Translate

venerdì 4 luglio 2025

LA COSTA PALERMITANA D'ORIENTE DI IGNAZIO CAMILLERI






 

GIOVANNI ARTIERI E L'IMPRESSIONE DEL TERMINE DI TRAPANI

Paesaggio di Trapani.
Fotografia
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Giornalista e saggista napoletano, autore di migliaia di articoli e reportage per vari periodici ( "Il Mattino", "La Gazzetta del Mezzogiorno", "Il Tempo", "La Stampa" ), nel dicembre del 1961 Giovanni Artieri riferì sulla rivista "Sicilia" edita dall'assessorato regionale al Turismo le sue impressioni sul paesaggio di Trapani, "città nitidissima e con una nobile gelosia dell'antico":

"Appiattita su una lingua di terra, Trapani si scopre improvvisa. Saline, prati, alberate, riquadri di orti; il giro dei mulini a vento pone nell'immobilità stupita il palpito delle vele. Di fronte, la meraviglia delle Egadi, attruppate e impazienti di entrare in porto...



A Trapani s'avverte, infatti, il senso del termine. Orizzonti bassi e vaporanti, arie bianche e remote, pianure a riva di mare: segno della terra disposta ad estenuarsi e scomparire..."



QUANDO USTICA IMMAGINO' L'"UNIVERSITA' DEL COLORE"

Fotografie Publifoto,
opera citata nel post


Dal 19 al 24 settembre del 1972 Ustica accolse la quarta edizione del Concorso di pittura murale "Premio Città di Ustica".  L'evento coinvolse una settantina di artisti,  fra i quali Giovanni De Simone, Salvatore Fiume, Fausto Maria Liberatore, Goffredo Godi, Santo Marino, Alfredo Avitabile, Andrea Volo, Fleur Beverly, Renzo Biasion, Giorgio Celiberti, Pippo Gambino e Gaetano Lo MantoIl Concorso, seguendo la consuetudine delle precedenti edizioni, non proclamò alcun vincitore, confermandosi un momento di incontro semi vacanziero promosso dalla Pro Loco con un contorno di eventi gastronomici e di spettacolo.  

"L'organizzazione - scrisse Ugo Alvaro Bazan sulla rivista "Sicilia" pubblicata nel gennaio del 1973 dall'assessorato regionale al Turismo ( le fotografie che corredarono il reportage sono attribuite a Publifoto ) - ha voluto che questa manifestazione si svolgesse in piena armonia ed ha raggiunto il suo scopo. Tutti, al termine del Concorso, hanno avuto un piccolo omaggio e tutti sono stati apprezzati ed applauditi, in piazza, nel corso di una cerimonia conclusiva.



In nome della "non concorrenza" i cinque giorni del Concorso hanno, in quel periodo, trasformato l'isola. Artisti giovani ed anziani hanno letteralmente fatto da padroni sull'isola. Hanno rubato ad Ustica l'intreccio dei colori del suo mare, della sua natura, dei riflessi del sole o della luna sulle onde e mai furto ha avuto il sapore di tanta innocenza, di tanto amore, anche perché quanto rapito è stato subito restituito all'isola, con precisi tocchi di pennello e con un di più: uno spicchio di spirito, di cuore, indispensabile per cantare in chiave pittorica gli stati d'animo che Ustica riesce a profondere.

Lo hanno restituito realizzando affreschi sulle mura esterne delle casette usticensi che per la quarta volta si sono arricchite di un patrimonio artistico d'indiscusso valore..."



Il reportage di Ugo Alvaro Bazan riferisce che alcuni partecipanti all'evento aderenti al Sindacato Artisti ed Artigiani Artisti Italiani proposero allora di realizzare ad Ustica una "Università del Colore", che avrebbe dovuto avere sede all'interno della Torre di Santa Maria:

"Maestri del colore, artisti di fama internazionale, ogni anno, dall'estate all'autunno, a turno, terranno seminari a giovani pittori, scultori e ceramisti invitati in tutto il mondo..."

L'ambizioso progetto non vide la luce, ma ancor oggi Ustica continua a conservare tracce di quei lontani giorni di settembre in cui le case dell'isola divennero le tavolozze di decine di pittori.



giovedì 3 luglio 2025

ANTHONY BLUNT, L'EX SPIA DI MOSCA CHE SCOPRI' IL BAROCCO SICILIANO



"Se il progetto era audace, può sembrare addirittura impertinente che lo abbia condotto a termine uno che non è italiano, non diciamo poi siciliano. La mia scusante per averlo fatto è duplice. Prima di tutto, nessun siciliano se n'è presa la briga; in secondo luogo, per un volume del genere, il fatto di essere scritto da chi, per così dire, ne è fuori e può vedere l'architettura barocca siciliana nel quadro più vasto dell'architettura dei Sei e Settecento in Europa, può costituire un vantaggio. La mia speranza è che, in tal modo, il vero carattere e l'autentica originalità di quanto è stato prodotto nell'Isola appaiano più chiari..."  

Così lo storico dell'arte inglese Anthony Blunt spiegò nella premessa del saggio "Barocco siciliano" edito nel 1968 a Londra da Weidenfeld & Nicolson la decisione di occuparsi di quella stagione architettonica in una regione posta nel cuore del Mediterraneo. Partendo da Messina, Blunt - accompagnato dal fotografo Tim Benton, autore di pregevoli scatti - esaminò le diverse espressioni del barocco siciliano, includendo nel suo tour Catania, Siracusa, Noto, Ragusa, Modica e Palermo

Nella stessa premessa al saggio, il professore inglese spiegò di avere visitato la Sicilia già nel 1965, partecipando da docente ad una "Summer School" organizzata dai "coniugi Robertson"; e ringraziò per l'aiuto "gli amici dell'Università di Palermo" - indicati nei professori Vincenzo Ziino e Benedetto Colajanni - e lo storico Denis Mack-Smith, anche lui inglese, "che mi ha cortesemente concesso di leggere in manoscritto due capitoli della sua storia della Sicilia di prossima pubblicazione"

Anthony Blunt


Infine, Anthony Blunt, consulente della casa reale inglese per le opere d'arte dal 1952 al 1972 ed autore di altri studi dedicati all'Italia - dai disegni romani e veneziani al barocco ed al rococò napoletani - rivelò di avere scritto buona parte di "Barocco siciliano" sui tavolini di piazza Duomo, a Cefalù, e di altri bar di città dell'Isola.

Proprio la matrice straniera del saggio dedicato ad uno dei più rappresentativi stili architettonici siciliani alimentò diffidenze e commenti generalmente poco positivi da parte della critica italiana. Cesare Brandi - storico dell'arte molto legato alla Sicilia - sollevò riserve su alcune valutazioni espresse da Blunt riguardo le influenze subite dagli architetti operanti fra Noto e Palermo da altri architetti europei ed italiani. Lo stesso Brandi tuttavia auspicò che la pubblicazione inglese - edita in Italia da Il Polifilo Milano - "potesse rendere più attivo il restauro e più accorta la conservazione del patrimonio barocco siciliano". Merito di Blunt fu certamente quello di raccontare la storia di quella feconda e assai varia produzione architettonica, sino ad allora poco esplorata da altri studiosi e critici d'arte.   

Nel 1979, il professore inglese che anni prima aveva scritto un saggio sul barocco siciliano sorseggiando latte di mandorla, caffè e tè sui tavolini della piazza di Cefalù assunse un ruolo inaspettato e da romanzo giallo. Fu in quell'anno che la premier inglese Margaret Thatcher svelò alla Camera dei Comuni che Anthony Blunt sino al 1963 era stato un informatore al soldo del KGB sovietico: il "quarto uomo" di un gruppo di spie britanniche in contatto con Mosca sino al 1951 e composto anche da Guy Burgess, Donald MacLean e Kim Philby



A partire dagli anni Trenta, i quattro avevano fatto parte degli "Apostoli", una società segreta nata all'interno della Università di Cambridge con simpatie comuniste. Ancora la Thatcher rese noto che nel 1964, alla vigilia del suo primo viaggio in Sicilia, il professore Blunt aveva goduto dell'immunità dopo avere confessato l'attività spionistica a favore dell'Unione Sovietica. Quel "perdono" gli permise di non perdere la qualifica di professore universitario, con la rinuncia però a buon parte dei titoli ricevuti dalla casa reale inglese.

L'autore di "Barocco siciliano" morì in solitudine, nel marzo del 1983. Aveva 75 anni. Il fratello Wilfred ne scoprì il corpo su un pavimento nel suo appartamento di Londra. Sembra che il professore stesse consultando un elenco telefonico prima di fare colazione. Un medico attribuì quella morte improvvisa ad un infarto: una ricostruzione senza apparenti ombre, se non per l'opaco passato di Anthony Blunt, ex spia di Mosca che visitò la Sicilia per descriverne i virtuosismi del suo barocco. O forse l'intento non fu solo quello?  

La fotografia di Anthony Blunt è tratta dal Corriere della Sera del 27 marzo 1983.

La fotografia del prospetto della chiesa di S.Antonio a Buscemi è di Tim Benton, opera citata nel post


mercoledì 2 luglio 2025

LO SGUARDO DI COMISSO SU CALASCIBETTA

Il paese di Calascibetta, nell'ennese.
Fotografia attribuita a Pedone
tratta dal II volume dell'opera "Sicilia"
edita nel 1961 da Sansoni e dall'Istituto Geografico de Agostini


Nel corso dei suoi numerosi viaggi estivi in Sicilia - stagione in cui "nell'ora meridiana... è come respirare il fiato uscente dalle fauci di un leone" - Giovanni Comisso si addentrò sino ad Enna, il cuore dell'Isola

Lo scrittore e saggista veneto vi arrivò con ancora il sapore in bocca di un latte di mandorla bevuto a Piazza Armerina, capace di "rinfrescare e togliere ogni stanchezza".

All'alba, svegliato dal chiarore già energico del giorno, dalla balaustra di una piazza ennese, scoprì Calascibetta, con le sue case distese ad anfiteatro ai piedi del monte Xibet. Nell'apprendere il nome di quel paese, Comisso - cultore del mondo greco - ne spiegò erroneamente l'origine, riconducendola al greco "kalos" ed all'arabo "gebel", invece che al termine "qal'ah" ( "rocca, cittadella, fortezza costruita su un'altura" ) e al nome del monte Xibet

"Nella notte fitta di stelle le luci dei paesi elevati sulla cima dei monti - si legge in "Sicilia", edito nel 1953 a Ginevra da Pierre Cailler - emergevano come fosforescenti meduse sulle acque di un mare notturno. Il grande silenzio era rotto solo dal latrare dei cani a guardia dei casolari sparsi nella valle...

Già il primo albore definiva a oriente la piramide dell'Etna e per duri sentieri della valle incominciò lo scalpiccio degli zoccoli ferrati dei muli coi contadini in groppa assonnati. Uno scalpiccio che discendeva dai casolari invisibili verso il fondo della valle per andare oltre; nella stessa ora, altri contadini in groppa di altri muli discendevano dai villaggi o dai casolari sparsi, in tutta l'isola...



Alla prima brezza dell'alba le tortore presero a tubare sommesse e subito dopo gli usignoli martellarono l'aria e già rosseggiava l'aurora, sparite le ultime stelle...

Non mi era più possibile ritornare a dormire dopo che questo sole mi aveva del tutto risvegliato nello sguardo. Uscii sulla piazza deserta e ancora mi attrasse la balaustra che la limitava verso la valle. Oramai il canto degli usignoli aveva sommerso quello delle tortore e i colori ritornavano alla terra battuti dal sole nel suo ripreso vigore.

Anche un uomo della città si era risvegliato ed era venuto ad appoggiarsi alla balaustra, vicino a me. Osservano il paese al di là della valle stretto sulla cima del piccolo monte erto e roccioso, le case grigie nelle loro pietre sembravano cristallizzazioni del monte e senza riguardare l'uomo che mi stava vicino gli chiesi quale era il nome di quel paese che gli additai.



Intesi una voce fievole rispondermi cadenzando ogni sillaba:

"Calascibetta"

Indubbiamente quel nome risultava dalla fusione di due parole, una greca: "Calos", e l'altra araba: "Gebel", per significare: "bel monte". Queste due invasioni di popoli, tra le altre, più feconde, venute attraverso il Mediterraneo a questo fiore sospeso tra il mare e il cielo avevano frammisto il loro polline in quel nome che permaneva ancora..."

domenica 29 giugno 2025

IL PENNELLO DANZANTE DI LUCE AGRIGENTINA DI LUC GAUTHIER

"La Vincenzina" e "Malerba",
opere del pittore francese Luc Gauthier,
opera citata nel post


Nell'estate del 2009 il pittore francese Luc Gauthier tornò dopo dieci anni in Sicilia dal sud della Francia per ritrarre nature morte e paesaggi marini della costa agrigentina, fra Licata e Marina di Palma di Montechiaro. Qui, a differenza dei suoi luoghi di origine - dove il caldo e la foschia estiva non gli permettevano di dipingere - trovò "una luce violenta ma limpida, nel senso che si distingue una foglia di albero a dieci chilometri di distanza...".

Ciò che colpì Luc Gauthier fu la continua brezza avvertita sotto il suo ombrellone ed il quotidiano mutare del tempo e dei paesaggi ( "I mari, i cieli e i venti cambiano continuamente, i blu sono sempre diversi..." )



In un catalogo di quelle opere ad olio dipinte nel corso di quell'estate edito nel 2010 dagli "Amici della pittura siciliana dell'Ottocento"  ( "Cet été. Opere di Luc Gauthier" ), l'artista francese avrebbe così spiegato il suo rapporto pittorico ed emozionale con la Sicilia, partendo dall'utilizzo dei colori:

"Sono tutti dei blu-verdi e, comunque, non più gli stessi blu della Francia. La mia tavolozza si è trasformata da cima a fondo. Per quindici giorni mi sono sentito completamente smarrito, perché continuavo a usare gli stessi colori di prima.

Ma lì non funzionava più niente. In Francia, tutto sommato, i colori sono abbastanza puri, mentre qui ero obbligato a sfumarli molto di più. Io, che nei miei colori non metto quasi mai il nero, ci ho messo il nero.

Ma non un nero qualsiasi, non il nero d'avorio. Mi ci sono voluti quindici giorni per trovare il nero di vite che, in realtà, non è un nero, ma un colore. Un nero bellissimo, molto caldo. Ne ho aggiunto un pò ai toni che ho a poco a poco sfumati, e ho usato dei blu che in Francia non utilizzo quasi mai e che d'altronde sono più che altro dei verde-cobalto.



Un pittore che si porta dietro dappertutto gli stessi colori non è un buon pittore. La geografia cambia profondamente il colore e la materia di un pittore.

Non si dipinge dappertutto a olio, soprattutto nel Mediterraneo. La Sicilia è un paese in cui si può ancora dipingere a olio...

Laggiu' mi sono sentito vivo perché ero un niente di fronte a un'immensità. Mi è molto piaciuta questa sensazione di fragilità. Come pure quella di non fare quasi niente, oggi che la pittura ha raggiunto un tale grado di speculazione.

Laggiù tutto questo non ha più senso, si ritrova la sensazione di essere un uomo di fronte alla terra. Qui da noi abbiamo i nostri riferimenti, la nostra esistenza, un certo ordine. Là c'è il caos, il caos di un mondo che, nonostante tutto, possiede una sua armonia. Là mi sentivo in armonia.



Il passato, la luce, il clima, la situazione geografica fanno della Sicilia una sorta di giardino ideale, un giardino dimenticato, un giardino sulfureo che è anche, checché se ne dica, il cuore del Mediterraneo palpitante al ritmo delle pulsioni del vulcano e delle onde che ne percuotono o ne accarezzano gli scogli.

Si trova nel cuore delle realtà vitali, e questo rende possibile la pittura e, nella luce straordinaria di quest'estate, il mio pennello ha danzato..." 

martedì 17 giugno 2025

MAFIA E SERVIZI SEGRETI, LE TRACCE NASCOSTE DI UN RAPPORTO INCONFESSABILE

Processione a Palermo.
Fotografia di Nino Teresi
tratta dalla rivista "Sicilia"
edita nel dicembre del 1964
dall'assessorato regionale al Turismo


Quando sono iniziate in Sicilia la convivenza e la connivenza fra mafia e Stato? A questa domanda hanno risposto in maniera non univoca autorevoli storici, saggisti e studiosi del fenomeno mafioso. Di certo, un aspetto fondante di questo rapporto è stato rappresentato, oltre che dai legami fra boss e gregari di "cosa nostra" con politici ed amministratori della "cosa pubblica", dal ruolo del volto nascosto dello Stato: quei servizi segreti destinati a indirizzare nell'ombra il corso di molti eventi italiani. 

Nel 2016, la giornalista Bianca Stancanelli ha riassunto così i molti indizi che alimentano fondati motivi per credere nei collegamenti - inconfessabili e di difficile esame giudiziario - fra mafia ed apparati dello Stato:

"Molto prima che Gaspare Spatuzza collocasse un funzionario dei servizi segreti sulla scena dell'autorimessa in cui si confezionava l'autobomba per uccidere Paolo Borsellino - si legge nel saggio "La città marcia", edito a Venezia da Marsilio -  collaboratori di minore e maggior peso hanno riferito dei loro contatti con gli 007.

Francesco Di Carlo, boss di Altofonte e personaggio di rilievo dello schieramento corleonese, esule di lusso a Londra dalla fine degli anni Settanta, si vanterà delle sue frequentazioni con il generale Giuseppe Santovito, che fi capo del Sismi, il servizio segreto militare, dal 1978 al 1981 - gli stessi anni in cui militava nella P2. A voler credere a Di Carlo, i suoi rapporti con il generale erano improntati alla massima cordialità. Con Santovito, il mafioso di Altofonte sostiene di essere andato a pranzo perfino da latitante.

Dei suoi contatti con il Sisde parla con disinvoltura Leonardo Messina, numero due della famiglia di San Cataldo. E ne parla Gaspare Mutolo, il mafioso che incontrerà Paolo Borsellino diciannove giorni prima della strage di via d'Amelio e che gli farà il nome di Bruno Contrada, numero tre del Sisde, come di un uomo colluso con Cosa Nostra.

Quanto a Giovanni Brusca, sarà lui stesso a riferire che Angelo Siino gli sembrava collegato con i servizi segreti - quel medesimo Siino che era allora il plenipotenziario di Riina, chiamato a mediare tra l'imprenditoria siciliana e nazionale, la politica e la mafia.

E' ovvio che fa parte del mestiere di spia mettere il naso anche nelle più fetide organizzazioni criminali. Solo che, a rigor di logica, i servizi devono farlo per avere informazioni di prima mano e prevenire crimini. Se si considera quanti servitori dello Stato sono stati fucilati o fatti saltare in aria in Sicilia negli anni Ottanta e Novanta e il mistero che avvolge la loro morte, è difficile capire a che cosa sia servito tanto affaccendarsi dei servizi di sicurezza tra i mafiosi.

Di che cosa parlavano mafiosi e agenti segreti: di calcio?"