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mercoledì 25 maggio 2022

MARETTIMO, LA PRIMA DELLE EGADI CHE DICHIARO' INDIPENDENZA DALLA SICILIA

Case a Marettimo.
La fotografia di Gaetano Armao
è tratta dalla rivista "Sicilia"
edita nel giugno del 1979
dall'assessorato regionale al Turismo


Le vicende geologiche di Marettimo indicano che la più lontana delle isole Egadi si staccò dalla Sicilia nel corso dell'ultima glaciazione, prima di Favignana e Levanzo

"Per questo - si legge in "Guida della Natura della Sicilia" di Fulco Pratesi e Franco Tassi ( Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1974 ) - a differenza delle altre due, non offre testimonianze umane fino all'epoca neolitica - quando l'uomo ebbe a disposizione barche per superare le frontiere marine - ma conserva in compenso preziosi antichissimi endemismi, e cioè specie vegetali ed animali non viventi altrove, che documentano lontane vicissitudini geologiche, climatiche e biologiche e rappresentano non di rado il risultato di un prolungato isolamento dalla terra madre..."


 

La dettagliata descrizione della millenarie vicende geologiche di Marettimo fornita dal saggio di Pratesi e Tassi ha trovato in seguito stringato ma lucidissimo contraltare in "Pelaghiè", di Giuseppe Lazzaro Danzuso e Alfio Garozzo ( Domenico Sanfilippo, Catania, 1999 ):

"Crosta dura di rocce all'esterno, penetrata da grotte di magica atmosfera, frammento che primo, seicentomila anni fa, dichiarò la propria indipendenza dalla Sicilia..."



domenica 22 maggio 2022

RETORICA FASCISTA NEL 1937 AL FORO ITALICO DI PALERMO PRIMA DELLA DISFATTA IN SICILIA

Il volto di Mussolini
ritratto in un carretto dell'Isola.
Fotografia pubblicata da 
"Il Mondo" del 13 ottobre 1951


Nell'agosto del 1937, Benito Mussolini visitò la Sicilia per la seconda volta dall'inizio del suo regime. L'evento, celebrato nell'abituale contesto di retorica e propaganda sulla "italica grandezza" e sulla "fierezza di un popolo generoso, abitante nel centro geografico dell'Impero", coincise con l'organizzazione di esercitazioni navali fra le coste di Sciacca e quelle di Augusta. Uno degli appuntamenti più attesi di quel viaggio si svolse a Palermo, in quella zona del Foro Italico dove, appena 6 anni dopo, il generale George Smith Patton - dopo avere insediato il quartier generale americano all'interno di Palazzo dei Normanni - avrebbe ordinato la colmata del mare con le macerie urbane causate dai bombardamenti alleati. In questo luogo, alle 17.45 del 20 agosto, Mussolini avrebbe pronunciato ai palermitani ed al resto degli italiani in ascolto radio un discorso in cui avrebbe espresso due previsioni destinate a confermare la natura sostanzialmente propagandistica dell'operato fascista. "Incomincia per la Sicilia un'epoca felice come mai ha avuto in millenni di storia" - declamò alla folla del Foro Italico - aggiungendo che "qui, in quest'isola, non sbarcherà mai nessuno, nemmeno un soldato": una retorica che di lì a pochi anni, con l'inizio della guerra, sarebbe stata drammaticamente spazzata in Sicilia dapprima dalle bombe francesi, inglesi ed americane e, in seguito, dallo sbarco di massa dell'operazione "Husky"


  

Nel 1937, in occasione di quel viaggio nell'Isola - ha scritto nel 1981 sul "Corriere della Sera"  il giornalista e saggista Silvio Bertoldi -  "all'imperioso capo del fascismo non dissero nulla né le condizioni economiche e sociali dell'isola, né l'evidente impreparazione militare, né l'inadeguatezza delle difese, né il lassismo dei comandi e delle autorità civili. Si arriva al luglio 1943 in un clima di dissoluzione morale e materiale, mentre già si intravvedono i primi sintomi di quella malattia che poi si chiamerà separatismo, con un dittatore sconfitto e senza prestigio specie dopo il "discorso del bagnasciuga", tra la crescente arroganza dei tedeschi che si vedono addossato il compito di morire per un'isola che toccherebbe agli italiani di difendere. 



Lo sbarco avviene come un evento fatale, atteso e forse preludio dell'otto settembre perché nessuno ha più voglia di battersi per una causa perduta, già spariscono frettolosamente prefetti e gerarchi, dando proprio loro il primo segnale del crollo. Seguono quelle che per gli alleati saranno giornate straordinariamente fauste e irripetibili, prologo illusorio alla campagna d'Italia resa ben più dura e sanguinosa dall'abilità di un generale come Kesselring e dall'efficienza dei suoi soldati; ma la Sicilia resta un esempio di come un'operazione militare possa diventare un fatto imprevedibile ed equivoco, in cui al valore e al coraggio si mescolano inestricabilmente azioni mafiose, figli di Cosa Nostra, ritorno di "paisà", viltà locali, piccoli e grandi tradimenti, servizi segreti e sbracamento indicibile di fronte ai vincitori..." 


lunedì 16 maggio 2022

SELINUNTE: STORIE DI TOMBAROLI, DI SARDE E DI REPERTI SALVATI DAL SACCHEGGIO

Reperti scoperti a Selinunte
esposti al Museo "A.Salinas" di Palermo.
Foto di Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Una delle più singolari imprese dell'archeologia siciliana porta la firma del professore Vincenzo Tusa. Fra il 1963 ed il 1968, l'allora dirigente della Soprintendenza alle Antichità della Sicilia Occidentale riuscì ad arginare la razzia della vasta necropoli di Selinunte messa in atto dai tombaroli: pescatori e contadini che dallo scavo clandestino e dalla vendita dei corredi funerari ricavavano preziose lire. Storia vuole che da questa "depredazione da poveri" la mafia locale abbia per anni ricavato ingenti guadagni: i reperti più pregiati infatti sarebbero stati affidati a personaggi come Francesco Messina Denaro - il padre di Matteo - e piazzati sul mercato clandestino italiano e straniero. "Mi resi conto di questa situazione - avrebbe scritto anni dopo lo stesso Tusa - e decisi che lo scempio doveva terminare. Non solo. Quegli stessi tombaroli, in molti casi, avevano una migliore conoscenza dei luoghi in cui scavare rispetto agli archeologi. Offrendo loro la possibilità di essere pagati con regolarità per le  ricerche, il saccheggio sarebbe finito". L'operazione venne attuata con successo, grazie al fatto che gli scavi di Selinunte erano stati affidati in concessione alla Fondazione Mormino del Banco di Sicilia. Vincenzo Tusa convinse l'istituto bancario a farsi carico del progetto, che ottenne vasta eco sulla stampa italiana e una naturale contrapposizione fra estimatori e critici. Per la durata di quattro anni, i tombaroli di Selinunte misero in luce i reperti di circa 5.000 tombe di quella che è considerata come una delle più popolose e ricche metropoli del Mediterraneo antico. 



L'iniziativa è così diventata una delle pagine aneddotiche più ricordate nella storia dell'archeologia siciliana. Venne in questo modo descritta nel febbraio del 1970 da Cornelia Isler Kerenyi dell'Università di Zurigo, sulla base del racconto riferitole verosimilmente dallo stesso Vincenzo Tusa, che ebbe l'occasione di ospitarla più volte a Selinunte:

"Una notte d'inverno di qualche anno fa - scrisse la Kerenyi sulla rivista "Sicilia" edita dall'assessorato regionale al Turismo - un gruppo di clandestini stava lavorando in uno dei campi nei dintorni di Selinunte. La maggior parte degli uomini organizzati in gruppi scavava le tombe, alcuni altri stavano nel frattempo cucinando le sarde allo spiedo, che sarebbero servite da spuntino. Ed ecco ad un tratto sorgere un gruppo di individui estranei, ben presto riconosciuti quali il Soprintendente alle Antichità della regione, il professore Vincenzo Tusa e i suoi assistenti. Tutti gli scavatori se la squagliarono, abbandonando gli attrezzi e si nascosero nelle vigne. Solo i cuochi impacciati dagli spiedi furono costretti a rimanere sul posto. Si aspettano forse di venire arrestati o per lo meno perquisiti. Ma la cosa prese una piega inaspettata. Il Soprintendente, infatti, si informò con voce calma cosa facessero. Era d'altronde evidente che le sarde non erano che un pretesto, mentre la vera attività ero lo scavo clandestino. 



Si cominciò a parlare delle ragioni di quella attività. L'incontro notturno si concluse con un patto: se il professore Tusa fosse riuscito entro pochi giorni a procurare un lavoro legale ai clandestini presenti in quel momento e a risolvere così il loro problema vitale, il mantenimento della propria famiglia, questi si impegnavano a sospendere gli scavi notturni. In caso contrario tutto sarebbe rimasto come prima..." 

giovedì 12 maggio 2022

SCOPELLO, SDRAIO IN ATTESA DI BAGNANTI

 

Foto
Ernesto Oliva-ReportageSicilia

mercoledì 11 maggio 2022

STORIE DI VICERE' E DI GRANO NEL CASTELLO DI CACCAMO

Lo scudo lapideo
del viceré Cabrera nel castello di Caccamo.
Le foto del post sono di
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Non solo gli scenografici Quattro Canti a Palermo; le tracce architettoniche della dominazione spagnola in Sicilia si scoprono nei grandi castelli dell'Isola. Una di queste testimonianze - uno scudo lapideo di grandi dimensioni - si trova all'interno del castello di Caccamo. Raffigura la testa di un cavallo ed un Triscele, simbolo della famiglia del viceré Giovanni Alfonso Enriquez Cabrera, conte di Modica, che governò la Sicilia fra il 1641 ed il 1644






Fra i suoi possedimenti, ci furono per qualche anno le terre di Caccamo, che all'epoca - secondo quanto riferito nel 1651 da Agostino Inveges in "Storia di Caccamo" - contava 31 feudi muniti di una decina di casali abitati. Il viceré Cabrera trasse ricchezza dalle sue vaste proprietà grazie alla coltura intensiva del grano, che garantiva ingenti guadagni anche al di fuori della Sicilia



Le pietre del castello di Caccamo raccontano così anche una storia di commerci, che ha avuto conseguenze storiche sullo sviluppo del territorio a causa del permanere di strutture fondiarie che "molto a lungo - ha scritto Aldo Pecora in "Sicilia" ( Utet, Torino, 1974 ) - hanno cristallizzato in forme desuete il colloquio fra l'uomo e la terra, mortificandolo entro linee e schemi anacronistici, eppure di difficile rottura" 

lunedì 9 maggio 2022

LA CASA ETNEA DI ERCOLE PATTI

Casa nella campagne dell'Etna.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


"L'ispirazione spesso sembra morderlo come una tarantola, scuoterlo da un sonno atavico e in quei momenti è impossibile scrivere meglio di lui, con più scaltra misura, con gusto più perfetto". Così Eugenio Montale descrisse la scrittura di Ercole Patti, il più evocativo fra gli scrittori che abbiano descritto i paesaggi delle campagne e dei boschi dell'Etna. Le pagine di Patti rimangono oggi la testimonianza di un microcosmo plasmato dalla forza della natura - il nero delle pietre laviche, i giardini di agrumi, gli antichi vigneti, le visioni del mare - e dalla presenza dell'uomo: ville e vecchi casolari abbandonati, inferriate arrugginite, strumenti di lavoro contadino, mobili ed arredi non utilizzati da anni e ricoperti da veli di polvere.

Un mondo - alla fine - in cui i segni della memoria diventano strumento per raccontare l'identità di un territorio che oggi conserva ancora qualche traccia dei ricordi fissati da Patti nelle pagine dei suoi racconti etnei:


 

"La casa - si legge in "Alla ricerca della felicità" ( da "Diario siciliano", Bompiani, 1971, Milano ) - sorge anzi è quasi affondata dentro un piccolo e antico uliveto sul mare; ci sono sparsi una quarantina di ulivi vecchi, alcuni vecchissimi e qualcuno giovane; nascono irregolarmente in mezzo alle rocce di lava secolare che si alzano dal terreno e sono fiorite di erbe, di ginestre e di macchie di capperi. In origine questo uliveto era sorto per proteggere dal vento salmastro del mare il giardino di limoni che vi sta dietro. Un alto muro di cinta a secco di grosse pietre di lava nera lo circonda e a sua volta protegge gli ulivi dalla salsedine. Le cime che si alzano al di sopra del muro, in inverno sono bruciate dal vento marino...

La casa apre le sue finestre su questo rudimentale parco, i rami degli ulivi sfiorano le pareti, battono sui davanzali. Dalle finestre posteriori si vede la sagoma ampia dell'Etna coi paesetti sparsi lungo i fianchi. Nella parte anteriore c'è il mare che si spinge fra gli scogli neri pieni di ricci e di patelle fino a pochi metri dall'alto muro di cinta; in lontananza si vede la costa di Taormina, il picco di Castel Mola e nelle giornate serene la lontanissima e sfumata costa calabra..."


mercoledì 4 maggio 2022

ASPRA, DOVE I PESCI SI PARLANO IN SICILIANO

Pescatori ad Aspra.
Fotografie
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


"Cobaltica marina, saluberrima per le sue sponde rocciose lambite da freschissime acque cristalline..."

Così la "Guida Illustrata Bagheria Solunto" edita nel 1911 da Edizioni "Casa della Cultura" descriveva la borgata di Aspra, frazione di Bagheria. Qui è ancora oggi attiva la pesca delle acciughe, in un mare che non è sfuggito al degrado ambientale del golfo di Palermo ed al disordinato sviluppo edilizio della sua costa.



Di fatto, Aspra è da decenni una delle tante località marine di Palermo in cui la bellezza paesaggistica si accompagna ad uno sconfortante stato di trascuratezza dei luoghi: una condizione che conferma il fatto che i siciliani riescono a essere i peggiori nemici di se stessi e della propria Isola.






In questo lembo di golfo di Palermo, Ignazio Buttitta ebbe una casa terrazza dalla quale trasse ispirazione per le sue poesie e per visioni - quella secondo cui i pesci di Aspra "comunicano fra loro in siciliano" - degne del fantastico "Horcynus Orca" di Stefano D'Arrigo.