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domenica 21 aprile 2024

IL RICORDO DEL LUTTO TROIANO DELLE DONNE DI ERICE

Anziana donna di Erice.
Autore ed opera citati nel post


"Inutilmente lei cercherebbe qui i costumi sgargianti della Sicilia: la donna di Erice porta un particolare manto tradizionale di seta nera molto avvolgente in cui s'avvolge con una tecnica tutta sua; l'indumento è antichissimo, non ne conosciamo l'origine"

Così, nel maggio del 1969, il direttore della biblioteca di Erice, composta all'epoca da 11.000 volumi, 600 manoscritti del XVI secolo e 10 incunaboli, illustrò al giornalista Silvano Villani l'abbigliamento allora indossato da molte donne ericine. 



Villani cercò una spiegazione a questa tradizione - oggi quasi del tutto scomparsa - richiamando alla memoria le sue conoscenze sulla poesia alessandrina del IV secolo avanti Cristo:

"Racconta un antico scrittore, Licofrone, ( citato dal Bérard nel suo libro "La Magna Grecia" ) che le donne di Erice e Segesta mai più smisero il lutto per la caduta di Troia: potrebbe il manto ricordare quell'antica catastrofe?"


( La fotografia del post è di Giuseppe Alario ed è tratta dall'opera "Fotografie del 1963" edita da Ezio Croci Editore, Milano )

giovedì 18 aprile 2024

IL CORTEO DEGLI OPERAI DUCROT PRIMA DEL FALLIMENTO DEL MOBILIFICIO

Operai della Ducrot
in corteo negli ultimi mesi
di vita della storica ditta palermitana.
L'altra fotografia ritrae l'esterno della fabbrica.
Entrambe le immagini
sono tratte dall'opera citata nel post


Tra la fine del 1969 ed i primi mesi del 1970 si stava per chiudere a Palermo  l'epopea industriale della fabbrica di mobili ed arredi lignei Ducrot, fondata dall'imprenditore torinese Carlo Golia alla fine dell'Ottocento e divenuta celebre grazie al figliastro Vittorio Ducrot. Quest'ultimo, nato nel 1867, era figlio di un ingegnere ferroviario francese morto a Palermo durante l'epidemia di colera del 1866. Nel 1903, quando l'azienda aveva il nome di "Ducrot, Palermo, Successore di Golia & C e di Solei Hebert & C.", la fabbrica nei pressi del palazzo normanno della Zisa impiegava almeno 200 operai.

"Già nel 1907 - si legge nel saggio di Daniela Pirrone e Maria Antonietta Spadaro "Archeologia Industriale", Kalos Edizioni d'Arte, Palermo, 2015 ) - la ditta era registrata alla Borsa di Milano. Sono di questo periodo le produzioni per gli arredi di Montecitorio, delle navi della flotta dei Florio e delle famose architetture di Ernesto Basile. I più grandi palazzi di Palermo e di tutta la Sicilia, le case dei nobili, ma anche quelle borghesi, vennero arredati con mobili della ditta, responsabile anche degli arredi di Villa Igiea. Nel 1913 i 1.000 operai lavoravano in uno stabilimento che aveva l'estensione di 20.000 mq., ma destinato a crescere ancora..."



Nel 1907, Vittorio Ducrot aveva trasferito la sede legale della ditta a Milano. Nel capoluogo lombardo venne aperto un negozio, altri due a Roma e Napoli. Durante il primo conflitto mondiale, la Ducrot curò la produzione di idrovolanti: una riconversione che anticipò l'inizio di una crisi aziendale scongiurata nel 1931 dalla commessa per la fornitura degli arredamenti dei transatlantici "Rex" e "Roma". All'epoca il numero degli operai era sceso a poco più di 350; i macchinari per la lavorazione del legno necessitavano ormai di un rinnovamento e le sorti della fabbrica sembravano essere segnate. Un ultimo sussulto produttivo si ebbe nel 1935, quando il regime fascista favorì la costituzione di una nuova società per la costruzione di aerei, la "Caproni-Ducrot-Costruzioni Aeronautiche", da affiancare alle attività del mobilificio. Alla vigilia del secondo conflitto mondiale, la Ducrot passò nelle mani di una azienda genovese, che la mantenne sino al 1968, ultimo anno di attività della fabbrica. Le fotografie riproposte da ReportageSicilia furono pubblicate nel febbraio del 1970 dalla rivista "Il Mediterraneo", edita dalla Camera di Commercio di Palermo. Documentano gli ultimi mesi di agonia della ditta, allorché gli operai manifestarono più volte in strada a Palermo nel tentativo di salvare la propria occupazione.






I loro cortei furono accompagnati dall'occupazione dello stabilimento e dalla produzione autonoma di mobilio, iniziativa quest'ultima motivo di duro scontro con la proprietà. Malgrado questa mobilitazione, la richiesta di potere lavorare per conto della SAMSI - una ditta palermitana di arredi scolastici del gruppo E.S.P.I. ( l'Ente Siciliano per la Promozione Industriale liquidato nel 2023, dopo 24 anni di attesa ) - rimase lettera morta. Nel 1971, il fallimento pose così fine per sempre alla gloriosa storia d'inizio Novecento della fabbrica Ducrot

 

lunedì 15 aprile 2024

PREGHIERE ED INSULTI DEI MIETITORI IN UNA PAGINA DI ANTONINO UCCELLO

Fotografie di Giuseppe Leone.
Opera citata nel post


Il 27 settembre del 1971, l'etnologo Antonino Uccello aprì al pubblico la sua Casa Museo a Palazzolo Acreide. Dieci anni prima, Uccello era tornato nella cittadina siracusana dalla Brianza, acquistando una parte dello storico Palazzo Ferla per conservarvi cucchiai di legno, chiavi di carretto, ex voto, sculture in ferro ed altri oggetti di uso quotidiano nella civiltà contadina recuperati nella zona iblea. La Casa Museo - "un vecchio e ampio edificio che costava poco, perché in una delle sue stanze avevano ammazzato il proprietario e nessuno ci voleva abitare", ha ricordato Stefano Malatesta in "Il cane che andava per mare e altri eccentrici siciliani" ( Neri Pozza Editore, Vicenza, 2000 ) - è, sempre secondo Malatesta, la testimonianza della passione di un "antropologo autodidatta, che ha vissuto l'antropologia come un fenomeno poetico e civile". Antonino Uccello fu anche autore di numerosi saggi, scritti senza una forma letteraria e pubblicati dopo un'opera di revisione affidata ad un professore catanese. 



Nel 1976, diede così alle stampe "Amore e matrimonio nella vita del popolo siciliano", nel 1978 "Tessitura popolare in Sicilia". Fra le due opere, ebbe modo di pubblicare nel dicembre del 1977 sulle pagine della rivista "Sicilia" edita a Palermo da S.F. Flaccovio un breve saggio intitolato "I canti della mietitura". 



Lo scritto - accompagnato dalle fotografie di Giuseppe Leone riproposte nel post - conteneva il testo di una preghiera recitata dai mietitori che costituiva anche una denuncia ed un'ironica riflessione sulle loro dure condizioni di lavoro:

"Maronna, quant'è gghiàtu stu suli, facìlitu presto stramuntari! Nun lu faciti, no, pi li patruna, facìlitu pi li puviri iurnatari ca iavi gniuornu ca sunu abbuccuni, ca a catinazza sa mànciunu i cani"

( "Madonna, com'è alto questo sole, fatelo presto tramontare! Non lo fate, no, per i padroni, fatelo per i poveri braccianti, che da un giorno se ne stanno bocconi e la schienaccia se la mangiano i cani" )

Quindi Antonino Uccello descriveva così consuetudini e singolari abitudini di questi lavoratori oggi scomparsi dal paesaggio agricolo siciliano: 

"Prima di iniziare i lavori, i mietitori, all'alba, sogliono, mangiare una fetta di limone e sorseggiare del vino che aspirano dal piccolo barile, passandoselo in giro da un compagno all'altro. I mietitori, come al tempo del Pitrè, sogliono portare in genere sulla camicia un grembiule di cotone o di cuoio, sul braccio destro, infilano una manica di stoffa piuttosto resistente per proteggersi dalle reste, dalle spine o altro, riparano le dita della mano sinistra, con la quale raccolgono il frumento mietuto, con ditali di canna, mentre lasciano libero il pollice, che in molte campagne viene invece protetto con un ditale di cuoio. 



I mietitori si dispongono sul posto di lavoro, che viene detto "antu", uno accanto all'altro, dinanzi al proprio filare di frumento da mietere; a fianco del "capo" si dispongono tutti gli altri mietitori, e per ultimo il "capocoda", che chiude la fila.

Nella Sicilia orientale in particolare il mietitore aveva in passato la facoltà d'inveire contro chiunque, gridare ciò che voleva contro gli eventuali passanti che riuscivano a sedare le invettive scoprendosi il capo. Un padre cappuccino, per la campagna di Palazzolo Acreide, per il secolo XIX, ci offre la seguente testimonianza:

"I mietitori fanno un baccano quando passa vicino a loro qualche personaggio, e gli dicono cose, che in altri tempi non si soffrirebbero. Quest'uso credo d'essere in moltissime parti"



E, infatti, esso ci viene confermato anche dal Guastella per la Contea di Modica, e dall'Avolio per la campagna di Noto, e ci richiama, come si può leggere nel X Idillio di Teocrito, un'usanza frigia secondo la quale coloro che si trovassero a passare per il campo da mietere, specie se stranieri, venivano considerati incarnazioni dello spirito del grano e sacrificati per propiziare la pioggia..." 



domenica 14 aprile 2024

IL VIAGGIO IN SICILIA DI DONATO LAROTONDA


 

L'ESTATE IN CUI USTICA DIVENTO' LA TELA DEI PITTORI ITALIANI

Giorgio Carpintieri
ad Ustica nel luglio del 1966,
durante la prima edizione del
"Concorso di Pittura Murale".
Le fotografie sono tratte dalla rivista
"Palermo. Rassegna della Provincia"
dell'agosto del 1966


Nel 1961, Ustica smise di essere una colonia penale e l'isola cominciò a programmare una serie di manifestazioni con l'intento di sfruttare le proprie potenzialità turistiche. Già nell'agosto del 1959 era stato il dato il via al primo "Festival del Mondo Sommerso", un evento che offrì ai visitatori - fra questi, alcuni nomi dei salotti romani ( Doris Mayer Pignatelli, l'attore Renato Salvatori, il regista Folco Lulli, il produttore Goffredo Lombardo ) - una rassegna cinematografica dedicata al mare, una mostra archeologica ed una gara di sci nautico. L'appuntamento avrebbe in seguito attirato nell'isola i migliori specialisti della caccia subacquea, dando spazio anche ad un goliardico concorso di "pittura sottomarina" ad una profondità di 5 metri, con risultati artistici giocoforza piuttosto astratti. Fu a quel punto che nel 1966, su iniziativa del sindaco Litterio Maggiore - un chirurgo estetico con molti contatti romani, anche nell'ambiente dell'arte - si decise di organizzare ad Ustica la prima edizione del "Concorso di Pittura Murale".  

Sebastiano Milluzzo


L'idea di partenza era quella di abbellire prospetti di case e scorci dell'isola grazie al talento di artisti provenienti in buona parte da Roma e Milano, su invito ed ospitalità del Comune: una circostanza che, nel pieno dell'estate, avrebbe richiamato nell'isola giornalisti, galleristi ed altri protagonisti e comprimari delle cronache artistico-mondane italiane. La manifestazione ebbe luogo dal 24 al 31 luglio e potè contare sulla direzione tecnica di Vittore e Derne Querèl, proprietari a Roma della Galleria d'Arte "La Feluca". Il peso dell'organizzazione fu invece affidato al pittore-ceramista palermitano Giovanni De Simone. A lui si attribuisce un "colpo di teatro" riservato agli ospiti usticesi: l'arrivo con l'aliscafo partito da Palermo di un gruppo di orchestrali del Teatro Massimo. Si ritrovarono così ad Ustica, fra gli altri, Antonio Vangelli, Giulio Turcato, Antonello Aliotti, Giorgio Mantici, l'albanese Ibrahim Kodra, Giacomo Porzano, Giorgio Carpintieri, l'austriaca Rosemarie Hammon, Sante Monachesi, Giselda Parisella ed i siciliani Gino Morici, Oscar Carnicelli, Sebastiano Milluzzo, Costantino Laganà, Nella Giambarresi, Donatella Moncada, Annie Di Patti, Mario Tornello, Totò Bonanno e Gaetano Zingales. Per l'evento artistico fu creato anche una sorta di slogan, suggerito - pare - da Monachesi: "liberiamo i muri delle case dalla loro pesantezza e dalla legge di gravità dipingendovi sopra"

Sante Monachesi


Sulle pagine della rivista "Palermo. Rassegna della Provincia" pubblicata nell'agosto del 1966, Gabriella Sternheim così descrisse l'atmosfera di quella settimana di luglio ad Ustica:

"L'entusiasmo e l'euforia che l'aria di Ustica comunica in chi approda alle sue nere scogliere ha inebriato un pò tutti. Ad ogni pittore era stata assegnata una parete dell'abitato. Tutti quanti hanno iniziato i lavori con un "furore creativo" veramente strabiliante. Avrebbero dovuto affrescare soltanto la parete loro assegnata ed invece a poco a poco hanno dipinto tutte le pareti del piccolo centro: in quattro giorni l'abitato di Ustica, tipico paesetto di pescatori, si è trasformato in una mostra d'arte permanente. I colori violenti di un'isola selvaggia hanno ispirato i pittori che ne hanno riportato i toni vividi sulle pareti delle case, dei bar, degli alberghi. Per tutte le vie che si sondano dalla piazza dominata dalla chiesa di S.Ferdinando, a mare ed a monte, esplodono qua e là cieli azzurri, marine indaco, colline verdi, scene di pesca e di vita marinara. Chi più di tutti ha colto l'essenza di Ustica è stato Giacomo Porzano che ha dipinto via via un volo di gabbiani che si librano in un cielo azzurro e tersissimo, una bimba che mangia una fetta d'anguria, il frutto tipico dell'isola, ed ancora un vecchio marinaio dal volto segnato dalla fatica accanto alla barca tirata in secco, dietro: uno sfondo di mare colore indaco. Tornello ha affrescato la caletta di S.Maria cinta dalle verdi colline che degradano dolcemente verso il mare. Parisella ha scelto un paesaggio più aspro: la cala dell'Uomo Morto con al sua rocca che scende a strapiombo nel mare. Rosemarie Hammon, la bella austriaca allieva di Kokoschka, ha dipinto un paesaggio marino soffuso dalle tenui luci dell'alba. Ed ancora scene marinare hanno dipinto Laganà, Milluzzo, Bonanno, De Simone. I temi sono tra i più caratteristici: donne che riparano le reti, la pesca del pesce spada, barche tirate in secco. I breve, in questa opera si condensa tutta la vita di Ustica.

Costantino Laganà


Kodra, invece, si è ispirato ad un triste capitolo della storia di Ustica, ormai fortunatamente concluso: in un volo di colombe ha immaginato la partenza dei confinati dall'isola ed ha coronato il dipinto con la scritta "Pace e libertà ad Ustica". E' stata una 7 giorni a ritmo continuato, durante la giornata mare, sole e lavoro. La sera manifestazioni a carattere mondano, concerti, opera dei pupi, complessi yè-yè ed aste di disegni, gentilmente concessi da tutti i pittori, i cui proventi sono andati alla Pro Loco di Ustica..."

lunedì 8 aprile 2024

IL CAPITELLO DEGLI SCONGIURI NEL CHIOSTRO DI MONREALE

Il capitello detto "degli scongiuri"
del chiostro di Monreale.
Foto Ernesto Oliva-ReportageSicilia


I 109 capitelli scolpiti alla fine del secolo XII per le colonnine del chiostro di Monreale - opera di "cinque maestri, due più propriamente scultori, altri due scultori e marmorari insieme ed infine uno esclusivamente marmorario come egli stesso si qualifica" ( "La Sicilia", Collana Italia Romanica, a cura di Rodo Santoro, Jaca Book, 1986, Milano ) - rappresentano un'antologia di motivi allegorici che attingono all'arte romanica di varia origine: pugliese, campana, lombarda, provenzale, della Borgogna e dell'Ile de France. Molti degli episodi rappresentati da questi artisti della pietra riconducono ad episodi del Vecchio e del Nuovo Testamento. Altri, invece, riproducono scene di vita terrena, in cui spesso compaiono figure fantastiche o grottesche, caratteristiche dei bestiari medievali: un patrimonio di motivi che offrono un impegno di interpretazione che trasporta l'osservatore in un complesso universo di simboli. Uno dei capitelli più singolari è quello definito dalle guide di Monreale ai visitatori "degli scongiuri": vi si osserva la scena cruenta di un leone che azzanna un uomo. Alla loro destra, un compagno dello sventurato cerca di allontanare il predatore con un bastone. Dall'altra parte, un altro personaggio con la mano destra fa il gesto delle corna; con la sinistra, si tocca le parti intime, con l'evidente intento di sfuggire al pericolo grazie alla pratica di scongiuri ancor oggi largamente praticati in Sicilia. Il gesto delle corna sembra risalire ad un'epoca assai remota, quella preistorica: l'uomo di allora identificava nelle corna del toro e di altri animali selvatici l'origine stessa della forza necessaria alla sopravvivenza. Quello di toccare le parti intime riconduce invece al mito di Priapo - diffuso in origine nella città di Lampsaco, nell'Ellesponto - le cui dimensioni del fallo erano considerate fonte di capacità generativa e di vita. 



Per i monaci benedettini di Monreale, questo e gli altri capitelli del loro chiostro costituivano un ricchissimo campionario di motivi iconografici che li mettevano in contatto con i riferimenti simbolici religiosi e profani delle civiltà del mondo allora conosciute.   

venerdì 29 marzo 2024

LA PASSIONE DI CRISTO A SAN CATALDO

Foto
Ernesto Oliva-ReportageSicilia




 

domenica 24 marzo 2024

I CALENDARI DELLE RONDINI CHE RICORDANO LE PRIMAVERE DI NICOSIA

Fotografie di
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


"Sulla rocca a ovest della Cattedrale si eleva, maestosa, la chiesa del SS.Salvatore, originariamente realizzata sul finire del XII secolo. Affascina il suo portico esterno a colonne binate, la meridiana e il curioso Calendario delle rondinelle..."

Così nel saggio "Borghi di Sicilia" edito a cura di Fabrizio Ferreri ed Emilio Messina ( Dario Flaccovio Editore, Palermo, 2018 ) si legge uno dei pochi riferimenti letterari ai "Calendari delle rondinelle" visibili sulle mura del portico della chiesa del SS.Salvatore, edificio che guarda dall'alto l'intero comprensorio di Nicosia



Si tratta di curiosi registri trascritti su malta dove furono annotati gli arrivi delle rondini per gran parte del secolo XVIII: avvistamenti che segnalavano l'arrivo della primavera, in anni non ancora stravolti dai cambiamenti del clima. 



E' probabile che l'abitudine di lasciare traccia di queste date sia da mettere in relazione all'importanza rivestita dalla primavera per la rinascita delle attività agricole: una delle fonti di ricchezza per la cittadina dell'ennese che, secoli prima, i Normanni avevano ripopolato di "lombardi" provenienti dal Nord Italia

sabato 16 marzo 2024

IL PREZZO DEL NORD PER I SICILIANI DIVENTATI "STRANIERI SENZA PATRIA"

Partenza di emigranti siciliani da Palermo.
Foto tratta dalla rivista "Il Mediterraneo"
edita dalla Camera di Commercio di Palermo
nel marzo del 1970


Nel dicembre del 1960 Vallecchi Editore pubblicò a Firenze un libro-inchiesta nella collana "Mezzo secolo" curata da Carlo Bo, Enrico Emanuelli e Giancarlo Vigorelli. Il saggio, con una prefazione di Geno Pampaloni, portava il titolo "Il prezzo del nord": una non comune analisi degli scompensi sociali sofferti nelle regioni del Settentrione d'Italia da molti emigrati provenienti dal Mezzogiorno. Nella sola Milano, in quel 1960, se ne contavano 45.000 provenienti dalla Sicilia; si calcola che quelli diretti soprattutto in Lombardia, Piemonte, Liguria ed Emilia Romagna negli anni Sessanta siano stati 610.000. Negli ultimi dieci anni, l'Isola ha nel frattempo continuato a patire il fenomeno migratorio: sarebbero circa 200.000 i siciliani - per lo più giovani con il possesso di titoli di studio - che hanno trovato occupazione nel Centro-Nord d'Italia ed all'estero. Nel libro-inchiesta di quel lontano 1960, furono raccolte alcune testimonianze di emigrati siciliani incontrati a Milano, Torino e Pavone Canavese. Ne riportiamo tre, a ricordo delle sofferte storie di quelle centinaia di migliaia di isolani diventati allora - per usare la definizione di uno di loro - "stranieri senza patria":  

SEBASTIANO G., disoccupato a Milano

"Venni via dalla Sicilia nel 1951.Prima giunsi a Milano io e stetti da solo quasi un anno. Una volta che ebbi trovato lavoro come manovale e anche la casa feci venire su la moglie e i figli. In Sicilia lavoravo sempre ma non ero mai pagato, facevo il falegname. Da quando sono a Milano faccio un pò di tutto: il manovale e anche il facchino. Il mio maggiore guadagno però è quando faccio le forme per le scarpe, di quelle con la molla che tengono bene la scarpa. In tempo di fortuna riesco a guadagnare anche 600 lire al giorno. A Milano mi trovo come tanti altri compaesani miei. Siamo ormai gente senza patria e si vive dove ci stanno i soldi che ci permettono di vivere"



CARMELO M., anni 41, manovale edile a Milano

"Cosa sono venuto a fare nel Nord, cosa ci rimango a fare. Chiunque mi domanda questa cosa io penso che non ci so rispondere perché mica sono sicuro che mi sistemerò bene anche se qui ci stanno i soldi e ci sta la gente ricca che si diverte e va in giro tutto il giorno. Credete che non la veda? Sicuro che la vedo, lavoro in un cantiere in via Palmanova e vedo la gente che cammina e sale in macchina uscita da belle case. Lavoro in centro dove ci sta la metropolitana e vedo tutte le persone che vanno nei negozi e sono contenti e ridono. Io da quando sono venuto su ho sempre lavorato, prima lavoravo al mio paese anche solo cento o centoventi giornate all'anno. Qui ho lavorato tutti i giorni, meno i primi due mesi quando andavo in giro a chiedere a questo e a quello. Tutti i giorni. So fare bene il mio mestiere e il mio capo dice che deve ancora vederne di uomini come me che sanno impastare bene la calcina, e indovinare subito quale è il mattone da mettere e come lo si deve tagliare per farlo entrare giusto insieme agli altri. Ma anche se lavoro tutti i giorni non prendo mai più di quaranta o quarantacinquemila lire al mese. A Castelvetrano, da dove vengo, prendevo assai meno, certe volte nulla, come già dissi, ma laggiù la vita costava pochissimo e per mangiare si spendeva una miseria. Qui da voi tutto costa caro e il pane e la pasta, la carne la mangiano tutti e si vede che la comprano ma io non so come fanno quelli come me al cantiere e che guadagnano come me. Loro pure la comprano, e prendono soldi come ne prendo io. Mi chiedete se sono contento di essere qui. Non vorrei fare discussioni. Può darsi di sì e può darsi di no. I punti da vedere sono tanti. Certo che quando stavo a campagna al mio paese era una vita assai più misera. E certe volte non si mangiava che pane e fichi, e quando erano le volte anche pane solamente. Ma lì si era tutti uguali. Qui non si è tutti uguali e c'è gente stessa come me che mi dice "terrun", che mi guarda male anche alla mia famiglia. Cosa credete che anch'io non mi sia chiesto da solo se ho fatto bene a venire al Nord, o se ho fatto male. Me lo chiedo tante volte. Ma non so mai cosa rispondere. Forse rispondo che ho fatto bene, che qui almeno lavoro anche se non mi basta per vivere. Non mi importa se mi dicono terrone, se dicono della gelosia e delle donne. Non ci dò risposta e non mi preoccupo. Ma è un'altra cosa quella che mi fa pensare. E' se potrò continuare a vivere così. Io dico che non si può vivere sempre male, che non ci si riesce. Lavorare o non lavorare, avere una busta paga o non averla, che differenza c'è se poi i soldi non ti bastano? Allora lavorare è come non lavorare. Qui ci sta la verdura che costa anche 100 lire l'etto. E l'uva costa 500 lire al chilo quando è la prima stagione. E anche i fichi costano tanto. Qui uno che guadagna quello che guadagno io è come se al mio paese non lavorasse. Fa quasi la stessa vita. Mia moglie non può aiutarmi perché è malata. Ecco come è la mia vita, sempre uguale da quando sono nato. Si può fare qualcosa per cambiarla? Io ci provo, più che lavorare non posso fare. Ma vedo che c'è troppa ingiustizia in giro. Chi ha tutto e chi ha niente. Io sono di quelli che non hanno niente, e se domani mi ammalassi, o cadessi da una scala col carico di mattoni sulle spalle? Chi pensa poi a me e ai miei? Non abbiamo mai avuto soldi da parte. I miei soldi finiscono subito, nel mangiare e quel poco per vestirci e l'affitto. Abito in via Forze Armate, in quella via ci stanno altri due di Castelvetrano e anche loro sono come me ma non ci pensano perché sono sempre contenti a vanno bere all'osteria..." 


  

GIUSEPPE G., 57 anni, lattaio a Milano

"Io vengo da Piazza Armerina, in provincia di Enna, e sono a Milano dal 1925. Al mio paese facevo il calzolaio, non guadagnavo molto anche se avevo il lavoro assicurato e così sono venuto al Nord, in cerca di fortuna. In poche settimane trovai casa e lavoro, dapprima come calzolaio e poi potei acquistare questo negozio e da 7-8 anni faccio il lattaio. Io sono venuto a Milano molto giovane e perciò mi sono adattato senza fatica al nuovo tipo di vita che affrontavo; però, se non avessi avuto fortuna, sarei senz'altro tornato al mio paese. Adesso, io ho là parenti che sono poveri e vivono come delle bestie e vorrebbero venire a Milano: Però se nel Sud ci fosse da lavorare, io ci tornerei e credo che nessuno verrebbe via, perché là il clima è migliore e il paese è più bello e poi là ci sono anche i parenti e gli amici: Ma siccome giù non c'è più niente da fare, non penso nemmeno più a ritornare in Sicilia. Qui invece ci sono molte possibilità di lavoro, e non è nemmeno vero che la gente ce l'abbia con i meridionali. Io qui sto bene, ho la famiglia, gli amici, molti dei quali miei compaesani che come me si sono ben sistemati al Nord ed è talmente tanto tempo che sono qui che quasi mi sento più settentrionale che meridionale"  

mercoledì 13 marzo 2024

FATICHE E SOFFERENZE DEI SALINARI DI TRAPANI

Salinari al lavoro a Trapani.
Foto tratta dalla rivista
"Vie Mediterranee"
edita da Palermo nel settembre del 1959


Si deve a Guido Piovene ed al suo "Viaggio in Italia" ( Arnoldo Mondadori Editore, 1957, Milano ) una non comune descrizione dell'organizzazione del lavoro allora adottata nella raccolta del sale a Trapani. Prima di lui, la narrazione delle saline da parte di viaggiatori e saggisti di passaggio a Trapani si era limitata a sottolineare la suggestione del paesaggio, ignorando la durissima opera dei salinari. Daniel Simond, ad esempio, pochi mesi prima aveva scritto in "Sicilia" ( Edizioni Salvatore Sciascia, Caltanissetta-Roma, 1956 ):

"Il sole ed il vento agevolano l'evaporazione, trasformando queste lagune in altrettante tovaglie abbaglianti di neve. Gli operai, a loro volta, ammucchiano il sale in coni cristallini. Tutto questo candore, aggiunto al volo dei gabbiani, alle vele che solcano il vicino mare, al bianco delle case che in esso si specchiano, dona a Trapani un aspetto singolarissimo..."



Ben più attento alle condizioni di impiego degli operai impegnati nelle saline è il racconto di Piovene:

"I lavoratori del sale sono divisi quasi in due caste distinte, i trapanesi addetti alle saline tutto l'anno, e gli stagionali, braccianti agricoli provenienti dalle campagne circostanti per la raccolta. L'andamento di una salina è molto simile del resto a quello di un'azienda agricola, con un fattore responsabile, che prende il nome di curatolo. Fissi o stagionali che siano, i lavoratori del sale devono possedere una grande robustezza fisica, ed essere immunizzati per abitudine dagli effetti nocivi.



Infatti il sale si trasporta per lunghi tratti a spalla, chiuso in grossi sacchi e di corsa, perché il compenso è a cottimo; e l'acqua delle salamoie, che corrode e brucia, copre di piaghe i piedi degli inesperti, come in tempo di guerra coi lavoratori avventizi..."

domenica 10 marzo 2024

LO SPOPOLAMENTO DI POLLINA, IL "PITTORESCO BORGO" DI CESARE BRANDI

Scena di vita quotidiana a Pollina
negli anni Sessanta dello scorso secolo.
Fotografia tratta dalla rivista
"Palermo", edita dalla Provincia di Palermo
nel giugno del 1965


"Pittoresco borgo" definì Pollina lo storico dell'arte Cesare Brandi, dando lustro al piccolo comune delle Madonie abbarbicato in piena solitudine a 760 metri sul livello del mare. Qui la torre del castello venne utilizzata nel 1548 dal matematico ed astronomo messinese Francesco Maurolico per l'osservazione del cielo e la correzione delle tavole Alfonsine, le Effemeridi astronomiche del suo tempo.

Tre secoli dopo, Vito Amico lo descrisse come un paese "fondato nella vetta di un monte, che soprastando sugli altri alla spiaggia aquilonare della Sicilia, sovraneggia a tutta la regione ed all'opposto mar Tirreno..."

Insieme a Castelbuono, Pollina ha conservato per lungo tempo il primato siciliano nella produzione della manna, un prodotto che sino alla vigilia del secondo dopoguerra veniva coltivato in una ventina di comuni del palermitano e del trapanese. Come tanti altri centri montani, oggi Pollina soffre gli effetti dello spopolamento, qui accentuato dallo sviluppo turistico e commerciale del sottostante centro abitato di Finale di Pollina, lungo la statale 113. Nel giugno del 1993, uno sciame sismico provocò nel vecchio centro storico il crollo di alcune palazzine e seri danni al patrimonio monumentale: una calamità naturale che accrebbe allora il numero di famiglie che decisero di abbandonare il "pittoresco borgo" descritto anni prima da Brandi

mercoledì 6 marzo 2024

L'ELOGIO DEL FICODINDIA DEL SIGNOR BUCAN

Foto
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Nel corso del suo viaggio in Sicilia, nell'estate del 1891, lo scrittore francese René Bazin ebbe modo di notare la diffusione del ficodindia: una pianta capace di crescere spontaneamente nei luoghi più inaccessibili ed imprevedibili di campagne e città. Da un ex ufficiale francese - il signor Bucan, procuratore generale dei beni in Sicilia del duca d'Aumale - Bazin apprese le virtù di questa specie botanica e dei suoi frutti, ancora più gustosi se mangiati dopo una pioggia: 

"Con una ventina di fichidindia, il valore di due soldi forse, e un pò di pane - si legge nell'opera di Bazin "Sicilia. Bozzetti italiani" ( Edizioni e Ristampe Siciliane, Palermo, 1979 ) - un siciliano trova la maniera di fare la prima colazione, di pranzare, di cenare e di cantare nell'intervallo. Sono freschi, sono sani. Avvolti in carta sottile, si conservano fino ad aprile. Non è quindi un frutto prezioso? L'albero non lo è di meno. Difende i nostri vigneti e i nostri campi di grano come nessun roveto e barriera lo può fare. La pala, affettata, viene data al bestiame in inverno. I rami malati servono da lettiera. Nulla si perde del ficodindia..."

LA PRIMA PIETRA DI GIBELLINA NUOVA

La posa della prima pietra
di Gibellina Nuova.
Fotografia tratta da "Il Mediterraneo",
opera citata


La mattina del primo febbraio del 1973 - cinque anni dopo il terremoto che aveva distrutto il vecchio paese di circa 6.000 abitanti - il sindaco di Gibellina Ludovico Corrao pose la prima pietra e sparse mucchi di terra nel luogo in cui ebbe inizio la costruzione del nuovo centro abitato. Il sito era quello di contrada Salinella, a distanza di 18 chilometri dalle rovine dell'originaria Gibellina. L'evento venne immortalato dallo scatto riproposto nel post e tratto dalla rivista "Il Mediterraneo", edita dalla Camera di Commercio di Palermo nel febbraio del 1973. Nella didascalia che accompagnò allora la fotografia si legge:

"Corrao ha sottolineato che la manifestazione, indetta dal consiglio comunale, che ha approvato il piano di opere per il trasferimento totale dell'abitato, non vuole essere soltanto un simbolo ma un momento di lotta. Ha annunciato inoltre che l'elaborazione del piano di attuazione avverrà in stretto contatto e collaborazione con l'amministrazione comunale, quale espressione della volontà popolare" 

domenica 25 febbraio 2024

LA PANCHINA DI LEONARDO SCIASCIA A TERRASINI

Fotografie
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


A Leonardo Sciascia sono state dedicate in passato due emissioni filateliche: la prima nell'ottobre del 2010 - ad opera di Poste Italiane - l'altra nel novembre del 2021, nel centenario della nascita, da parte del Ministero delle Imprese. Nel 2019, una rappresentazione dello scrittore di Racalmuto è stata ritratta all'interno di un francobollo dipinto su una delle cinque "panchine letterarie" realizzate da artisti locali a Terrasini. Quella dedicata a Sciascia - le altre omaggiano Andrea Camilleri, Rosa Balistreri, Giuseppe Tornatore e Giovanni Meli -  è opera di Maria Maniaci. L'opera che ritrae Leonardo Sciascia con alle spalle una rappresentazione della Sicilia è rivolta verso il mare e la costa di Cala Rossa: circostanza che avrebbe fatto sorridere lo scrittore agrigentino, siciliano "terragno", cresciuto e rimasto legato, come molti suoi conterranei, all'entroterra familiare delle zolfare. 



Del rapporto dei siciliani con il mare, Sciascia così scrisse nelle famose pagine del saggio "Rapporto sulle coste siciliane" ( "La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia", Einaudi, 1970, Torino ):

"... E come lo zolfataro altro non era che il contadino strappato alla campagna, in effetti il marinaio altro non è che il contadino costretto al mare dalla necessità: il contadino che più non ritrova alle sue spalle la terra da coltivare, e ha davanti il mare..."

LE CASE DI PANAREA DI IVAN MOSCA

 


domenica 11 febbraio 2024

L'"ARTE DI MARE" DEI TONNAROTI DI SCOPELLO

Mattanza a Scopello.
Fotografia tratta dal saggio
"Le forme del lavoro.
Mestieri tradizionali in Sicilia"
,
edito nel 1986
dall'assessorato regionale ai BB.CC


Le prime notizie documentarie sull'attività della tonnara di Scopello risalgono al 1312. Da quella lontana epoca e sino al 1980, l'attività di pesca dei tonni in questo comprensorio tirrenico del trapanese ha coinvolto generazioni di raisi, tunnaroti, cabbanisti, capiguardia, massari, mascaioli, muciari, mastri calafati e d'ascia, ri bagghiu e ri camparia e di calafato; ed ancora, di mattanzari, parascarmeri, portancoddu, rimurchieri, runchiaturi, sciabbicoti, vardiani, vasciddari, vintuteri, vuttari e semplici "abbintizzi". 



Alcuni di questi artefici della pesca della tonno si tramandarono nei secoli il mestiere di padre in figlio. Più il ruolo specifico richiedeva abilità ed esperienza - ha scritto Rosario Lentini nel saggio di Vincenzo Consolo "La pesca del tonno in Sicilia" ( Sellerio, Palermo, 1986 ), opera da cui abbiamo tratto il glossario - "più la prestazione lavorativa si connotava come "arte" di mare..."



AUTOSTRADA PALERMO-CATANIA, SINTESI DI UNA GENESI SOFFERTA

Cantieri per la costruzione
dell'autostrada Palermo-Catania.
Le fotografie del post
sono tratte dalla rivista
"Sicilia Tempo" del luglio 1970


"Autostrada, dunque. Su questo, i siciliani sono tutti d'accordo. Quando però bisogna decidere da quale parte convenisse cominciarla, sono sorti i contrasti. Palermo voleva cominciare dalla sua parte, e i catanesi temevano che, dopo metà dei lavori, i fondi ( ai quali avrebbero contribuito ) si esaurissero; col risultato che Palermo avrebbe pur sempre avuto un pezzo di autostrada, e attirato insediamenti industriali, mentre Catania sarebbe rimasta al punto di partenza... Il ritardo nella costruzione dell'autostrada danneggia anche le province intermedie; adesso l'ordine cronologico è stato concordato, e l'opera dovrebbe essere finita entro due anni, ma c'è di mezzo l'ANAS, e speriamo che i loro numi tutelari ( arabi, greci e normanni ) assistano i siciliani..."

Così nel novembre del 1965 il giornalista Piero Ottone raccontò la "deprecabile polemica" che negli anni precedenti in Sicilia aveva contribuito a rallentare l'iter per la progettazione e l'inizio della costruzione dell'autostrada Palermo-Catania. Sei mesi prima - il 15 maggio - la campanilistica battaglia per stabilire il luogo dell'avvio dei cantieri si era conclusa a favore della capitale dell'Isola. Da qui, i bulldozer cominciarono un'opera il cui costo iniziale venne indicato in 57 miliardi e 203 milioni di lire: 24 miliardi a carico dello Stato, 29 della Regione, il rimanente della Cassa per il Mezzogiorno. Il prologo all'inizio dei lavori risaliva tuttavia a molti anni prima. 





Nel 1949 la Regione aveva infatti dato vita ad un Consorzio per la costruzione dell'autostrada, con il compito di individuare un percorso che attraversasse l'interno della Sicilia, ricalcando quello delle strade consolari romane. Dieci anni dopo - il 20 gennaio del 1959 - l'ANAS conferì alla Società Italiana per le Strade Ferrate l'incarico di redigere un progetto di massima. Al termine di una lunga serie di trattative con la Regione - conclusesi il 28 agosto del 1962 dopo l'esame di cinque diversi itinerari - il piano fu accettato e cominciò assai lentamente a prendere forma la mattina di quel 15 maggio del 1965, con una progettazione esecutiva affidata alla Direzione dei Lavori dell'ANAS. Sin dall'inizio, il dualismo Palermo-Catania che aveva gravato sull'ideazione dell'intero progetto fu motivo di polemiche fra opposte fazioni amministrative e burocratiche dell'Isola. Nei primi quattro anni e mezzo di attività dei cantieri, furono portati a termine solo trenta chilometri di autostrada, ventuno dei quali nel palermitano. Caddero così le premesse per intitolare la futura arteria viaria "Autostrada della Conciliazione", come prospettato, pare, da alcuni politici regionali.  Oltretutto, l'impresa per congiungere Palermo a Catania si rivelò subito assai complessa da un punto di vista tecnico, tale da spostare la data presunta di termine dell'opera dal 1969 al 1972. Nel corso dei vari sopralluoghi emersero perplessità sulla possibilità di tracciare l'autostrada secondo il progetto stabilito, soprattutto a causa della presenza di complessi movimenti franosi. Una perizia affidata al Servizio Geologico del Ministero Industria e Commercio stabilì infatti "l'assoluta impossibilità" di realizzare l'opera, individuando la maggiore criticità per i lotti 11,12 e 13, progettati su "terreni caoticamente frammisti in profondo scompaginamento". Si trattava del tragitto Scillato-Tre Monzelli, indicato come "la parte più problematica e difficile di tutto l'intero tracciato della Palermo-Catania": una valutazione corretta, come dimostrato dal cedimento del viadotto Himera, nell'aprile del 2015, a causa di un movimento franoso che compromise alcuni piloni. Fu grazie ad alcune varianti al progetto iniziale ed al coinvolgimento di più aziende edili  - dalla Lodigiani alla Sud Strade, dalla Farsura alla Sacug, ed ancora Cifa, Gozzani, Cogeco, Sogene, De Lieto ed Incisa - che l'ANAS riuscì ad accelerare i tempi di completamento dell'autostrada. Nel novembre del 1971 fu aperto al traffico il tratto Motta Sant'Anastasia-Gerbini, in territorio catanese; nel febbraio del 1973, terminarono i cantieri fra Scillato ed Enna. Gli ultimi 26 chilometri necessari per collegare Palermo a Catania furono finalmente completati nel 1975




I costi finali dell'opera sfiorarono i 250 miliardi di lire, ben oltre i 57 preventivati dieci anni prima. Oggi - a quarant'anni dal suo sofferto completamento - l'autostrada Palermo-Catania dimostra tutta la sua età, testimoniata dai numerosi cantieri di ristrutturazione che ne rallentano la viabilità soprattutto nei tratti delle province di Palermo, Caltanissetta ed Enna. Dopo anni di polemiche fra ANAS e Regione, quest'ultima ha commissariato la gestione degli interventi. I più recenti, in ordine di tempo, hanno riguardato la sostituzione dei giunti su entrambe le carreggiate del viadotto Ponte Cinque Archi, eliminando così uno dei restringimenti che rallentano ancora la percorrenza fra le due città che si contrapposero sulla genesi dei primi cantieri dell'autostrada.  

lunedì 5 febbraio 2024

LE TROPPE INCOGNITE CHE GRAVANO SULL'AGRICOLTURA DEL BELICE

Contadini ed allevatori
del Belìce.
Fotografie
Ernesto Oliva-ReportageSicilia 


Per il Belìce, l'agricoltura, la pastorizia e l'allevamento degli animali costituiscono da sempre la più importante forma di economia: l'unica possibile anche dopo la devastazione materiale, sociale e demografica seguita al terremoto del gennaio del 1968. Migliaia di famiglie di un territorio che comprende le province di Palermo, Trapani ed Agrigento vivono grazie al lavoro sui campi, che si basa ancora sui saperi tramandati dai nonni e dai genitori. 



Questa identitaria espressione di conoscenze e di sussistenza economica rischia da qualche anno di essere compromessa dagli eventi naturali e dalle scelte produttive a più ampio respiro territoriale. Siccità, innalzamento delle temperature, carenze infrastrutturali - strade ed opere idrauliche per l'irrigazione - rincari dei costi di produzione e crollo dei prezzi di vendita delle colture, concorrenza dei prodotti extraeuropei ed interessi delle grandi aziende alimentari stanno soffocando l'attività dei piccoli produttori belicini. 



Si chiedono rimedi alla politica - regionale, nazionale ed europea - e si manifesta sulle strade, percorse da colonne di trattori, come accaduto oggi a Santa Margherita del Belìce. Il timore è che dopo i danni provocati dal terremoto, fra qualche anno gli effetti di questa crisi produttiva possano dare il definitivo colpo di grazia ad un pezzo di economia e di società siciliana.  

venerdì 2 febbraio 2024

LA SCOPERTA DELLA SURA DEL CORANO DI CALATAFIMI

Fotografia
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Prima dell'anno Mille, il territorio trapanese di Calatafimi era punteggiato da casali islamici e magazzini agricoli dove la preghiera era pratica quotidiana. E' da questa area che potrebbero provenire i frammenti di una pergamena di pecora manoscritta con caratteri cufici che la traduzione riconduce ad una Sura del Corano intitolata a "Le Api", che celebra la bellezza della creazione:

"... Muli e asini v'ha dato perché li cavalchiate, ornamento bello, e sta creando ancora cose che voi non saprete... E' Dio che vi mostra la via e c'è chi se ne allontana! Ma, se avesse voluto, v'avrebbe certo guidati tutti assieme. E' lui che fa scendere acqua dal cielo per voi, e ne bevete, e ne crescono gli alberi fra i quali spingete a pascolare gli armenti e ne fa crescere per voi il frumento..." 

Secondo recenti studi delle Università di Milano e di Cambridge, questa pergamena - conservata all'interno dell'Archivio Diocesano di Trapani -  sarebbe la più antica testimonianza manoscritta del periodo arabo in Sicilia. Singolare è la storia del suo ritrovamento, avvenuto nel 1984, ma compreso per la sua importanza - grazie a moderni sistemi di studio - soltanto negli ultimi mesi. La pergamena era infatti stata riutilizzata nel 1542 come copertina di un registro di annotazioni matrimoniali in una chiesa di Calatafimi, poi depositato nel fondo dell'Archivio Diocesano di Trapani. 






Nel 2007 un riordino dei 5.000 registri ecclesiastici custoditi nell'Archivio aveva suscitato l'interesse degli studiosi per il documento, la cui datazione è ora stimata fra il IX ed il X secolo dopo Cristo: ipotesi che potrebbe trovare definitiva conferma da nuovi esami di laboratorio.  La pergamena - che insieme ai versi del Corano conserva due scritte in latino volgare tuttora oggetto di studio - attende nel frattempo un'opera di restauro, per conservarne l'indubbio fascino evocativo del testo vergato in caratteri cufici.