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giovedì 30 marzo 2023

MONTE COFANO, UNA VISIONE WESTERN NEL PAESAGGIO TRAPANESE

Veduta del monte Cofano.
Fotografia di Giuseppe Lamia
 tratta dalla rivista
"Sicilia Oggi" del settembre 1959


Ci sono luoghi che in Sicilia connotano più fortemente di altri l'identità fisica, ambientale e storica dell'Isola, lasciando spazio - a chi abbia modo di frequentarli - a spontanee suggestioni sentimentali ed emotive. Uno di questi è sicuramente monte Cofano, il massiccio calcareo che si erge sulla costa trapanese, fortunatamente risparmiato dalla proliferazione di "villini" e invadenti segni della presenza umana. In un paesaggio aspro e quasi del tutto spoglio di vegetazione - spiccano solo vaste ed indisturbate macchie di palme nane - il monte Cofano, tra rimandi a miti omerici e ricordi di briganti nascosti nelle sue grotte, offre uno dei migliori esempi siciliani di complementare bellezza fra il suo paesaggio terrestre e marino. Quest'angolo di costa dell'Isola ha spinto un profondo conoscitore di luoghi siciliani come Matteo Collura ad esprimere in "Sicilia sconosciuta. Itinerari insoliti e curiosi" ( Rizzoli, 2022 ) questa singolare impressione:

"La conformazione del paesaggio evoca ( all'autore di questa guida è successo ) gli spettacolari rilievi rocciosi della Monument Valley, quelli che il cinema americano ci ha abituati a vedere nei film western. Particolarmente adatto a queste visioni ( o allucinazioni ) un enorme bastione di roccia - monte Cipollazzo, lo chiamano i locali - che domina spiaggette di ciottoli che qui la furia di un torrente ammassa durante i mesi invernali..."


mercoledì 29 marzo 2023

L'INCHIESTA DI ROBERTO CIUNI CHE NEL 1961 SVELO' IL "SACCO" DI PALERMO

Edilizia a Palermo.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia
Le piante viarie di Palermo
sono tratte dal giornale "l'Ora"
del 24 giugno 1961


Secondo l'Istat, nel 1951 Palermo contava 490.692 residenti; 130.000 abitavano nel centro storico da pochi anni martoriato dal secondo conflitto mondiale, che - secondo quanto hanno scritto Samuel Romeo e Wilfred Rothier in "Bombardamenti su Palermo. Un racconto per immagini" ( Istituto Poligrafico Europeo, Palermo, 2017 ) - "rese inabitabili circa 69.000 vani ... devastando il 42,3 per cento della città". Nel 1971, i residenti nel centro storico erano appena 35.000, su una popolazione complessiva salita a 642.814 persone: un'esplosione demografica che aveva fatto lievitare l'area urbanizzata da 600 a 5.000 ettari, frutto di quello che è passato alla storia come il "sacco edilizio" politico-mafioso di Palermo. L'origine di questa definizione è stata ricordata nel 2019 da Fabrizio Pedone in un'altro saggio edito a Palermo dall'Istituto Poligrafico Europeo, intitolato "La città che non c'era. Lo sviluppo urbano di Palermo nel secondo dopoguerra". Vi si legge che la definizione "sacco edilizio" venne introdotta per la prima volta in Italia nel 1954 in un saggio-denuncia dall'esponente politico comunista Aldo Natoli - messinese di origine - per definire il fenomeno della speculazione edilizia a Roma. Nello libro di Pedone, si ricorda che fu il giornalista Roberto Ciuni a utilizzare per primo a Palermo la definizione coniata da Natoli per descrivere nel 1961 il dispiego di cemento che stava stravolgendo il capoluogo dell'Isola. Ciuni impiegò l'espressione "sacco edilizio" sulle pagine del quotidiano "l'Ora" in un'inchiesta in tre puntate. Gli articoli - un prezioso e dettagliato "excursus" sui retroscena politici ed amministrativi che favorirono la speculazione edilizia palermitana - furono pubblicati il 24, il 27 ed il 30 giugno di quell'anno. Il giornalista stabilì con precisione nel novembre del 1952 l'avvio del "sacco" cittadino, promosso allora grazie ad una convergenza d'interessi che misero insieme amministratori e burocrati locali e stimati professionisti; un "affare sporco" che presto avrebbe chiamato in causa piccoli e grandi costruttori edili destinati ad arricchirsi sotto l'ala protettrice, parassitaria e violenta della mafia. A fare le spese della pianificata speculazione edilizia fu il centro storico di Palermo danneggiato dalle bombe della guerra e fatto oggetto di un piano di risanamento rimasto artatamente inattuato: la creazione di nuovi quartieri periferici lungo l'asse di via Sciuti e della piana dei Colli avrebbe infatti garantito ben altri affari.  Prologo all'operazione, ricordò Ciuni, fu nel 1948 l'alleanza di personaggi "grossi e piccoli" delle vecchie amministrazioni fasciste sotto il simbolo della Democrazia Cristiana e con il coinvolgimento progettuale della Società Generale Immobiliare, controllata dal Vaticano.  



"Non sono lanzichenecchi all'attacco - scrisse Roberto Ciuni -  sono professori universitari, industriali, proprietari terrieri, giovani avvocati, chiunque, insomma, stia bene con la Curia. E' un sacco condotto con mappe e carte catastali in mano, con arbitri cui il beneplacito del Comune dà veste legale e tutto si svolge in una specie di ovatta che impedisce alla maggior parte dei palermitani di accorgersi di cosa sta succedendo. Ed il primo lancio del nuovo gruppo di potere è Villa Sperlinga... Siamo nel novembre del 1952. La palazzina del professore Scaduto, alla fine di via Giusti, si affaccia sulla Villa Sperlinga, una grande, disordinata, selvaggia distesa di verde ai confini tra la città e la campagna, che offre un colpo d'occhio bellissimo. Probabilmente gli alberi secolari della Villa arrivano coi rami davanti alla finestra aperta della stanza dove lavora il nuovo sindaco di Palermo: il cinguettìo degli uccelli gli va all'orecchio mentre "studia" la situazione che ha trovato a Palazzo delle Aquile e le cause della grossa borghesia agraria che difende gli scorpori. Villa Sperlinga è lì, davanti ai suoi occhi; eppure nessuno vede che da qualche giorno ignoti boscaioli tagliano gli alberi uno ad uno e, per fare in fretta, usano addirittura piccole cariche di tritolo. Il panorama verde che si può godere dalla finestra del sindaco si assottiglia sempre più ma nessuno se ne accorge: né il professore Scaduto, né i suoi collaboratori. Almeno così dice il sindaco alzandosi a parlare verso la fine della quarta seduta del nuovo Consiglio. "Sapete", dice press'a poco "è inutile che continuiamo a discutere, tanto il parco di Villa Sperlinga non esiste più. Debbo darvi una brutta notizia: ignoti vandali da qualche tempo tagliano gli alberi". E' pallido, il professore Scaduto. Sembra che si appoggi al microfono che tiene con tutte e due le mani. Lui così minuto, pallido, cogli occhiali a stanghetta, sembra imbarazzato. Ha tentato tutto il pomeriggio di spiegare al Consiglio la necessità di approvare una convenzione fra il Comune e la Società Edilizia Villa Sperlinga: prima con toni suadenti, poi patetici, poi drammatici ha detto che si tratta di un buon affare, in quanto concedendo alla società il permesso di edificare su 60.000 metri quadrati della Villa ( zona prima vincolata a verde dal Piano di Ricostruzione della città ) si ottengono 18.000 metri quadrati di terreno, in compenso, per il Comune. C'erano state obiezioni: il terreno deve diventare un parco pubblico, bisogna salvaguardare un'oasi di alberi nel cuore di quello che sarà un nuovo quartiere, e così via. Il sindaco aveva insistito per alcune ore a controbattere ogni tesi, ogni intervento. Poi, gettata la spugna, disse candidamente che "bisognava" ormai accettare la convenzione perché la Villa Sperlinga non c'era più. Finì a tumulto in aula: e il professore Scaduto, mettendo ai voti l'approvazione della convenzione, mentre ancora i consiglieri riflettevano sulla gravità delle sue affermazioni, ebbe la delicatezza di aggiungere che si sarebbe astenuto dal votare perché di quell'affare s'era occupato il suo studio legale. Tenete presente questa data: novembre 1952. E questa seduta di Villa Sperlinga. Fino alle elezioni del 1952 nel dopoguerra, gli amministratori della città avevano svolto il loro ruolo navigando nel piccolo cabotaggio. Villa Sperlinga segna l'inizio delle grandi speculazioni, dei grandi favoritismi, dei Piani regolatori che si fanno e si disfanno, delle strade disegnate secondo "come voscienza comanda" e compagnia bella...



Cos'era la Società Edilizia Villa Sperlinga? Lì per lì i consiglieri comunali, presenti alla seduta del novembre 1952, credettero che si trattasse di una "manata di amici" che il sindaco volesse favorire. Ma l'amico era uno solo: l'Immobiliare. Se i consiglieri comunali avessero avuto il tempo di documentarsi, avrebbero potuto rispondere a Scaduto aprendo a pagina 27 il volume che contiene il bilancio del 1952 della Società Generale Immobiliare: "La nostra controllata, Società Edilizia Villa Sperlinga, ha stipulato in data 15 dicembre una convenzione con il Comune. La convenzione diverrà esecutiva con l'approvazione della variante al Piano di Ricostruzione". Villa Sperlinga non era niente altro che la prima operazione in grande stile dell'Immobiliare a Palermo. Il professore di diritto civile Gioacchino Scaduto, ed il professore Pietro Virga aprivano le porte delle ville palermitane alle speculazioni delle grandi anonime edilizie d'emanazione vaticana. In quei tempi nasceva il gioco delle aree che avrebbe determinato lo sviluppo attuale della città. Era un gioco nell'apparenza molto complicato, ma, in fondo, estremamente semplice. Si trattava di acquistare un pezzo di terreno in quella che allora era la campagna intorno alla città; poi di cederne la parte più lontana al Comune perché vi costruisse case popolari. In tal modo restava al nuovo proprietario una speculazione facile ed estremamente remunerata. Il Comune, infatti, doveva provvedere a portare nella zona delle case popolari tutti i servizi, e così i tubi dell'acqua, le linee sotterranee e aeree del gas, della luce, dei telefoni, le strade, che venivano a passare per le aree che i furbi proprietari si erano conservate. Ecco perché si prese a parlare a Palermo dei "villaggi satelliti", grandi zone di ampliamento fuori dal Piano di Ricostruzione. 



Il primo fu il Villaggio Cardinale Ruffini. Vi sorgeva un agrumento colpito dal malsecco: i problemi che si potevano risolvere con un perito agrario li risolse il piccone. L'area fu comprata per poco prezzo dall'Istituto Pignatelli, presieduto dal Cardinale, gli agrumi furono abbattuti, e si cominciò a costruire il Villaggio che avrebbe portato il nome di Ernesto Ruffini. L'operazione costò più di mezzo miliardo per portare in quella zona acqua, luce, gas, strade, eccetera. Come se ci fosse un piano di speculazioni preesistente, gli assalti alle aree lontane dal centro divamparono. Il "girato La Rosa", oggi Rione delle Rose, Villa Tasca, Villa La Conigliera, oltre a Villa Sperlinga, i fondo Spatafora e tanti altri. A Villa Tasca, l'Immobiliare intende realizzare un duplice obiettivo: "risanare" a suo modo il Monte di Pietà e portare gli abitanti del rione in fondo a Corso Calatafimi, in un quartiere nuovo, effettuando così una duplice speculazione. Naturalmente non troveremo traccia ufficiale della presenza dell'Immobiliare se non per i bilanci della stessa società. Leggiamone insieme un brano ( bilancio del 1952, sempre a pagina 27 ):

"Il 14 luglio del 1952 ( un mese e 19 giorni dopo le elezioni del 26 maggio e una settimana dopo che Scaduto diventa sindaco e Virga assessore ai Lavori Pubblici, n.d.r. ) abbiamo costituito con Banco di Sicilia e la Cassa Centrale di Risparmio per le province siciliane, l'Istituto per il Rinnovamento Edilizio di Palermo ( IRE-Palermo ) con il capitale di dieci milioni elevabili ad un miliardo, che si propone di realizzare un vasto programma di risanamenti, nel grande comprensorio centrale delineato dalla Via Maqueda, Corso Vittorio Emanuele, Duomo, Papireto, ed il Teatro Massimo ( è il perimetro del rione Monte di Pietà ). Abbiamo assunto le funzioni di organo tecnico dell'IRE-Palermo e sono in corso importanti studi. La IRE Palermo ha poi dato luogo in data 20 ottobre 1952 alla costituzione dell'Istituto per la bonifica edilizia di Palermo ( BONEDIL ), Società per azioni senza finalità di lucro, che si propone di costruire un nuovo quartiere in espansione della città, ove alloggiare gli abitanti della zona centrale da risanare. In base all'incarico di fiduciario conferitoci dal BONEDIL abbiamo già acquistato un rilevante comprensorio di aree nel Corso Calatafimi e verrà prossimamente attivato il primo quartiere con 216 alloggi, 1045 vani e 66 botteghe artigiane, per una spesa di circa 506 milioni, ammesso al contributo del 5 per cento all'anno per 35 anni in base alla legge regionale 12 aprile 1952". Saltiamo al bilancio 1953 dell'Immobiliare: "In applicazione delle larghe provvidenze disposte dalla Regione Siciliana sono in complesso in costruzione nel comprensorio di aree acquistate dal BONEDIL a Villa Tasca sul Corso Calatafimi e di altre in località Noce espropriate dalla Regione, edifici per una spesa complessiva di 1 miliardo e 100 milioni ed è programmata la messa in cantiere di un altro nucleo edilizio per una spesa di circa 500 milioni". Il gioco dell'Immobiliare è chiarissimo: fonda una società senza scopo di lucro per potere ottenere le provvidenze della Regione; ma si guarda bene da usare la stessa terminologia per risanamento del rione Monte di Pietà. Se il colpo gli riesce, mezza città è sua: le case di 80.000 persone, le botteghe della Palermo povera del Capo, del Papireto, di San Biagio, di Piazza San Cosma sfumano come nebbia al sole per consentire una massiccia speculazione ammantata da una cappa nobilissima di interesse sociale: già, scompariranno i catoi..."



E' a questo punto dell'avviato "sacco" edilizio di Palermo che il Comune mette in moto i "Piani di ampliamento al Piano di Ricostruzione", coinvolgendo iniziative esterne a Palazzo delle Aquile

"Quella che avrebbe dovuto essere una indicazione di pubblica utilità - scrive ancora Roberto Ciuni - viene riproposta da enti o da privati certo poco preoccupati da questioni urbanistiche ma molto dai prezzi dei terreni lontani dal vecchio centro che vanno salendo vertiginosamente. E' a questo punto che il sindaco Scaduto stipula una serie di convenzioni nelle quali si stabilisce la rete viaria, accettando quella richiesta dai privati e già indicata nei Piani di ampliamento. Praticamente interessi spesso non pubblici daranno da ora innanzi un loro senso allo sviluppo della città. Le convenzioni firmate dal sindaco e tutti terreni che esse valorizzano, riguardano una grande striscia di terreno delimitata, grosso modo, dalla strada ferrata Palermo-Trapani a monte, e dalla via Libertà a valle; questa lingua di terreno parte all'altezza della via Rapisardi e termina in asse allo Stadio Comunale. Sono circa 700.000 metri quadrati. Servite da tutti gli allacciamenti che il Comune deve effettuare, abilmente tagliate secondo un Piano Regolatore che non sposterà una virgola dagli interessi dei privati, le aree di questa zona daranno un utile complessivo di circa 30 miliardi. A parte ogni considerazione urbanistica, questo è il prezzo dei rialzi consentiti dalle convenzioni. Il primo accordo firmato è quello con l'Istituto Autonomo delle Case Popolari. La famiglia Terrasi ha venduto all'IACP una zona detta "girato La Rosa", l'ultimo tratto di quella che oggi è via Brigata Verona. L'IACP chiede una convenzione per costruirvi case popolari. L'ottiene. Sullo slancio di questo accordo la famiglia Terrasi, i principi Spatafora, la società La Conigliera e altri consorzi di proprietari ottengono la stipula di convenzioni che ripetono né più né meno i Piani di ampliamento. Una piccola truppa di gente dal naso fino approfitta della situazione che si sta determinando e si dedica a compra-vendite assai remunerative: valga per tutti il caso di un alto funzionario dello Stato che acquista a tremila lire il metro quadrato un pezzo di terreno all'angolo di via Principe di Paternò con la via Sciuti e lo rivende dopo due anni a trentamila lire, avendo capito da che parte spira il vento. Lo sviluppo della città è segnato dalle convenzioni che il sindaco Scaduto stipula. Esse influenzeranno le due stesure del Piano Regolatore negli stessi termini in cui l'avrebbero influenzato i Piani di ampliamento... Palermo non avrà più le caratteristiche di città radiale, ma quelle di una città monoassiale. Se qualcuno protesterà, sarà tacitato con una vecchia, sottile giustificazione solo in parte valida ed efficace: i palermitani da un secolo tendono a spostarsi naturalmente verso e oltre la Statua...



Il professore Scaduto nel 1955 cade intanto vittima nella "nouvelle vague" democristiana che preferisce un Commissario prefettizio ad un sindaco di destra, ex fascista, e per giunta - dicono quelli della "nuova leva" DC - amico del giuguaro, ossia dell'imperante Restivo. A Palazzo delle Aquile si insedia il dottore Mario Liotta e poi, il dottor Salerno, il quale in un mucchio di carte che ha lasciato in eredità Scaduto le convenzioni già stipulate e le approva. Il Commissario fa compiere in tal modo alle convenzioni un secondo passo verso il loro valore vincolativo, in quanto egli, nel firmare, assume i poteri del Consiglio Comunale che gli sono stati trasmessi ope legis. Nascono via Empedocle Restivo, viale Campania, viale Lazio: la città ha un tale balzo in avanti che in poco tempo tra la via Libertà e la via Sciuti casermoni sfinestrati, simili a orribili scheletri in camento armato, invadono la campagna. E' il 1955: nasce così il boom edilizio di Palermo..."     


mercoledì 22 marzo 2023

LA SOVERCHIANTE SCOPERTA DEL COUSCOUS DI GIUSEPPE CULICCHIA A MARSALA

Preparazione del couscous
nel trapanese.
Fotografia di Benedetto Patera
pubblicata in "Sicilia Oggi"
nel luglio del 1959


"... E soprattutto non avevo ancora afferrato che siccome a Marsala vanno molto orgogliosi del fatto che Marsala è uno dei  pochi posti in Sicilia dove si fa il cuscus, tutti sia a pranzo che a cena cucinano il cuscus, proprio come Tina la sera prima. Non sospettavo, inoltre, che per non offenderli, ti toccava mangiarlo ogni volta come se non lo avessi mai mangiato prima. Dopodiché i padroni di casa pretendevano pure di farti fare il bis, anche se niente al mondo riempie quanto il cuscus. In particolare se si è costretti a seguire una dieta a base di cuscus sia a pranzo sia a cena, con tanto di bis, per intere settimane, sette giorni su sette. Anche perché, una volta ingerito, il cuscus si esalta e cresce..."

Nell'estate del 1972, Giuseppe Culicchia mise per la prima volta da bambino piede a Marsala, luogo di origine del padre, trasferitosi nel secondo dopoguerra in Piemonte. L'esperienza di quel viaggio, accompagnato dallo stupore per i paesaggi, per la gastronomia locale e per  il saluto-tormento subìto dai parenti - "Ma tu Peppe sei! Peppe come tuo nonno Giuseppe Culicchia! Pippinu! Pippinu Piruzzu!" - è stata da lui riassunta nel libro "Sicilia, o cara. Un viaggio sentimentale" ( Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano, 2010 ). 



Fu appunto a Marsala che Giuseppe Culicchia scoprì esageratamente il couscous; pietanza che, come spiegato da Mario Liberto in "Couscous. Koinè culturale dei popoli" ( Edizioni Kalòs, Palermo, 2019 ) in provincia di Trapani offre un ricco repertorio di varianti:

"A Favignana e Trapani, la semola è cucinata con il vapore della sola acqua con l'aggiunta di cannella. Altre differenze si possono avere sul colore: a trapani il couscous si prepara bianco, cioè senza pomodoro, a Favignana e Marsala è invece colorato con l'aggiunta del medesimo ortaggio. E ancora, a Trapani il classico "cùscus" di pesce si ottiene con l'aggiunta di boghe, scorfani, martello; i contadini del trapanese come condimento utilizzano invece la carne di maiale, che può essere arricchita con i broccoli. 



Nel marsalese si prepara anche con le lumache e le verdure, con la carne di maiale, con il "pulu" di casa ( il tacchino ), la papera, l'agnello, le verdure, le fave e il cavolfiore. I mazaresi preferiscono accompagnare il couscous di pesce con le zucchine, patate, carote e bietole, lessate separatamente. Il quello pantesco, al pesce si uniscono le verdure fritte ( zucchine, melanzane e peperoni )" 

mercoledì 15 marzo 2023

USTICA, L'ISOLA REFRATTARIA ALLA MONDANITA'

Il centro abitato di Ustica.
Le fotografie del post sono tratte
dalla rivista "Sicilia Mondo"
del dicembre 1957


Un'isola dura ed ancora accettabilmente pura, refrattaria alla  mondanità ed all'invasione estiva di folle di turisti, scoraggiati dalla quasi assenza di spiagge e dall'asperità delle coste bagnate da un mare dalle lucenti tonalità dei blu e degli azzurri. E' l'identità di Ustica, isola che vive una condizione di solitaria collocazione nel Tirreno, l'unica - insieme all'isolotto di Isola delle Femmine - nel mare della provincia di Palermo. L'indole poco appariscente di Ustica l'ha da sempre esclusa dai grandi flussi turistici, favorendo la prevalente presenza di frequentatori abituali, amanti più del mare che dell'industria balneare. La vocazione di quest'isola non si è persa neppure dopo l'avvio, nel 1959, della Rassegna Internazionale delle Attività Subacquee. Sembrò allora che l'evento potesse significativamente espandere il suo richiamo: un'opportunità  auspicata in precedenza da un reportage firmato da Giuseppe Marino sulla rivista "Sicilia Mondo" del dicembre 1957. Qualche mese prima, Ustica aveva visto entrare in funzione un primo autentico albergo: un evento destinato ad incrementare le presenze turistiche dell'isola, senza però stravolgerne il ruolo di ( felice ) comprimaria fra le isole minori italiane. 

"Sul registro degli illustri visitatori di Ustica ho trovato così scritto:

"Se Ulisse si fosse fermato ad Ustica, no sarebbe mai più arrivato ad Itaca"

La firma - si legge nel reportage di Marino - era quella di un chiaro scrittore, profondo conoscitore delle bellezze mediterranee. Può darsi che la frase possa sembrare anche ricercata, come avviene quando preziosità e letteratura si sposano col turismo. Ma, sta di fatto che essa rispecchia felicemente più di una impressione, più che una sensazione, una realtà dello spirito. E' la stessa realtà lirica, da me avvertita in un fugace pellegrinaggio alla più suggestiva e primitiva, insieme, isola del Mediterraneo, poco di là del sinuoso golfo di Palermo. La realtà era il documento vivente di una terra sorgente dal mare e nella sua breve latitudine, così raccolta e così espressiva da indurre più alla concentrazione spirituale, anziché ad una pagana espansione. Il lirismo era come un'onda radioattiva, che attingeva alla natura particolare di quella bellezza raccolta e quasi sconosciuta, per penetrare alla radice stessa della natura e fonderla nell'armonia dello spirito. Niente di trascendentale, anzi una bellezza ridotta alla più elementare espressività, al genio della terra e del mare. Eppure per questo, anzi per questa sua innata attitudine al raccoglimento e alla poesia, maggiormente sensibilizzata. Non è il caso di confondere la piccola isola di Ustica con quelle venute alla moda della mondanità internazionale negli ultimi anni. 



Se il rilancio delle isole è stato l'ultimo "slogan" del turismo - con la preziosissima isola di Ischia come esempio recentissimo - la nostra Ustica si ammanta ancora della squisita verecondia della sua scarsa notorietà. E', anzi, una sconosciuta nell'Olimpo del turismo internazionale; appena un puntino microscopico fra le linee coordinate dell'atlante geografico siciliano. Eppure, questa sua rarità, ne costituisce, ad oggi, il più prezioso dei gioielli. Per non profanare l'acqua viva e purissima del brillante in cui si è incastonata, bisognerà nel tempo, anche quando sarà nota alla "elite" turistica, non profanare questa sua magnifica singolarità...



C'è qualche cosa di agreste e di bucolico nella stessa sensibilità marinara della minuscola isola, pienamente integra nella sua violenta, ma non selvaggia primitività. Violenza di colori, violenza di luci, violenza di riflessi sul mare: quasi un'aggressione di bellezza, che si stempera dalla collina ancora brulla alle ineguagliabili grotte, nelle quali colpisce ora il brillio dell'azzurro, ora il pittoresco gioco delle secolari erosioni sulle rocce, ora la dolce patina aurea stemperata sulle pareti di magnifica caverna..."



 


venerdì 10 marzo 2023

PLACIDO RIZZOTTO, IL DONO DEI PIATTI DI PASTA DOPO LA SUA SCOMPARSA

Francesca Di Palermo,
nipote di Placido Rizzotto.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Testimonianza di Francesca Di Palermo, figlia di Giovanna Rizzotto e di Peppino Di Palermo, nel giorno del 75° anniversario della scomparsa ed uccisione a Corleone di Placido Rizzotto, vittima di mafia:

"A Placido se lo sognavano sempre che aveva fame. E tutte le volte, quando mia madre se lo sognava, cucinava un piatto di pasta e lo donava a qualcuno. La sera della sua scomparsa, quando mio nonno Carmelo, il padre di Placido, andò a parlare con chi doveva andare a parlare per avere notizie di suo figlio, seppe che era andato via con due persone, due personaggi allora famosi a Corleone: Criscione e Collura. Appena mio nonno gli sentì dire questi nomi, arrivò dentro casa e disse a tutti: "Potete vestirvi di nero perché mio figlio non tornerà più". E così fu"




giovedì 9 marzo 2023

UN PAESAGGIO DI LIA PASQUALINO NOTO

 








STORIA DEL CONTRABBANDO DEL SALE FRA MESSINA E LA CALABRIA

Contrabbando di sale nel 1959
su un traghetto in viaggio fra Sicilia e Calabria.
Le fotografie del post sono di Giuseppe Grasso,
opera citata nel post


Prima che il traffico di stupefacenti diventasse a partire dagli anni Settanta in Sicilia uno dei principali strumenti di ricchezza - e di morte - dei clan mafiosi, quello delle sigarette di contrabbando segnò le cronache degli anni Cinquanta e Sessanta, soprattutto nelle città portuali dell'Isola. Personaggi come il boss palermitano della Kalsa Masino Spadaro - famoso per essersi definito il "Gianni Agnelli di Palermo" per la quantità di contrabbandieri al suo servizio - raccontano la storia di quei traffici che sfruttavano come punti di sbarco i porti urbani e gli anfratti più nascosti delle coste del palermitano e del trapanese.  Meno ricordata è invece l'attività di contrabbando che si sviluppò dagli anni del secondo dopoguerra e sino agli inizi degli anni Settanta da Messina verso le coste della Calabria. Lo Stretto fu allora la via di trasporto clandestino del sale: un prodotto di uso quotidiano che in Sicilia - regione a Statuto Speciale - rispetto al resto d'Italia, non era soggetto al monopolio di Stato. In quegli anni, il prezzo al chilogrammo della qualità più raffinata oltre lo Stretto raggiungeva un costo assai più elevato rispetto a quello praticato nell'Isola

Panetti di sale
nascosti in un vagone ferroviario


Fu così che, insieme all'attività delle famose "bagnarote" - le donne di Bagnara Calabra che arrivavano sino a Messina per poi tornare in Calabria con i pacchi di sale nascosti sotto ampie gonne - si sviluppò quella più articolata di gruppi  "protomafiosi" di trafficanti, composti per lo più da pescatori messinesi, in particolare della zona di Torre Faro. Altro strumento del contrabbando furono allora i treni imbarcati sui traghetti che facevano la spola fra le due regioni, grazie ad ingegnosi sistemi di occultamento spesso scoperti dalla Guardia di Finanza: ad esempio, le cassette contenenti gli accumulatori elettrici poste sotto il pavimento dei vagoni. Nell'ottobre del 1959, la rivista mensile "Sicilia Oggi" pubblicò un fotoreportage che illustrava un intervento compiuto dai finanzieri sullo Stretto contro un gruppo di trafficanti messinesi che stava scaricando un grosso quantitativo di sale da un motoveliero, per poi trasferirlo in Calabria sulle loro barche da pesca.

Un motoveliero
e barche utilizzate
dai contrabbandieri del messinese



Le immagini contenute nell'articolo, realizzate da Giuseppe Grasso, furono accompagnate da una didascalia che ci fornisce oggi preziose indicazioni su un'attività di contrabbando che cessò nel 1974, quando lo Stato abolì il monopolio sulla vendita del sale:

"Il monopolio del sale, in Italia, risale ai tempi dell'impero romano. Il contrabbando di questo prodotto, probabilmente, ha la stessa età. Le fotografie che seguono illustrano i vari aspetti di tale contrabbando in Sicilia: in essa e nelle isole adiacenti la produzione del sale è fortissima, e per un antico diritto tali territori sono esenti da monopolio. La cosa è anche spiegabile con un altro motivo: le zone di produzione sono particolarmente vaste, e quindi la sorveglianza appare troppo difficile e costosa. Pertanto, lungo il litorale di Ragusa, Siracusa, Catania e Messina è vietato tenere depositi di sale, e la vigilanza doganale si estende all'interno di questa fascia costiera sino a 22 chilometri: da questo divieto sono escluse le saline ed i centri abitati con più di 10.000 abitanti. Tutto ciò per evitare il facile contrabbando fra la Sicilia ed il Continente.

Un pattugliamento
sul mare dello Stretto
per contrastare il contrabbando del sale


Il prezzo di vendita al pubblico del sale si aggira in Sicilia sulle dieci lire al chilo: nel territorio della penisola, invece, il sale di monopolio costa cinquanta lire. Com'è naturale, tale sensibile differenza di prezzo genera un forte commercio clandestino tra la Sicilia ed il Continente, e segnatamente tra l'Isola e la vicina Calabria. Malgrado la sorveglianza e le multe, il contrabbando avviene quotidianamente attraverso lo Stretto di Messina; per filtrazione di carichi isolati ( che generalmente non superano i cinquanta chili di prodotto ) e per l'introduzione irregolare in Calabria di contingenti di merce d'entità ben maggiore, curata da vere e proprie organizzazioni che da tale traffico ritraggono ingenti, illeciti guadagni"

   

BELLEZZA E ABBANDONO DEL FARO DI CAPO ZAFFERANO

Il faro di Capo Zafferano.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Con i suoi undici metri di altezza e la torretta di forma ottagonale, il faro ad ottica fissa di Capo Zafferano vive da decenni uno stato di completo abbandono: una condizione che risale agli anni Settanta del Novecento, quando la lanterna venne automatizzata, senza più un presidio dei guardiani. Il faro venne costruito dopo il 1879 con una spesa di 36.000 lire, nello stesso periodo in cui vennero edificati quelli di Capo Peloro, Salina, Ustica e Pantelleria. La decisione di dotare questo tratto di costa palermitana di un impianto di segnalazione marittima nacque dall'esigenza di fornire indicazioni alle navi dirette al porto di Palermo da levante. Il faro, collocato a guardia di un promontorio ricco di attrattive botaniche e sottomarine, divenne anche un punto di riferimento utile ad evitare le secche di Solanto, responsabili di naufragi ed incidenti. In uno di questi, ancora nell'ottobre del 1928 - complice il forte vento di scirocco - la motobarca "Giuseppina" di Porticello colò a picco ad un miglio dal faro; sette pescatori riuscirono a rifugiarsi su una scialuppa di salvataggio priva dei remi e furono tratti in salvo al largo di Mondello. Nel 1886, l'impianto era già in funzione e nei primi anni del Novecento, nella lista dei faristi che vi prestavano servizio figura il nome di tale Alfonso Verruso.  Il degrado attuale del faro riguarda anche una serie di resti di strutture militari costruite negli anni del secondo conflitto mondiale, quando capo Zafferano divenne uno strategico punto di osservazione e passaggio di mezzi navali ed aerei, alcuni dei quali giacciono sui profondi fondali circostanti. Negli ultimi anni si è più volte discusso un progetto di recupero dell'intero complesso, di proprietà demaniale; ma come accade già per altri fari dell'Isola - ad esempio l'altro palermitano di Capo Gallo - dalle parole non si è mai passati ai fatti, lasciando questo storico faro in mano ai vandali ed alle sferzate del vento che spesso spazzano il promontorio di Capo Zafferano

domenica 5 marzo 2023

IL "MANIFESTO" DELLA LOTTA DEL BELICE DI GIANBECCHINA TRAFUGATO A GIBELLINA E RICOMPARSO A MESTRE

Il bozzetto del lenzuolo
"Gridano le pietre di Gibellina"
di Gianbecchina
conservato al Museo d'Arte Contemporanea
della cittadina del Belìce 


La sera del 15 gennaio del 1970, a Gibellina, durante una fiaccolata in ricordo del secondo anniversario del terremoto, il pittore Gianbecchina si procurò un lenzuolo bianco. Erano passati due anni dal sisma che aveva devastato la valle del Belìce e la protesta dei sindaci e della popolazione locale per i ritardi nella ricostruzione era nel frattempo arrivata sino a piazza Montecitorio, a Roma. Sprovvisto di colori, Gianbecchina chiese ed ottenne quella sera da un falegname il dono di un paio di pennelli e di alcune confezioni di anilina rossa e nera. Con quei coloranti, l'artista di Sambuca di Sicilia dipinse sul lenzuolo una delle sue più singolari creazioni, destinata a diventare un "manifesto" delle rivendicazioni belicine. 

La fiaccolata che ebbe luogo a Gibellina
la sera del 15 gennaio del 1970.
Fotografia esposta al MAC di Gibellina


L'opera, denominata "Gridano le pietre di Gibellina", venne più volte portata in corteo dai sindaci dei paesi terremotati, diventando l'espressione artistica della protesta di un'intera comunità del trapanese e dell'agrigentino. All'interno del Museo d'Arte Contemporanea di Gibellina si conserva oggi un bozzetto di quel lenzuolo; l'originale, esposto in origine all'interno della nuova sede comunale del paese distrutto dal terremoto - una struttura precaria creata nell'area della baraccopoli di Rampinzeri - nell'aprile del 1975 fu temporaneamente trasferito a Palermo, all'interno della Galleria d'Arte Moderna

Il lenzuolo di Gianbecchina
portato in corteo dai sindaci del Belice
dopo il terremoto del gennaio del 1968.
Fotografia esposta al MAC di Gibellina


Da allora, le notizie che riguardano il lenzuolo dipinto da Gianbecchina sono incerte. Sembra che abbia fatto ritorno dalla galleria palermitana a Gibellina, ancora all'interno della baraccopoli, come riferito da alcuni testimoni. Poi le indicazioni sulle sorti dell'opera si perdono in un buio fatto di oblio e reticenza: del telo denominato "Gridano le pietre di Gibellina" - del quale non è stato mai ufficialmente denunciato il trafugamento - si perse allora ogni traccia, sino ad un inaspettato incontro avvenuto nei primi anni Ottanta fra la moglie di Gianbecchina ed una donna all'interno della Galleria d'Arte "Giorgio Ghelfi" di Verona. In occasione di una mostra dedicata all'artista agrigentino, la signora mostrò con orgoglio una fotografia che ritraeva il lenzuolo di Gianbecchina, parzialmente ripiegato e incorniciato su una parete della propria abitazione di Mestre. Alla richiesta di maggiori notizie su come fosse venuta in possesso del telo scomparso da Gibellina, la proprietaria spiegò di averlo regolarmente acquistato da un gallerista di Roma

La fotografia del lenzuolo
di Gianbecchina esposto ancora
negli anni Ottanta a Mestre


La fotografia dell'opera è rimasta in mano agli eredi di Gianbecchina, che più volte - negli ultimi anni - hanno tentato di convincere la famiglia di Mestre alla restituzione al Comune di Gibellina del lenzuolo, offrendo come contropartita un'altra opera dell'artista. 

La lettera firmata dai sindaci del Belìce
il 12 marzo del 2007
in cui si richiede la restituzione dell'opera
Fotografia ReportageSicilia


Il tentativo è finora andato a vuoto, malgrado un appello rivolto nel marzo del 2007 a chi probabilmente detiene ancora il telo dalla maggioranza dei sindaci del Belìce, che lo ritengono - giustamente - uno dei simboli delle lotte per la rinascita del loro territorio condotte negli anni successivi al terremoto.