lato sinistro, cominciando ad esplodere i primi colpi; poi - secondo un'iniziale ricostruzione dell'agguato - hanno finito di ammazzare i due uomini sparando all'impazzata contro il lunotto posteriore e gli altri finestrini.
Intorno all'abitacolo, a pochi passi dal civico 242 - l'abitazione di Rosa Badalamenti, che dichiarerà di non essersi accorta di quanto accaduto - si muovono quattro investigatori in borghese ed un poliziotto. 



Uno di loro, tenendo le braccia incrociate dietro la schiena, infila quasi la testa all'interno di un finestrino posteriore, per osservare i sedili bordeaux che ospitavano il procuratore Scaglione.
Al centro della strada, altri poliziotti e carabinieri - alcuni dei quali in borghese - sembrano scambiare le prime impressioni sull'agguato.
Fra di loro, ci sono sicuramente dei funzionari che dovranno presto riferire le prime indicazioni sull'accaduto ai loro superiori, a cominciare dalla notizia del recupero di sette bossoli sull'asfalto.
Sembra di riconoscere, tra questi investigatori, il profilo di Giorgio Boris Giuliano, il dirigente della Squadra Mobile che verrà anche lui ucciso dalla mafia nel luglio del 1979
Infine, come in ogni "scena del delitto" palermitana, c'è il pubblico silenzioso dei curiosi e di chi forse ha visto o sentito qualcosa e che non parlerà: persone che allungano lo sguardo oltre la "pantera" del 113 che impedisce loro di avvicinarsi al luogo dell'agguato. 
Con la passare delle ore, in via dei Cipressi gli investigatori raccoglieranno a fatica poche e reticenti indicazioni. 
Un falegname che risulterà essere stato l'uomo che ha avvisato della sparatoria il 113 dirà di avere chiamato solo perché impaurito dai numerosi colpi di arma da fuoco.



Un ragazzino di 14 anni sarà invece protagonista di una testimonianza che per poche ore sembrerà cambiare la prima ricostruzione dell'agguato.
Dirà che a sparare contro l'auto di Scaglione sono state due persone che aspettavano sul marciapiede di via dei Cipressi: la Fiat 850 sarebbe dunque stata solo una vettura di appoggio per i sicari.
Risentito una seconda volta per fornire gli identikit dei due presunti killer, il ragazzino dichiarerà però di essersi inventato tutto. 
Qualcuno, nel frattempo, gli aveva imposto di non parlare più di ciò che aveva visto in quella mattinata di maggio, grigia e ventosa, in cui la mafia aveva appena ucciso per la prima volta a Palermo un alto magistrato.     

lunedì 26 novembre 2018

LA PESCA IN SICILIA DI ENRICO COLOMBOTTO ROSSO


ENRICO COLOMBOTTO ROSSO, "Pesca in Sicilia", 1952

domenica 25 novembre 2018

IMMAGINI DI UN BOMBARDAMENTO A MARINA DI RAGUSA

Effetti di un bombardamento alleato a Marina di Ragusa.
Le fotografie furono realizzate da Angelo Oliva,
forse nella primavera del 1941
"Il 3 gennaio 1941 giunse in Italia il 'X Fliegerkorps' della Luftwaffe, il primo reparto tedesco ad essere dislocato sul territorio nazionale, che con i suoi aerei si affiancò alle squadriglie italiane operanti nel Mediterraneo.
Negli aeroporti siciliani furono collocati 96 bombardieri e 25 caccia.
Il 10 gennaio, quaranta aerei tedeschi effettuarono la prima azione d'attacco nel Mediterraneo contro due navi britanniche: la portaerei 'Illustrious' e l'incrociatore 'Southampton', che subirono gravi danni.



Alcune azioni furono compiute anche sull'isola di Malta, dove vennero presi di mira il porto e gli aeroporti di Luqa e di Hal Far.
La Sicilia, in quei mesi, rappresentava un obiettivo militare strategico delle truppe alleate che, dopo un primo raid aereo compiuto nel luglio del 1940 sull'aeroporto di Catania, nel gennaio del 1941 avevano bombardato nuovamente la città etnea, provocando però pochissimi danni e solo qualche vittima.
La difesa contraerea italiana, varie volte, era riuscita ad abbattere alcuni velivoli dimostrando una forte capacità di reazione.
Durante la primavera del 1941 si registrarono altri bombardamenti su Catania e su alcune città dell'isola: ad essere prese di mira, oltre il capoluogo etneo, furono soprattutto Siracusa, Augusta, Comiso e Licata, dove le bombe provocarono altre vittime tra i civili"


Così il giornalista Ezio Costanzo nel saggio "Sicilia 1943-Breve storia dello sbarco alleato" ( Le Nove Muse Editrice, 2003 ), ha ricostruito le prime fasi del secondo conflitto mondiale nell'Isola.
Le indicazioni di Costanzo ed il riferimento ai bombardamenti alleati nella primavera del 1941 possono forse essere messi in relazione con le fotografie inedite pubblicate da ReportageSicilia.
Le immagini furono scattate da Angelo Oliva, padre dell'autore del blog ed all'epoca ufficiale del Genio Aeronautico in servizio all'aeroporto "Magliocco" di Comiso.
I luoghi ritratti nelle fotografie - come si legge nel loro retro - si collocano a Marina di Ragusa; gli scatti documentano gli effetti di un bombardamento aereo su un gruppo di abitazioni e i rottami di un velivolo tedesco abbattuto dopo un duello aereo.


In un archivio Alinari di fotografie scattate durante quegli anni di guerra si segnala la presenza di alcune immagini realizzate a Marina di Ragusa dopo un bombardamento.
Quegli scatti, che ritraggono un intervento dei vigili del fuoco, sono datati 13 aprile 1941: una data che potrebbe essere la stessa in cui Angelo Oliva realizzò nella borgata ragusana le fotografie pubblicate da ReportageSicilia.  

sabato 24 novembre 2018

IL DECENNALE MIRAGGIO DEL RISANAMENTO PALERMITANO

Sgombero di edilizia fatiscente
nel quartiere palermitano del Papireto.
La fotografia riproposta da ReportageSicilia
venne pubblicata dal settimanale
"Tempo"
il 9 giugno del 1959
Papireto, Capo, Albergheria, via Colonna Rotta... 
Sono le zone di Palermo ai margini delle sedi istituzionali e dei poteri civili, religiosi e giudiziari regionali e cittadini: da palazzo dei Normanni - con la magnificente Cappella Palatina - a palazzo d'Orleans, dalla Cattedrale al palazzo Arcivescovile, dal palazzo di Giustizia alla Legione dei Carabinieri ed alla Questura
In questa vasta area del centro storico si concentra ancor oggi un'edilizia spesso fatiscente, eredità di decenni di scarsi o nulli  interventi abitativi che pesano come un macigno sul raggiungimento di una prospettiva nel frattempo diventata miraggio: il "risanamento" edilizio.
Molti degli abitanti di questi quartieri palermitani vivono in alloggi che necessitano di radicali interventi di ristrutturazione, se non di una vera e propria demolizione e ricostruzione.
L'incompiuto risanamento di una parte del centro storico palermitano ha una storia che prese corso alla fine del secondo conflitto mondiale. 
Le bombe alleate da una parte, e dall'altra le spinte edilizio-mafiose che miravano a promuovere nuove lottizzazione oltre i vecchi quartieri, hanno aggravato col passare dei decenni i guasti da riparare, ed aumentato il numero delle infrastrutture da ricostruire o progettare ex novo.
La fotografia riproposta da ReportageSicilia illustra uno dei molti interventi parziali compiuti nell'area del Papireto alla fine degli anni Cinquanta dello scorso secolo: lo sgombero di un "pozzo" - parola che all'epoca definiva i malsani "bassi" - abitato da decine di persone poi trasferite in alloggi popolari periferici.


L'immagine - una classica fotonotizia - venne pubblicata dal settimanale "Tempo" il 9 giugno del 1959, accompagnata da questa didascalia:

"L'onorevole Ludovico Corrao, assessore ai Lavori Pubblici della Regione, visita uno dei così detti 'pozzi', agglomerati di abitazioni malsane e malsicure al centro di Palermo, nelle vicinanze dei palazzi del Governo e dell'Assemblea regionale.
I 'pozzi' sorgono al di sotto del livello stradale, nelle cantine dei grandi caseggiati demoliti dai bombardamenti.
In queste settimane, i primi nuclei dei senza tetto sono stati sistemati in case popolari"
     

martedì 20 novembre 2018

LE IMPRESSIONI MONREALESI DI ORIO VERGANI

Gruppo di turisti all'interno del chiostro di Monreale.
La fotografia riproposta da ReportageSicilia
è tratta dalla rivista
"il Mediterraneo"
edita dalla Camera di Commercio di Palermo
nel luglio del 1969
Beneficiaria di notorietà internazionale grazie ad una delle chiese più grandiose e significative del secolo XII, Monreale vive questo prestigio con una certa indifferenza. 
Il duomo qui si impone urbanisticamente con la sua mole di severa fortificazione, nascondendo all'interno l'effluvio luccicante dei famosi mosaici.
Lo sguardo dei monrealesi verso l'insigne monumento appare però quasi disinteressato; l'edificio sembra piuttosto appartenere al quotidiano sciame di turisti che vi entrano e vi escono, impugnando il telefonino per gli immancabili autoscatti da inviare subito in mezzo mondo.


Di regola, il viaggiatore che raggiunge Monreale da Palermo - sfidando il traffico di corso Calatafimi - si limita a visitarne solo il complesso architettonico normanno ( oltre al duomo, le sue absidi esterne, le terrazze affacciate su quella che un tempo era la Conca d'oro, il chiostro ); in tre o quattro ore ha concluso il suo tour, ripercorrendo la strada che lo riporterà nel caos palermitano.
Pochissimi prestano attenzione alle altre chiese storiche che arricchiscono il tessuto urbano di Monreale.
Molte, del resto, sono chiuse da anni; una circostanza che denota il disinteresse dei monrealesi verso "l'altro" patrimonio artistico cittadino, quasi schiacciato dalla grandezza del capolavoro normanno. 
Così, in assenza di un vero e proprio centro storico - capace di raccontare la secolare identità locale - Monreale offre un aspetto anonimo e privo di richiami degni della sua preziosa dote architettonica.
Simili impressioni monrealesi furono già espresse in un reportage che il giornalista, scrittore e fotografo Orio Vergani pubblicò il 17 aprile del 1931 sulle colonne del "Corriere della Sera".


Buon conoscitore della Sicilia ( suo il saggio "Colori di Sicilia", edito da ERI nel 1953 ) e abituale frequentatore e collaboratore di Luigi Pirandello ( "un rapporto filiale", secondo lo scrittore Gaetano Afeltra ), Vergani così descrisse il rapporto fra gli abitanti di Monreale e la loro famosa chiesa: 

"Non c'è dunque città più di Monreale disinteressata al suo capolavoro, lasciato da un lato come la corona di una regalità troppo sublime per occuparsene tutti i giorni.
Questo piccolo paese di ortolani e di fruttivendoli vive molto pacificamente affacciato al balcone della Conca d'oro, e, più di Bonanno da Pisa e dei marmorari che scolpirono le varie centinaia di capitelli del chiostro più celebre del mondo, si preoccupa del buon raccolto degli aranci e dei fichidindia.
La vita stessa del paese è deviata da quello che dovrebbe sembrare il suo centro, e il giardinetto a fianco della cattedrale fa da trincea a quella invadente e prodigiosa presenza, e fa sì che in paese si possa campar tranquilli, come nel riparo di un angolo morto.
La colonna dei visitatori non lo tocca nella sua marcia verso la cattedrale.
Viene all'assalto in uno stato di lieve e crescente ebbrezza.
L'ubriacatura comincia subito, sotto questa luce, entro questo splendore eccessivo.


E' naturale che gli abitanti di Monreale si tengano in disparte da tutto questo, per discrezione e per sazietà, tanto da essere più devoti al Cristo di una chiesa fuori mano che non a quello dagli occhi neri e terribili che guarda dalla vela d'oro della cupola estrema della cattedrale.
Qui entrano di domenica, marciando in punta di piedi sui pavimenti levigatissimi, e non si fidano quasi, in tanta pompa, di chiedere le umili grazie per le loro umili pene al ricchissimo Signore normanno del Cielo e della terra.
Gli altri giorni preferiscono raccogliersi in una cappella laterale, quella di San Castrense, sbiancata a calce, con quattro croste bonarie alle pareti.
Qui c'è un'aria di famiglia serena e riposante a lato dei seimila e più metri quadrati di mosaico della basilica regale, e si può pregare e salmodiare in santa pace, mentre, per le navate della chiesa grande, i gruppi di turisti girano col naso in su, salgono gli scalini del santuario, scrutano in ginocchio i bassorilievi d'argento dell'altar maggiore, e, dove possono, toccano con mano la compatta levigatezza del mosaico..."



   

sabato 17 novembre 2018

MODERNITA' E TRADIZIONE DI UN MOTOCARRO SULLE STRADE DELL'ISOLA

Fotografia tratta dalla rivista
"Quattroruote", edita nel giugno del 1960
"Ecco come ha combinato motocarro e carrettino un commerciante siciliano, fedele alle folkloristiche tradizioni della sua isola e amante della indispensabile velocità consentita dal motore"

Questa didascalia illustrò nel giugno del 1960 la fotografia pubblicata dal mensile milanese "Quattroruote", ora riproposta da ReportageSicilia.
La fotonotizia dedicata al motocarro Piaggio decorato in Sicilia come un tradizionale carretto trovò spazio nella pagina in cui si dava conto dell'imminente presentazione negli Stati Uniti della nuova Dodge Chrysler "Valiant" da 101 cavalli.
L'accostamento delle due notizie, forse, non fu casuale: nell'epoca del pieno sviluppo dell'industria automobilistica mondiale - e della vertiginosa diffusione in Italia di automobili e moderni veicoli da lavoro - quel motocarro dipinto restituiva l'immagine di una Sicilia che si affacciava alla nuova era dei trasporti conservando i segni  "folklorici" - secondo l'opinione di "Quattroruote" - dei suoi antichi carretti.
O forse, come ha scritto Antonino Buttitta in "Il carretto racconta"  ( Edizioni Giada, 1982 ), i carrettieri diventati camionisti o conduttori di motofurgoni "hanno cercato significativamente di trasferire sui nuovi mezzi di trasporto il repertorio pittorico dei carretti" per sottolineare, ancora una volta - in piena evoluzione dei trasporti - il proprio prestigio sociale.




mercoledì 14 novembre 2018

LA VERTIGINOSA VISTA DELLA TORRE DELL'IMPISO

La torre dell'Impiso, fra San Vito Lo Capo
e la Riserva dello Zingaro.
La fotografia è di ReportageSicilia
Solidamente radicata su un ripido declivio roccioso, fra palme nane e vegetazione spontanea, la torre dell'Impiso è uno dei luoghi siciliani di più semplice bellezza: la perfetta intromissione di un manufatto antico di 500 anni ai limiti occidentali della riserva trapanese dello Zingaro.
La torre di avvistamento, vertiginosamente affacciata verso l'infinito azzurro del Tirreno, domina un ampio litorale nei secoli scorsi punto di approdo di predatori provenienti dal Mediterraneo centrale.
Le vicende costruttive della torre dell'Impiso sono state ricostruite da Salvatore Mazzarella e Renato Zanca nell'ineguagliato saggio "Il libro delle torri", edito da Sellerio nel 1985.
Si apprende che la scelta del sito di costruzione venne stabilita il 30 aprile del 1594, che quattro mesi dopo il cantiere era già in funzione e che il 19 agosto del 1596 la torre era pienamente operativa.
Munita di artiglieria e presidiata da un caporale, un artigliere ed un soldato, la torre fu munita di un piccolo mulino per la produzione di pane, di un ampio camino e di una spettacolare terrazza per il controllo del via vai delle imbarcazioni.
Sembra che in un paio di occasioni - agli inizi del secolo XVIII - i fulmini abbiano colpito la torre, danneggiandola parzialmente.

La torre dell'Impiso - la quinta costruzione
a partire da sinistra - in una cartografia tratta
dall'opera
"Erice oggi Monte San Giuliano in Sicilia"
di Vito Castronovo ( 1872 ) 

Dopo quasi un secolo di completo abbandono e di utilizzo come ricovero di pecore ed altri animali domestici, la costruzione è stata restaurata, tornando al suo aspetto originario di torre ben articolata e dalle eleganti forme architettoniche.
Un'escursione sino a questa torre - raggiungibile attraverso la strada che da San Vito Lo Capo conduce sono all'ingresso della Riserva dello Zingaro - permette di godere di uno dei luoghi più suggestivi ed ancora integri lungo le coste della Sicilia.

martedì 13 novembre 2018

LA TECNICA AGRICOLA DEI "SALINARI" TRAPANESI

"Salinari" trapanesi al lavoro.
La fotografia riproposta da ReportageSicilia
è tratta dall'opera
"Italia Nostra", volume 4,
edita nel 1965 da Federico Motta Editore 
Quello delle saline di Trapani è uno dei paesaggi siciliani più noti e raccontati della Sicilia.
Il merito di tale fama è giustificato dall'indubbia suggestione dei luoghi e dalla storia secolare di quel paesaggio, frutto di un sapiente ed oculato sfruttamento umano del territorio.
Pietrangelo Buttafuoco ha ben descritto nel 2017 quel singolare ambiente trapanese ed il lavoro svolto dai "salinari", più agricoltori che uomini di mare:

"Lo Stagnone è un feudo di terra concesso in usufrutto al mare.
E' sbagliato, infatti, dire 'estrazione' riguardo al sale.
Questo frutto, più correttamente, si coglie.
E tutta la fatica è in realtà uno scambio di ruoli tra le onde e le zolle.


Nelle vasche dei salinari, quel prezioso raccolto che dà sapore e sapienza si coltiva e non è una cosa da andare a strappare a un filone di miniera...
La tecnica - quello zappare - è tutta agricola, giammai marinara...
E gli stessi strumenti dei salinari - osservateli attentamente - sono come quelli della campagna.
Hanno vanghe da far sprofondare con la forza del piede.
Quel poco di mare, recintato nelle chiuse, se ne va via intanto col sole e con il vento forte e caldo mentre il coltivare dei salinari indugia nella pazienza, nel metodo e nella speranza del bel tempo.
Il sale è messo a dimora in cumuli alti tre metri e lunghi fino a dieci.


Sono ricoperti di tegole in terracotta collocate a forma di tetto a scongiurare la stagione della pioggia, quando una sola goccia basterebbe a far svanire tutto quel granaio di nitore e i mucchi, inquadrati in un ordine tutto razionale, sembrano dei silos di semenze collocati accanto alle vasche.
La sovrapposizione di terra e mare proclama l'inversione d'orizzonte e i cumuli, allora, diventano come vivai.
Serre dove la modernità - è già successo nelle campagne - ha portato l'orrida plastica dei cesti in sostituzione del vimine ma che il lavoro dell'uomo innesta nel rito eterno: il sudore..."