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mercoledì 22 marzo 2023

LA SOVERCHIANTE SCOPERTA DEL COUSCOUS DI GIUSEPPE CULICCHIA A MARSALA

Preparazione del couscous
nel trapanese.
Fotografia di Benedetto Patera
pubblicata in "Sicilia Oggi"
nel luglio del 1959


"... E soprattutto non avevo ancora afferrato che siccome a Marsala vanno molto orgogliosi del fatto che Marsala è uno dei  pochi posti in Sicilia dove si fa il cuscus, tutti sia a pranzo che a cena cucinano il cuscus, proprio come Tina la sera prima. Non sospettavo, inoltre, che per non offenderli, ti toccava mangiarlo ogni volta come se non lo avessi mai mangiato prima. Dopodiché i padroni di casa pretendevano pure di farti fare il bis, anche se niente al mondo riempie quanto il cuscus. In particolare se si è costretti a seguire una dieta a base di cuscus sia a pranzo sia a cena, con tanto di bis, per intere settimane, sette giorni su sette. Anche perché, una volta ingerito, il cuscus si esalta e cresce..."

Nell'estate del 1972, Giuseppe Culicchia mise per la prima volta da bambino piede a Marsala, luogo di origine del padre, trasferitosi nel secondo dopoguerra in Piemonte. L'esperienza di quel viaggio, accompagnato dallo stupore per i paesaggi, per la gastronomia locale e per  il saluto-tormento subìto dai parenti - "Ma tu Peppe sei! Peppe come tuo nonno Giuseppe Culicchia! Pippinu! Pippinu Piruzzu!" - è stata da lui riassunta nel libro "Sicilia, o cara. Un viaggio sentimentale" ( Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano, 2010 ). 



Fu appunto a Marsala che Giuseppe Culicchia scoprì esageratamente il couscous; pietanza che, come spiegato da Mario Liberto in "Couscous. Koinè culturale dei popoli" ( Edizioni Kalòs, Palermo, 2019 ) in provincia di Trapani offre un ricco repertorio di varianti:

"A Favignana e Trapani, la semola è cucinata con il vapore della sola acqua con l'aggiunta di cannella. Altre differenze si possono avere sul colore: a trapani il couscous si prepara bianco, cioè senza pomodoro, a Favignana e Marsala è invece colorato con l'aggiunta del medesimo ortaggio. E ancora, a Trapani il classico "cùscus" di pesce si ottiene con l'aggiunta di boghe, scorfani, martello; i contadini del trapanese come condimento utilizzano invece la carne di maiale, che può essere arricchita con i broccoli. 



Nel marsalese si prepara anche con le lumache e le verdure, con la carne di maiale, con il "pulu" di casa ( il tacchino ), la papera, l'agnello, le verdure, le fave e il cavolfiore. I mazaresi preferiscono accompagnare il couscous di pesce con le zucchine, patate, carote e bietole, lessate separatamente. Il quello pantesco, al pesce si uniscono le verdure fritte ( zucchine, melanzane e peperoni )" 

mercoledì 15 marzo 2023

USTICA, L'ISOLA REFRATTARIA ALLA MONDANITA'

Il centro abitato di Ustica.
Le fotografie del post sono tratte
dalla rivista "Sicilia Mondo"
del dicembre 1957


Un'isola dura ed ancora accettabilmente pura, refrattaria alla  mondanità ed all'invasione estiva di folle di turisti, scoraggiati dalla quasi assenza di spiagge e dall'asperità delle coste bagnate da un mare dalle lucenti tonalità dei blu e degli azzurri. E' l'identità di Ustica, isola che vive una condizione di solitaria collocazione nel Tirreno, l'unica - insieme all'isolotto di Isola delle Femmine - nel mare della provincia di Palermo. L'indole poco appariscente di Ustica l'ha da sempre esclusa dai grandi flussi turistici, favorendo la prevalente presenza di frequentatori abituali, amanti più del mare che dell'industria balneare. La vocazione di quest'isola non si è persa neppure dopo l'avvio, nel 1959, della Rassegna Internazionale delle Attività Subacquee. Sembrò allora che l'evento potesse significativamente espandere il suo richiamo: un'opportunità  auspicata in precedenza da un reportage firmato da Giuseppe Marino sulla rivista "Sicilia Mondo" del dicembre 1957. Qualche mese prima, Ustica aveva visto entrare in funzione un primo autentico albergo: un evento destinato ad incrementare le presenze turistiche dell'isola, senza però stravolgerne il ruolo di ( felice ) comprimaria fra le isole minori italiane. 

"Sul registro degli illustri visitatori di Ustica ho trovato così scritto:

"Se Ulisse si fosse fermato ad Ustica, no sarebbe mai più arrivato ad Itaca"

La firma - si legge nel reportage di Marino - era quella di un chiaro scrittore, profondo conoscitore delle bellezze mediterranee. Può darsi che la frase possa sembrare anche ricercata, come avviene quando preziosità e letteratura si sposano col turismo. Ma, sta di fatto che essa rispecchia felicemente più di una impressione, più che una sensazione, una realtà dello spirito. E' la stessa realtà lirica, da me avvertita in un fugace pellegrinaggio alla più suggestiva e primitiva, insieme, isola del Mediterraneo, poco di là del sinuoso golfo di Palermo. La realtà era il documento vivente di una terra sorgente dal mare e nella sua breve latitudine, così raccolta e così espressiva da indurre più alla concentrazione spirituale, anziché ad una pagana espansione. Il lirismo era come un'onda radioattiva, che attingeva alla natura particolare di quella bellezza raccolta e quasi sconosciuta, per penetrare alla radice stessa della natura e fonderla nell'armonia dello spirito. Niente di trascendentale, anzi una bellezza ridotta alla più elementare espressività, al genio della terra e del mare. Eppure per questo, anzi per questa sua innata attitudine al raccoglimento e alla poesia, maggiormente sensibilizzata. Non è il caso di confondere la piccola isola di Ustica con quelle venute alla moda della mondanità internazionale negli ultimi anni. 



Se il rilancio delle isole è stato l'ultimo "slogan" del turismo - con la preziosissima isola di Ischia come esempio recentissimo - la nostra Ustica si ammanta ancora della squisita verecondia della sua scarsa notorietà. E', anzi, una sconosciuta nell'Olimpo del turismo internazionale; appena un puntino microscopico fra le linee coordinate dell'atlante geografico siciliano. Eppure, questa sua rarità, ne costituisce, ad oggi, il più prezioso dei gioielli. Per non profanare l'acqua viva e purissima del brillante in cui si è incastonata, bisognerà nel tempo, anche quando sarà nota alla "elite" turistica, non profanare questa sua magnifica singolarità...



C'è qualche cosa di agreste e di bucolico nella stessa sensibilità marinara della minuscola isola, pienamente integra nella sua violenta, ma non selvaggia primitività. Violenza di colori, violenza di luci, violenza di riflessi sul mare: quasi un'aggressione di bellezza, che si stempera dalla collina ancora brulla alle ineguagliabili grotte, nelle quali colpisce ora il brillio dell'azzurro, ora il pittoresco gioco delle secolari erosioni sulle rocce, ora la dolce patina aurea stemperata sulle pareti di magnifica caverna..."



 


venerdì 10 marzo 2023

PLACIDO RIZZOTTO, IL DONO DEI PIATTI DI PASTA DOPO LA SUA SCOMPARSA

Francesca Di Palermo,
nipote di Placido Rizzotto.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Testimonianza di Francesca Di Palermo, figlia di Giovanna Rizzotto e di Peppino Di Palermo, nel giorno del 75° anniversario della scomparsa ed uccisione a Corleone di Placido Rizzotto, vittima di mafia:

"A Placido se lo sognavano sempre che aveva fame. E tutte le volte, quando mia madre se lo sognava, cucinava un piatto di pasta e lo donava a qualcuno. La sera della sua scomparsa, quando mio nonno Carmelo, il padre di Placido, andò a parlare con chi doveva andare a parlare per avere notizie di suo figlio, seppe che era andato via con due persone, due personaggi allora famosi a Corleone: Criscione e Collura. Appena mio nonno gli sentì dire questi nomi, arrivò dentro casa e disse a tutti: "Potete vestirvi di nero perché mio figlio non tornerà più". E così fu"




giovedì 9 marzo 2023

UN PAESAGGIO DI LIA PASQUALINO NOTO

 








STORIA DEL CONTRABBANDO DEL SALE FRA MESSINA E LA CALABRIA

Contrabbando di sale nel 1959
su un traghetto in viaggio fra Sicilia e Calabria.
Le fotografie del post sono di Giuseppe Grasso,
opera citata nel post


Prima che il traffico di stupefacenti diventasse a partire dagli anni Settanta in Sicilia uno dei principali strumenti di ricchezza - e di morte - dei clan mafiosi, quello delle sigarette di contrabbando segnò le cronache degli anni Cinquanta e Sessanta, soprattutto nelle città portuali dell'Isola. Personaggi come il boss palermitano della Kalsa Masino Spadaro - famoso per essersi definito il "Gianni Agnelli di Palermo" per la quantità di contrabbandieri al suo servizio - raccontano la storia di quei traffici che sfruttavano come punti di sbarco i porti urbani e gli anfratti più nascosti delle coste del palermitano e del trapanese.  Meno ricordata è invece l'attività di contrabbando che si sviluppò dagli anni del secondo dopoguerra e sino agli inizi degli anni Settanta da Messina verso le coste della Calabria. Lo Stretto fu allora la via di trasporto clandestino del sale: un prodotto di uso quotidiano che in Sicilia - regione a Statuto Speciale - rispetto al resto d'Italia, non era soggetto al monopolio di Stato. In quegli anni, il prezzo al chilogrammo della qualità più raffinata oltre lo Stretto raggiungeva un costo assai più elevato rispetto a quello praticato nell'Isola

Panetti di sale
nascosti in un vagone ferroviario


Fu così che, insieme all'attività delle famose "bagnarote" - le donne di Bagnara Calabra che arrivavano sino a Messina per poi tornare in Calabria con i pacchi di sale nascosti sotto ampie gonne - si sviluppò quella più articolata di gruppi  "protomafiosi" di trafficanti, composti per lo più da pescatori messinesi, in particolare della zona di Torre Faro. Altro strumento del contrabbando furono allora i treni imbarcati sui traghetti che facevano la spola fra le due regioni, grazie ad ingegnosi sistemi di occultamento spesso scoperti dalla Guardia di Finanza: ad esempio, le cassette contenenti gli accumulatori elettrici poste sotto il pavimento dei vagoni. Nell'ottobre del 1959, la rivista mensile "Sicilia Oggi" pubblicò un fotoreportage che illustrava un intervento compiuto dai finanzieri sullo Stretto contro un gruppo di trafficanti messinesi che stava scaricando un grosso quantitativo di sale da un motoveliero, per poi trasferirlo in Calabria sulle loro barche da pesca.

Un motoveliero
e barche utilizzate
dai contrabbandieri del messinese



Le immagini contenute nell'articolo, realizzate da Giuseppe Grasso, furono accompagnate da una didascalia che ci fornisce oggi preziose indicazioni su un'attività di contrabbando che cessò nel 1974, quando lo Stato abolì il monopolio sulla vendita del sale:

"Il monopolio del sale, in Italia, risale ai tempi dell'impero romano. Il contrabbando di questo prodotto, probabilmente, ha la stessa età. Le fotografie che seguono illustrano i vari aspetti di tale contrabbando in Sicilia: in essa e nelle isole adiacenti la produzione del sale è fortissima, e per un antico diritto tali territori sono esenti da monopolio. La cosa è anche spiegabile con un altro motivo: le zone di produzione sono particolarmente vaste, e quindi la sorveglianza appare troppo difficile e costosa. Pertanto, lungo il litorale di Ragusa, Siracusa, Catania e Messina è vietato tenere depositi di sale, e la vigilanza doganale si estende all'interno di questa fascia costiera sino a 22 chilometri: da questo divieto sono escluse le saline ed i centri abitati con più di 10.000 abitanti. Tutto ciò per evitare il facile contrabbando fra la Sicilia ed il Continente.

Un pattugliamento
sul mare dello Stretto
per contrastare il contrabbando del sale


Il prezzo di vendita al pubblico del sale si aggira in Sicilia sulle dieci lire al chilo: nel territorio della penisola, invece, il sale di monopolio costa cinquanta lire. Com'è naturale, tale sensibile differenza di prezzo genera un forte commercio clandestino tra la Sicilia ed il Continente, e segnatamente tra l'Isola e la vicina Calabria. Malgrado la sorveglianza e le multe, il contrabbando avviene quotidianamente attraverso lo Stretto di Messina; per filtrazione di carichi isolati ( che generalmente non superano i cinquanta chili di prodotto ) e per l'introduzione irregolare in Calabria di contingenti di merce d'entità ben maggiore, curata da vere e proprie organizzazioni che da tale traffico ritraggono ingenti, illeciti guadagni"

   

BELLEZZA E ABBANDONO DEL FARO DI CAPO ZAFFERANO

Il faro di Capo Zafferano.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Con i suoi undici metri di altezza e la torretta di forma ottagonale, il faro ad ottica fissa di Capo Zafferano vive da decenni uno stato di completo abbandono: una condizione che risale agli anni Settanta del Novecento, quando la lanterna venne automatizzata, senza più un presidio dei guardiani. Il faro venne costruito dopo il 1879 con una spesa di 36.000 lire, nello stesso periodo in cui vennero edificati quelli di Capo Peloro, Salina, Ustica e Pantelleria. La decisione di dotare questo tratto di costa palermitana di un impianto di segnalazione marittima nacque dall'esigenza di fornire indicazioni alle navi dirette al porto di Palermo da levante. Il faro, collocato a guardia di un promontorio ricco di attrattive botaniche e sottomarine, divenne anche un punto di riferimento utile ad evitare le secche di Solanto, responsabili di naufragi ed incidenti. In uno di questi, ancora nell'ottobre del 1928 - complice il forte vento di scirocco - la motobarca "Giuseppina" di Porticello colò a picco ad un miglio dal faro; sette pescatori riuscirono a rifugiarsi su una scialuppa di salvataggio priva dei remi e furono tratti in salvo al largo di Mondello. Nel 1886, l'impianto era già in funzione e nei primi anni del Novecento, nella lista dei faristi che vi prestavano servizio figura il nome di tale Alfonso Verruso.  Il degrado attuale del faro riguarda anche una serie di resti di strutture militari costruite negli anni del secondo conflitto mondiale, quando capo Zafferano divenne uno strategico punto di osservazione e passaggio di mezzi navali ed aerei, alcuni dei quali giacciono sui profondi fondali circostanti. Negli ultimi anni si è più volte discusso un progetto di recupero dell'intero complesso, di proprietà demaniale; ma come accade già per altri fari dell'Isola - ad esempio l'altro palermitano di Capo Gallo - dalle parole non si è mai passati ai fatti, lasciando questo storico faro in mano ai vandali ed alle sferzate del vento che spesso spazzano il promontorio di Capo Zafferano

domenica 5 marzo 2023

IL "MANIFESTO" DELLA LOTTA DEL BELICE DI GIANBECCHINA TRAFUGATO A GIBELLINA E RICOMPARSO A MESTRE

Il bozzetto del lenzuolo
"Gridano le pietre di Gibellina"
di Gianbecchina
conservato al Museo d'Arte Contemporanea
della cittadina del Belìce 


La sera del 15 gennaio del 1970, a Gibellina, durante una fiaccolata in ricordo del secondo anniversario del terremoto, il pittore Gianbecchina si procurò un lenzuolo bianco. Erano passati due anni dal sisma che aveva devastato la valle del Belìce e la protesta dei sindaci e della popolazione locale per i ritardi nella ricostruzione era nel frattempo arrivata sino a piazza Montecitorio, a Roma. Sprovvisto di colori, Gianbecchina chiese ed ottenne quella sera da un falegname il dono di un paio di pennelli e di alcune confezioni di anilina rossa e nera. Con quei coloranti, l'artista di Sambuca di Sicilia dipinse sul lenzuolo una delle sue più singolari creazioni, destinata a diventare un "manifesto" delle rivendicazioni belicine. 

La fiaccolata che ebbe luogo a Gibellina
la sera del 15 gennaio del 1970.
Fotografia esposta al MAC di Gibellina


L'opera, denominata "Gridano le pietre di Gibellina", venne più volte portata in corteo dai sindaci dei paesi terremotati, diventando l'espressione artistica della protesta di un'intera comunità del trapanese e dell'agrigentino. All'interno del Museo d'Arte Contemporanea di Gibellina si conserva oggi un bozzetto di quel lenzuolo; l'originale, esposto in origine all'interno della nuova sede comunale del paese distrutto dal terremoto - una struttura precaria creata nell'area della baraccopoli di Rampinzeri - nell'aprile del 1975 fu temporaneamente trasferito a Palermo, all'interno della Galleria d'Arte Moderna

Il lenzuolo di Gianbecchina
portato in corteo dai sindaci del Belice
dopo il terremoto del gennaio del 1968.
Fotografia esposta al MAC di Gibellina


Da allora, le notizie che riguardano il lenzuolo dipinto da Gianbecchina sono incerte. Sembra che abbia fatto ritorno dalla galleria palermitana a Gibellina, ancora all'interno della baraccopoli, come riferito da alcuni testimoni. Poi le indicazioni sulle sorti dell'opera si perdono in un buio fatto di oblio e reticenza: del telo denominato "Gridano le pietre di Gibellina" - del quale non è stato mai ufficialmente denunciato il trafugamento - si perse allora ogni traccia, sino ad un inaspettato incontro avvenuto nei primi anni Ottanta fra la moglie di Gianbecchina ed una donna all'interno della Galleria d'Arte "Giorgio Ghelfi" di Verona. In occasione di una mostra dedicata all'artista agrigentino, la signora mostrò con orgoglio una fotografia che ritraeva il lenzuolo di Gianbecchina, parzialmente ripiegato e incorniciato su una parete della propria abitazione di Mestre. Alla richiesta di maggiori notizie su come fosse venuta in possesso del telo scomparso da Gibellina, la proprietaria spiegò di averlo regolarmente acquistato da un gallerista di Roma

La fotografia del lenzuolo
di Gianbecchina esposto ancora
negli anni Ottanta a Mestre


La fotografia dell'opera è rimasta in mano agli eredi di Gianbecchina, che più volte - negli ultimi anni - hanno tentato di convincere la famiglia di Mestre alla restituzione al Comune di Gibellina del lenzuolo, offrendo come contropartita un'altra opera dell'artista. 

La lettera firmata dai sindaci del Belìce
il 12 marzo del 2007
in cui si richiede la restituzione dell'opera
Fotografia ReportageSicilia


Il tentativo è finora andato a vuoto, malgrado un appello rivolto nel marzo del 2007 a chi probabilmente detiene ancora il telo dalla maggioranza dei sindaci del Belìce, che lo ritengono - giustamente - uno dei simboli delle lotte per la rinascita del loro territorio condotte negli anni successivi al terremoto.