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mercoledì 31 agosto 2022

IL FASCINO DI UN FIORITO E ABBANDONATO PORTALE A CALATAFIMI-SEGESTA

Il portale d'ingresso
della chiesa dell'Immacolatella,
a Calatafimi-Segesta.
Le foto del post sono di
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Dal 1997, Calatafimi ha accostato al suo toponimo quello di Segesta: circostanza che se da un lato ha voluto sottolineare il legame territoriale con uno dei siti archeologici più importanti e visitati in Sicilia, dall'altro non ha ancora pienamente assecondato lo sviluppo turistico della stessa Calatafimi. Al di là della rilevanza storica procuratagli dalle imprese belliche dei Mille di Garibaldi, la cittadina - che negli ultimi anni ha subìto un consistente spopolamento - può vantare un rilevante patrimonio architettonico ed ambientale: una ventina di chiese monumentali ( la maggior parte delle quali sono però chiuse al pubblico ) i giardini del Kaggera ed il bosco di Angimbè. Uno dei siti che più suggeriscono il desiderio di ritornare a Calatafimi-Segesta è una di quelle chiese che si definiscono "minori": quella non agibile denominata dell'Immacolatella, preceduta da una scalinata ancora integra ma dissestata. Non è così possibile ammirare all'interno le decorazioni a stucchi, così come non è possibile accedere all'interno di un giardino adiacente, ingombro di rovi e detriti; un luogo dove, come ricorda un moderno e malmesso cartello che precede il portale d'ingresso della chiesa, venne chissà quando recuperato un fonte battesimale "di stile romanico"



Nel suo abbandono, la chiesa dell'Immacolatella di Calatafimi-Segesta rimane così un esempio di architettura che trasmette il fascino e l'attrattiva un pò dolente e romantica di tutti i monumenti diroccati e deserti. Pochi studiosi dell'arte hanno scritto a proposito di questa piccola chiesa, che meriterebbe un completo recupero.




Fra questi, Giuseppe Bellafiore, che nel 1963 - forse quando era già inagibile - ne fece così cenno in "La civiltà artistica della Sicilia" ( Le Monnier, Firenze ):

"La Chiesa dell'Immacolata, di fronte alla Madrice, annessa all'orfanotrofio Blundo, fu eretta nel 1631. Ha fiorito portale del tardo Seicento"

giovedì 25 agosto 2022

UNA TESTIMONIANZA DI ROSI SULLA STORIA DEL FILM "SALVATORE GIULIANO"

La scena dell'uccisione di Salvatore Giuliano,
interpretato da Pietro Cammarata,
nel film di Francesco Rosi "Salvatore Giuliano".
Le fotografie del post sono tratte dal saggio
"Salvatore Giuliano", opera citata


Raccontò Francesco Rosi a Tullio Kezich che l'idea di realizzare il film "Salvatore Giuliano" gli venne nel 1950, quando lavorava con Suso Cecchi D'Amico alla sceneggiatura di "Bellissima". "Arrivavano i giornali con le cronache del processo di Viterbo e il copione di Visconti non andava avanti. L'idea di fare un film su Giuliano - spiegò Rosi - era di tutti, mi pareva un argomento enorme. La vicenda mi aveva sempre affascinato, però non ero certo di averla capita bene". Accantonato il progetto di realizzare una sceneggiatura dal romanzo "La galleria" di John Horne Burns, che il regista avrebbe voluto ambientare nella sua Napoli, Rosi fu infine convinto a dedicare un'opera alla storia del bandito di Montelepre dal produttore Franco Cristaldi

Rosi con l'operatore Gianni Di Venanzo
e Pietro Cammarata,
che ebbe il ruolo di Giuliano


Cominciò così un difficile lavoro di documentazione, dapprima attraverso la stampa dell'epoca, poi con il contatto diretto con la complessa realtà siciliana. Per la sceneggiatura del film - realizzato fra il 1960 ed il 1961Rosi volle con sé Enzo Provenzale, messinese, con esperienza in diversi set cinematografici isolani. "A Roma disperammo di trovare il bandolo della matassa. L'orizzonte - spiegò Rosi a Kezich, come si legge nell'eccellente saggio "Salvatore Giuliano", edito a Roma nel 1961 da Edizioni FM per la collana "Il cinematografo" ( opera da cui sono tratte le foto del post ) - si schiarì a Palermo, quando io e Provenzale venimmo giù per i primi sopralluoghi.  Questo film non si poteva scrivere a Roma, bisognava documentarsi qui, lavorare qui, e ricominciare tutto da capo. Dall'angolo di Roma non si potevano capire tante cose, la prospettiva continentale vieta per storica tradizione l'accesso alle cose di Sicilia. Qui c'era gente che ricordava, che conservava giornali e documenti, che era disposta a collaborare. Molte notizie le prendemmo dai fascicoli del processo per i fatti dell'EVIS, tutte giornate spese a leggere e ad appuntare, spesso in scomode cancellerie, cavandoci gli occhi, perdendoci ogni tanto nel mare dei fatti e dei nomi. Man mano che procedevamo nel lavoro, cadevano le scene scritte con criteri spettacolari. Non fu facile capirlo neppure per noi, ma la serietà del problema che avevamo affrontato ci spingeva verso un'espressione nuda e rigorosa: i moduli della spettacolarizzazione, che sono radicati nella nostra natura di teatranti e cinematografari, si rivelano superficiali, inadeguati. Ci staccammo da tanti personaggi, da tante storielline che dapprima ci erano parse importanti. Ci staccammo addirittura da Giuliano, in senso psicologico, aneddotico. Il film finì col considerare alcuni fenomeni tipici della vita siciliana, per esempio la deformazione del potere locale rispetto al potere centrale. Lo stretto di Messina è veramente l'Oceano, bisogna avere il coraggio di affermarlo nell'anno centenario alla spedizione dei Mille. Se non cominciamo a parlare chiaro non ci capiremo mai"


Rosi impegnato
sul set del film a Montelepre




In "Salvatore Giuliano", il bandito - interpretato da Pietro Cammarata, autista dipendente di 26 anni della SAIA ( Società Anonima Industrie Autobus ) di Palermo, scelto per la sua somiglianza a Giuliano - avrà così un ruolo quasi da comparsa. Nel film, Rosi ignorerà anche l'episodio  dell'uccisione da parte di Giuliano del carabiniere Antonio Mancino, il 2 settembre del 1943, in località Quattro Mulini, fra San Giuseppe Jato e Montelepre: un omicidio che darà il via alla storia criminale del giovane monteleprino, fino ad allora uno dei tanti anonimi animatori del mercato nero del grano.

Il regista napoletano
al lavoro in una scena d'interno


"Molti si sono interessati di sapere come questo episodio verrà narrato nel film. Resteranno male - sottolineò Tullio Kezich nel suo saggio - nel vedere che Rosi ha ignorato l'incidente e scopre Giuliano solo al momento dell'esplosione separatista, ciè quando è già un fuorilegge. Ma l'elisse è giustificata dall'angolazione storica e non cronachistica del film: di episodi come quello dei Quattro Molini è piena la storia della Sicilia negli anni dal 1943 al 1945. Giuliano fu soltanto uno dei tanti ragazzi travolti dalle circostanze, costretti alla macchia da un incidente grave scoppiato al margine di una loro piccola attività illegale. Se gli estimatori del Robin Hood siculo capissero questo, non avrebbero bisogno di inventare giustificazioni favolose per l'uccisione del primo carabiniere..."

Pietro Cammarata,
autista di autobus,
ottenne il ruolo di Salvatore Giuliano
per la sua somiglianza
con il personaggio


Pietro Cammarata - che dall'interpretazione del bandito sperava di ottenere visibilità e compensi economici per un trasferimento a Roma - non verrà così quasi mai inquadrato in primo piano. Indosserà come segno distintivo nelle scene di gruppo un impermeabile bianco: un abbigliamento su cui Cammarata troverà da ridire, lamentandosi pure del cinturone e delle scarpe impostegli dalla produzione del film. Ad un certo punto, Rosi noterà la sua totale identificazione con il vero Salvatore Giuliano. In mezzo alle comparse - gli uomini della banda - Cammarata dava ordini come se fosse Turiddu in persona. "A Castelvetrano - racconterà divertito il regista a Kezich - capitammo in un ristorante dove c'erano dei guappi che volevano crearci dei guai. Cammarata, che se ne stava a un tavolo in disparte, si alzò, andò direttamente da loro e disse: "Se avete qualcosa da dire, ditelo a me. Giuliano sono io". Lo disse in un modo tale che quelli non fiatarono più..."    

martedì 23 agosto 2022

VEDUTA DAL CASTELLO DI GIULIANA

Fotografia
Ernesto Oliva-ReportageSicilia

 

giovedì 18 agosto 2022

LO SCONOSCIUTO VOLTO AUTUNNALE DI LEVANZO

Cala Dogana, a Levanzo.
Fotografia tratta da
"Capolavori della Sicilia",
opera citata


La fotografia è tratta dal libro "Capolavori della Sicilia", edito a Milano da Co.gra.fa nel 1977. Uno cioè di quei volumi piazzati ancor oggi dai venditori di souvenir sulle bancarelle di  Cefalù o Monreale ed infarciti di immagini a colori di chiese, opere d'arte e carretti siciliani, carichi di improbabili suonatori di marranzani e tamburelli. L'immagine riproposta da ReportageSicilia da quella pubblicazione turistica - una veduta dall'alto dell'isola di Levanzo - ha però un singolare valore documentario, e non solo per la frugalità edilizia del centro abitato di cinquant'anni fa. Sembra infatti che la fotografia del gruppo di case che all'epoca cingeva l'arco costiero di cala Dogana - un grumo edilizio fortunatamente non troppo cresciuto nei decenni - non sia stata eseguita in una piena giornata d'estate: collocazione temporale cioè in cui siamo ormai abituati a vedere riprodotta un'isola o altre località marine sugli smartphone, sulle riviste e su ogni tipo di guida di promozione turistica. La Levanzo fissata da "Capolavori della Sicilia" mostra invece il volto un pò ruvido ed aspro delle isole d'autunno; mesi in cui questi luoghi lontani dalla "terraferma" - la Sicilia a sua volta isola - non conoscono quasi piede dei turisti che hanno imparato a frequentarli e  a conoscerli esclusivamente durante i mesi estivi.


 

Così, nessuno o pochissimi che non siano levanzari possono dire di conoscere davvero Levanzo, che è isola soprattutto quando i turisti hanno lasciato da tempo le sue cale rocciose e la calda passeggiata  d'agosto lungo il belvedere di cala Dogana.

"Il paese - ha scritto Carla Serra in "Meridiani Sicilia-Isole" edito nel giugno del 2000 da Editoriale Domus - è una specie di domino che si allunga di fronte al molo: due file di cubetti bianchi a un piano e un'unica strada, il salotto all'aperto dei 200 abitanti che in inverno si spostano a Favignana: oppure a Trapani, da dove partono i traghetti e gli aliscafi. Venti minuti per coprire le sei miglia di mare, che diventano giorni d'attesa quando, in inverno, le mareggiate impediscono i collegamenti..."


    

mercoledì 17 agosto 2022

CORRADO ALVARO E LA "METAFISICA ARIDITA'" DI MARINEO

"Bucato a Marineo"
fotografia di Ezio Quiresi
tratta dall'opera
"Donne. Il lavoro femminile
in Italia nel Dopoguerra in 80 fotografie"

edita nel 2006 da MUP


"I paesi sulle creste dei colli e dei monti - scrisse nell'agosto del 1953 sul "Corriere della Sera" lo scrittore calabrese Corrado Alvaro, incontrando l'abitato di Marineo lungo lo strada proveniente da Corleone -  hanno in genere quasi un'insegna: la roccia di una forma singolare, un'acropoli. Marineo, a sud di Palermo, è in questo senso di una classicità rustica. L'abitato è della stessa natura della roccia, naturalmente, ne è ricavato, ma assume l'aspetto di una cristallizzazione della roccia, i perfetti cristalli d'uno di quei grossi pezzi di topazio di o di smeraldo appena cavato dalla miniera. Questa aridità metafisica è dovuta alla mancanza di alberi nell'abitato. L'albero nella città è una conquista moderna diffusa dal settentrione. A volte, in questi paesi, si avverte una suggestione vaga d'Oriente, e la stessa gente sembra di incontrarla in luoghi più remoti..."



I LAMPI E I TUONI DI PIPPO RIZZO








 

lunedì 15 agosto 2022

PAESAGGIO RURALE A CUSTONACI

Foto
Ernesto Oliva-ReportageSicilia

 

L'IMPOSSIBILE FERRAGOSTO DELLE SPIAGGE SICILIANE SENZA FALO' E TENDOPOLI

Bagnanti su una costa siciliana.
Le fotografie del post  
sono di Nino Teresi,
opera citata


Da Palermo a Scicli, da Catania a San Vito lo Capo, da Carini ad altre località dell'agrigentino, il Ferragosto del 2022 sarà ricordato per il tentativo dei comuni di limitare il vandalismo delle spiagge libere provocato in Sicilia dall'accensione di fuochi e dall'allestimento di tendopoli-bidonville: "invasioni barbariche" che, da decenni, in questo periodo, riducono a discarica pezzi di litorale.  Il fenomeno, cui quest'anno hanno cercato di porre un argine ordinanze di sindaci e controlli delle forze dell'ordine decisi dalle prefetture, si spiega con l'approccio devastatore che molti abitanti mostrano verso il bene pubblico e l'ambiente della loro maltrattata Isola: un comportamento che rende sostanzialmente inverosimile la lode del mare siciliano espressa da un recente ( ed un pò troppo enfatico, vista la situazione reale ) spot televisivo prodotto dalla Regione Siciliana.


 

Sarebbe stato inutile pretendere che i divieti di questo Ferragosto finissero con lo scoraggiare l'occupazione delle spiagge, i fuochi incontrollati e le conseguenti lordure: eventi puntualmente accaduti, perché leggi e divieti - tutelati dal presidio di una camionetta della polizia o di un paio di auto dei vigili urbani - risultano incomprensibili ai siciliani, soprattutto se riguardano la sfera privata e del diritto al divertimento personale, così come nel caso dell'utilizzo di una spiaggia. 



In dubbiosa attesa che qualcosa, nell'antropologia dei siciliani, possa cambiare in meglio, sarebbe già un passo in avanti se i comuni garantissero da parte loro il funzionamento dei depuratori, l'eliminazione degli scarichi a mare abusivi e una più efficace gestione della raccolta dei rifiuti differenziati: variabili disattese pure in altre regioni italiane, ma in minor misura rispetto alla Sicilia, dove la qualità di spiagge e del mare fa rimpiangere gli scenari marini - assai più diffusi allora rispetto ad oggi - degli anni in cui furono scattate le fotografie riproposte nel post. Gli scatti portano la firma di Nino Teresi e furono pubblicati nel dicembre del 1967 dalla rivista "Sicilia", edita da S.F. Flaccovio Editore Palermo.

lunedì 1 agosto 2022

TORRETTA GRANITOLA, IL MARE DOVE I PESCI AVEVANO I COLORI DEI FONDALI

Torretta Granitola,
in due fotografie di Rudolf Pestalozzi
degli inizi degli anni Cinquanta
dello scorso secolo.
Opera citata nel post


Fu agli inizi degli anni Cinquanta dello scorso secolo che il fotografo svizzero Rudolf Pestalozzi e lo scrittore Giovanni Comisso viaggiarono nell'Isola per un reportage poi pubblicato in "Sicilia", edito nel 1953 a Ginevra dall'editore Pierre Cailler. Il loro girovagare in una regione dai paesaggi ancora quasi non corrotti dal cemento e dagli scempi ambientali li portò a Torretta Granitola. In quel remoto villaggio di pescatori della costa che di là a poco conduce a Selinunte - una comunità crescita a partire dal 1857 intorno ad un primo caseggiato, presto divenuto uno stabilimento di salagione del pesce - la  risorsa era costituita anche dalla pesca di astici ed aragoste nascoste, al largo, in un'ampia secca rocciosa. Le fotografie postate da ReportageSicilia ripropongono due immagini di Torretta Granitola allora eseguite da Pestalozzi. La descrizione del borgo è invece suggerita da questo testo di Comisso:

"Quando il villaggio è sul mare allora ai contadini si aggiungono i pescatori che abitano nelle case vicine al porto per potere dalla finestra guardare la barca in secca sulla spiaggia e il variare del mare.


 

Vanno alla pesca con le lampare nella notte e all'alba ritornano riversando sulla sabbia pesce maculato come pantere, altro rosso e irto come draghi, altro ancora azzurro e verdastro come i fondali da cui proviene. Le lunghe reti vengono portate ad asciugare al sole sul pendio come un senso religioso verso questo strumento della loro fatica notturna, come se portassero lo strascico della Madonna. Le barche dalle prue variopinte d'azzurro, di bianco e di rosso vengono spinte in secca scorrendo su rulli di legno come ai primordi del navigare..."