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martedì 21 novembre 2017

TEORIA E PRATICA DEL PARCHEGGIO SICILIANO SECONDO FRANCINE PROSE

Piazza Politeama a Palermo
in una fotografia di Publifoto
pubblicata nel 1961 dal TCI su "Sicilia"
per la collana "Attraverso l'Italia"
"In Sicilia, il parcheggio riflette la differenze che esiste tra superficiale ed essenziale.
In teoria ci sono i cartelli di divieto, con l'immagine dei carri attrezzi, che ammoniscono gli automobilisti a non parcheggiare, ma in pratica i siciliani lasciano le auto dove vogliono: ognuno conosce la macchina dell'altro, vigili compresi, e se un'auto blocca l'uscita di un portone o di un garage, il proprietario viene immediatamente rintracciato"

Alla scoperta delle tracce lasciatevi da Leonardo Sciascia, Francine Prose si ritrovò qualche anno fa a dover cercare a Racalmuto anzitutto un parcheggio per la propria auto.



Fu così che in "Odissea Siciliana" ( Feltrinelli, 2004 ) la scrittrice americana evidenziò uno degli aspetti più critici del rapporto fra automobilisti dell'Isola e la guida dei loro veicoli: l'abitudine di parcheggiare ovunque la comune logica e la normale educazione indurrebbero a farne a meno.
Il parcheggio "selvaggio" - capace di raddoppiare o triplicare le file di sosta, di occupare le strisce pedonali e di ignorare i passo carrabile - è la naturale filiazione dell'abitudine al "traffico" palermitano di benigniana memoria.



A differenza di quanto avrebbe fatto gran parte degli automobilisti siciliani, Francine Prose risolse la difficile ricerca di un parcheggio a Racalmuto in maniera divertita e risoluta: 

"Dopo aver girato per trenta minuti che sembrano un'eternità, decidiamo di rinunciare.
Ci siamo fatti un'idea della città e basta.
Facciamo marcia indietro, e quando arriviamo sulla nazionale siamo presi da un senso d'euforia, come ragazzini che abbiano marinato la scuola..."   


venerdì 17 novembre 2017

IL PITTORE DELL'"APINO" NELLA BOTTEGA AL PAPIRETO

Mariano Porcelli durante le ultime fasi di decorazione
di un furgone Ape destinato alle cerimonie nuziali.
Le fotografie sono di ReportageSicilia
L'"apino" poggia con una sola ruota a terra.
Un cavalletto ne innalza il cassone decorato di fresco con le scene  cavalleresche dei vecchi carretti; l'altezza è quella giusta da permettere ad un giovane pittore di rifinire la composizione con piccoli fregi lineari. 
La scena si svolge a Palermo, dinanzi alla baracca di uno dei venditori di vecchi oggetti nel mercato del Papireto.
L'ingresso è sormontato da un'impolverata stella cometa natalizia;  all'interno del deposito di legno e lamiera, si scorgono spalliere di letto in ottone, cornici prive di tela, decine di ceramiche, un paio di cassapanche. 




Mi avvicino con curiosità: scambio uno sguardo di saluto con un anziano che osserva il lavoro del pittore - disegni e colori dal bel dinamismo e affatto grossolani - ed estraggo dallo zaino la macchina fotografica.
Gli scatti del post sono il frutto di quest'incontro fortuito.
L'artista dell'"apino" si chiama Mariano Porcelli, ha 36 anni e - mi spiega - dipinge dall'età di otto.
La sua storia appartiene ad una cultura popolare palermitana quasi del tutto scomparsa. 
Nipote di Mariano Militano - un spazzino comunale fondatore mezzo secolo fa a Palermo di un piccolo teatrino dell'opera dei pupi, vicino vicolo Ragusi - Porcelli ha perfezionato la sua tecnica osservando da vicino il lavoro dei pittori di carretti: i Ducato di Bagheria, Fiore di Partinico, i Picciurro, i Cardinale.




Da ciascuno ha appreso qualcosa, vincendo la loro ritrosia e  gelosia nei confronti di quei "segreti" di bottega su quali indugiavano gli occhi e le orecchie del giovane apprendista.
Dopo avermi spiegato che la decorazione dell'"apino" gli è stato commissionata da una persona che lo utilizzerà "per fare matrimoni", Mariano Porcelli mi invita all'interno della baracca.
Superati gli oggetti ammassati in ogni angolo, sulla parete di fondo è distesa una grande tela su cui sta finendo di riprodurre l'architettura di Porta Nuova.



L'opera servirà da quinta scenografica per Angelo Sicilia, promotore a Palermo di un Teatro popolare delle marionette d'impegno sociale ( dalle storie degli omicidi di mafia dei sindacalisti uccisi nel secondo dopoguerra a quella di Peppino Impastato ).
Mariano Porcelli dipinge con i motivi della tradizione - "ma il mio stile è personale", sottolinea con orgoglio - oggetti di diversa natura: quadri, pannelli, mobili, insegne.



Spera presto di trasferire il suo laboratorio dalla baracca del Papireto in corso Vittorio Emanuele, strada che da qualche anno sta vedendo rinascere le attività alcuni artigiani.
Se il progetto avrà buon fine, Mariano Porcelli tornerà indietro nel tempo: agli anni in cui, nel vicino teatrino di vicolo Ragusi, Mariano Militano raccontava le epiche storie dei suoi pupi.




domenica 12 novembre 2017

IL SOGNO DI UNA SPOSA AMERICANA A CINISI


"Cinisi.
Questo signore in abito matrimoniale da trent'anni spera inutilmente di raggiungere la sua fidanzata a New York".

Nell'ottobre del 1957, questa breve didascalia illustrò sul numero uno della rivista palermitana "Il Ciclope" la fotografia riproposta da ReportageSicilia.
Autore dello scatto fu Vittorugo Contino, nato a Palermo nel 1925 ed all'epoca già affermato operatore di ripresa e fotografo di scena per i maggiori registi italiani: da Rossellini a Pontecorvo, da Antonioni a Rosi, da Caprioli a Zampa.
Discendente di una nota famiglia di argentieri, Contino preferì lasciare la Sicilia per frequentare a Roma il Centro Sperimentale di Cinematografia: un'esperienza che lo avrebbe portato a dedicarsi anche al documentario giornalistico, dall'Algeria al Vietnam.
Nel luglio del 2016, alcune fotografie di Vittorugo Contino sono state esposte al "Gibellina Photoroad".
L'immagine realizzata sessant'anni fa a Cinisi è un ritratto che potremmo definire - per l'aspetto bizzarro e patetico insieme del protagonista - di ispirazione cinematografica: per caratterizzazione del soggetto e per la storia raccontata dal singolare travestimento.



BRANCATI E IL CONFINE NISSENO TRA IRONIA E MALINCONIA ISOLANA

Mattonella maiolicata a Mazara del Vallo.
Fotografia ReportageSicilia
"Brancati sosteneva che i siciliani di costa orientale, i catanesi e i siracusani, conoscessero l'ironia o, anche, una comicità grossolana: la loro qualità principe sarebbe quella di
'sapere essere insieme personaggi e autori di commedie
L'ironia tempera gli errori'
I siciliani occidentali, fra Agrigento e Palermo, gli sembravano invece privi di ogni capacità di sorriso, e più che mai disposti a elucubrare, a ragionare.
Il confine fra i due atteggiamenti verrebbe a situarsi proprio a Caltanissetta, 'sulle nubi', fra Enna e Nissa:
'Il senso del ridicolo abbandona proprio qui la littoria che da Catania vola a Palermo.
Se il sorriso è una luce, la costa occidentale della Sicilia può dirsi perfettamente al buio'
Nissa, dunque, è la città dove sentimento del comico e sua assenza sfumano; vola la littoria, e perde il riso che l'aveva mossa alla volta di Palermo.
Dalla porta occidentale, proprio da Palermo, Brancati vedeva entrati in Sicilia
'gli arabi, i cavilli, le sottigliezze, l'io e il non io, la malinconia e i musaici'
Dalla porta orientale, da Catania,
'i fenici, i greci, la poesia, la musica, il commercio, l'inganno, la buffoneria e il comico'
A Nissa fanno conflitto sottigliezza e buffoneria, malinconia e inganno.
Arbitro di tutto questo - appunto suo escogitatore - Brancati stesso, un arbitro comico: e la sua invenzione, per pura pazzia narrativa, diventa verità"

ENZO SICILIANO, 
introduzione a "Sogno di un valzer" di Vitaliano Brancati,
Bompiani, 1982

venerdì 10 novembre 2017

LO SCONOSCIUTO GENIO LETTERARIO DI EZIO D'ERRICO

Una rara immagine dell'agrigentino Ezio D'Errico
tratta dal quotidiano "Stampa Sera" del 23 luglio del 1963.
Le altre fotografie di Gangi sono di ReportageSicilia
Pittore astrattista, scrittore di gialli, giornalista, scrittore e commediografo dell'assurdo: la statura artistica e le esperienze culturali di Ezio D'Errico, nato ad Agrigento il 5 luglio del 1892 e morto a Roma il 20 aprile del 1972, sono ancor oggi apprezzate da pochi cultori di un personaggio dimenticato soprattutto in Sicilia ( anche la notizia della sua morte venne ignorata o meritò poche righe sui quotidiani isolani ).
L'oblio nella terra di origine si deve principalmente al fatto che D'Errico lasciò Agrigento in giovane età, esprimendo la sua varia vena artistica e letteraria fra Parigi, Torino e Roma.
Eppure, Ezio D'Errico - che si definiva "un europeo esiliato in Italia" - ha meritato giudizi di assoluta eccellenza fra i pochi cultori della sua produzione.
Andrea Camilleri ne ha lodato la "genialità rinascimentale", mentre Martin Esslin - affermato critico teatrale anglo-ungherese - lo indicò come "unico autore italiano, dopo Pirandello, che abbia raggiunto una levatura nel teatro contemporaneo di livello internazionale".



Un simile giudizio procurò all'autore agrigentino fama e riconoscimenti soprattutto all'estero: Germania, Inghilterra, Francia e Paesi sudamericani.
Ad accrescere l'eccezionalità del personaggio, D'Errico è stato capace di contraddire il dato secondo cui i maggiori scrittori dell'Isola  sono stati incapaci di porre al centro delle proprie opere luoghi e tematiche non siciliane.
Una traccia della vastissima produzione letteraria di Ezio D'Errico  - quasi una preziosa pepita, rivelatrice anche della sua ispirazione artistica - si trova nelle pagine della rivista "Sicilia" edita nel settembre del 1954 dall'Assessorato Regionale al Turismo e Spettacolo.
Il racconto di un incontro a Gangi con Don Calcedonio Spitaleri - irrazionale figura di guaritore, agronomo e singolare esperto di cultura siciliana - offre a D'Errico una rara occasione di scrivere della sua terra. 
Quasi in omaggio alla dichiarata propensione dell'autore per i sortilegi, il testo prende il titolo di "Vita segreta della Sicilia": 

"Molti anni fa, durante una delle mie tante visite, mi trovai a Gangi, un paese arroccato su uno dei due grandi contrafforti di quella spina dorsale rocciosa che parte da Messina, e a Nicosia si biforca per dar più forza all'ossatura dell'Isola.
Quivi conobbi Don Calcedonio Spitaleri, detto 'u prufissuri', il cui biglietto di visita si fregiava, oltre che di una stemma nobiliare, di questa dicitura:

'Astruologo, Erborista e Magnetizzatore di armali' ( Animali )



Don Calcedonio commerciava in grasso di marmotta, radici ed erbe medicamentose, ipnotizzava vecchi galli e guariva le pecore dalla morva.
Questo, ufficialmente.
In separata sede dava consigli su questioni di amore e di interesse, sulle colture agricole più convenienti in relazione alle annate, alle eclissi di sole e di luna, alle stelle e ai venti.
Quando entrava in confidenza con uomini di cultura, si abbandonava a disquisizioni storico-filosofiche del più alto interesse per chiunque avesse uno spirito aperto alle libere speculazioni mentali.
Fu appunto durante uno di questi conversari, ch'io mi feci finalmente un concetto chiaro del rapporto, insospettato fino allora, intercorrente fra le quattro stagioni e le dominazioni straniere in Sicilia.




'Aviti a sapiri', mi disse Don Calcedonio, che nei tempi antichi, quando la Sicilia si chiamava Sicania, ed era attaccata al continente, c'era un'unica stagione calda lungo le coste e fredda al centro, per causa della circolazione interna del vulcano dell'isola Giulia, che era un vulcano marino mentre l'Etna era una montagna e buttava soltanto acqua, perché tutti i fiumi uscivano dai suoi fianchi.
Questa unica stagione si conservò invariata durante la dominazione dei Fenici, dei Cartaginesi e dei Romani.
Nel Medioevo, con l'arrivo degli Arabi, prese a rinforzare lo scirocco ( Don Calcedonio diceva scilocco ) e perciò molte regioni, che prima erano a clima temperato, diventarono più calde, mentre gli acquazzoni si fecero più radi.
Insomma, con gli Arabi si cominciò a parlare di estate, per distinguere questa stagione da quella delle piogge, finchè all'arrivo dei Normanni, caldo e freddo si alternarono con una regolarità che permise di differenziare l'inverno dall'estate.
Come salì al trono di Napoli Carlo d'Angiò, e nell'Isola giunsero i Provenzali, si delineò una stagione di mezzo, leggera e volubile, elegante e prepotente come i 'francisi', e fu la primavera.
Ma si dovette aspettare la dominazione spagnola di Pietro d'Aragona, per sentir parlare di una quarta stagione, languida e malinconica, che fu poi denominata autunno.




Le spiegazioni di Don Calcedonio Spitaleri, molto più pittoresche e fiorite di quanto non abbia potuto rendere nella mia versione italiana, mi convinsero subito, per l'assenza totale di logica a contrasto con la loro alta significazione poetica.
Don Calcedonio parlava lento, fissandosi la punta delle scarpe, e solo ogni tanto le sue palpebre convesse come quelle di un gufo, si alzavano, scoprendo occhi d'antracite la cui fulgida fissità faceva cadere in catalessi i galli e turbava le ragazze.
Intanto le sue dita gialle di nicotina si agitavano a mescolare le stagioni come un mazzo di carte da gioco.
Qui si conviene ch'io confessi al lettore la mia atavica diffidenza per le scienze esatte, e la mia vocazione per le intuizioni fantastiche lampeggianti nelle zone misteriose dell'inconscio.
L'istinto che regola la vita degli animali, i sogni premonitori che anticipano il futuro, il presentimento di un ciclo biologico che ci riporta infinite volte sulla Terra, e l'eternità sferica del tempo-spazio, sono state sempre per me le basi di un sistema personale, che solo in determinate occasioni fingo, per opportunità, di ricoprire con la vernice di una cultura scolastica atta a non allarmare i benpensanti.
Di qui la mia inclinazione irresistibile per le allegorie, per l'ermeneutica, per i simboli e per i sortilegi.
Di qui il mio amore per le bestie, che non possono essere capite da chi non ha il senso della poesia e del mistero, e la mia diffidenza per gli uomini pratici, furbi, ordinati, logici e intransigenti che, sia detto per inciso, furono certamente scacciati dal Paradiso terrestre per avere voluto distinguere il bene dal male, in contrasto al saggio divieto di assaggiare i frutti dell'albero della conoscenza.



Naturalmente, l'esser nato nell'Ottocento ( secolo nobilissimo preso a gobbo con troppa faciloneria dagl'irriverenti giovani d'oggi ), ha colorito l'immagine che mi sono fatta delle quattro stagioni siciliane, di un romanticismo che non ha niente a che fare coi Saraceni e coi Provenzali , coi Normanni o con gli Spagnoli.
Sarà perché ho vissuto nell'Isola ai tempi della prima Targa Florio, quando si andava soltanto in carrozzella ( costava meno che andare a piedi ) e a Palermo Delagrange starnazzava col suo catafalco di tela e di bambù sui prati della Favorita, che la primavera siciliana veste per me i panni della Gigi di Colette, e perde la testolina fra i muri freschi dei primi villini di Mondello, sulle ali di una romanza di Tosti raschiata dal grammofono a tromba.
Primavera col diploma di Magistero, il ciclo di tulle cilestrino e rosa confetto, e i fili del telegrafo pronti per le rondini.
Primavera piccolo borghese, più Capuana che Verga, più vaniglia che zagara, più Gasparina Torretta che Santuzza.
La primavera siciliana è breve come l'adolescenza delle fanciulle isolane che non hanno il tempo di posare il velo della Prima Comunione, che già devono confezionare quello da sposa, e appena deposta la bambola, cullano il primo nato.



L'estate è invece un dramma orgiastico splendente come il sangue, ardente come un braciere, affascinante come una piaga.
L'estate è il solstizio decapitato, opunzie sfregiate da cicatrici, l'abbacinante calura che sbianca il cielo, l'odore di strinato sulle groppe fumide, il lezzo delle alghe putrefatte, l'insonnia delle notti nell'ipnosi della luna arancione, il fiato che sa di tuberose.
L'estate piomba sull'Isola come una meteora di fuoco, risuona come un gong fra le rupi azzurre e il mare vermiglio per la carneficina della mattanza ( questa corrida acquatica con la fiocina al posto della picca ).
L'estate ronza di fuchi e di calabroni, tonfa di mortaretti, rulla di tamburi, squilla di campane, odora di ragia, di incenso e di pepe.
Estenuati giungono i siciliani a un autunno elegante, senza nebbie, e con quel poco di acquerugiola appena necessaria per dissetare i giardini arruffati di liane e stellati di gelsomino.
Allora le fanciulle si vestono di panno color tabacco biondo, pergamena, sabbia, tortora e foglia secca, rialzando i toni con qualche vezzo di corallo o con vecchi monili di granata, e ammorbidendo polsi e collarini con strisce di castoro.
Non ce ne sarebbe bisogno, come non ci sarà bisogno della pelliccia d'inverno , ma si desidera appunto il superfluo, e le belle siciliane spiano ogni giorno l'asticciola del termometro, per scoprirvi quel minimo di abbassamento che giustifichi il visone.
In mancanza di meglio si accontentano di guarnizioni di persiano, per veleggiare almeno con la fantasia verso nordici approdi, col cuore trafitto dalle ultime mandolinate.
Ogni tanto capita persino un Natale col cielo coperto, e allora le 'meravigliose' di Palermo e gli 'incredibili' di Catania esultano.
L'incauto 'inghilese' che in quel giorno osasse passeggiare per Taormina in maniche di camicia, verrebbe guardato severamente.



I siciliani coccolano il loro breve inverno con la cura gelosa del del collezionista, e lo sorvegliano come fanno gli allevatori per gli esemplari rarissimi.
Hanno le nevi dell'Etna, è vero, ma si stagliano contro un cielo implacabilmente azzurro e sembra neve dipinta.
Fra dicembre e gennaio, sulle coste che guardano l'Africa, i forestieri fanno il bagno, e i nativi crollano il capo e li gratificano di 'foddi'.
In febbraio, qualcuno svegliandosi all'alba, crede di vedere gli alberi inzuccherati di brina, ma sono i mandorli che incominciano a fiorire.
Le stagioni siciliane sono tuttavia quattro, e soltanto la gente di poca fede può metterlo in dubbio, ma fanno parte della vita segreta dell'Isola, e vanno decifrate in base al calendario delle sagre, alla sapienza spicciola dei proverbi popolari, al volo degli uccelli migratori, all'abbaiamento dei cani e ai telegrammi fosforescenti delle lucciole che tracciano punti e linee nell'oscurità, quando, per dirla con Blaise Cendras, 'le ciel est comme la tente déchirée d'un cirque pauvre, dans lage de pecheurs...'"













martedì 7 novembre 2017

LA BELLEZZA PREALPINA DELLA STRADA PROVINCIALE 286

Fotografia ReportageSicilia

"Si esce da Castelbuono a SE correndo sinuosamente sulle amene pendici a olivi e mandorli che a destra salgono verso le falde boscose del Pizzo della Principessa.
Si varca il torrente Vicaretto sul ponte Paratore, poi il torrente dei Molini sul pittoresco ponte Nocilla.
Quindi si sale a serpentine sulla costa di tramontana del monte Miccio ( metri 1049 ), rivestita di un esteso sughereto; all'indietro vista bellissima della conca di Castelbuono col nastro della strada percorsa; a O, sopra i folti boschi di Cava e Vicaretto, si elevano i dorsi nudi e grigi del Pizzo della Principessa.
Più in alto, usciti dal bosco, si gira sul fianco E del monte Miccio, con di fronte, oltre la profonda valle del fiume Pollina, San Mauro Castelverde su un cocuzzolo.
Il paesaggio diventa prealpino, sino a Geraci Siculo..." 

Così la Guida Rossa della Sicilia edita dal TCI nel 1968 descriveva la strada provinciale 286 che congiunge Castelbuono a Geraci Siculo: un sinuoso ma mai ostile nastro di asfalto fra i più belli delle Madonìe, immerso per lunghi tratti tra fitte sugherete.
La 286 ha oltretutto la particolarità di essere una delle poche strade del comprensorio madonita non interrotta da frane o rallentata dall'asfalto dismesso. 


Immagine tratta da "Madonie, itinerari nel Parco",
Assessorato Regionale Turismo e Cai Sicilia, 2006

Una passeggiata lungo questa via di collegamento offre l'opportunità di scoprire un ambiente naturale quasi intatto, e dove la mano dell'uomo non ha provocato scempi edilizi.
Affascinano semmai la scoperta delle strutture della masseria Pintorna - che nel secolo scorso ospitò una caserma dei carabinieri - e di alcune case cantoniere abbandonate.
La porta di ingresso di una di queste - con la datazione 1886 - rimanda con l'immaginazione ai tempi in cui la strada provinciale 286 collegò luoghi delle Madonìe fino ad allora rimasti remoti ed isolati.



domenica 5 novembre 2017

IL SOLE DI GESSO SULLE BALATE DI COPERTINA

Fotografia di Nino Teresi,
opera citata

Nella fotografia riproposta da ReportageSicilia, le "balate" di una strada o di una piazza isolana diventano la lavagna dove realizzare con i colori a gesso una sorprendente copertina che celebra il nome ed il sole della Sicilia.  
L'immagine, attribuita a Nino Teresi, venne pubblicata nell'aprile del 1956 dalla rivista "Sicilia" curata dall'Assessorato regionale al Turismo e Spettacolo per le Edizioni F.S.Flaccovio di Palermo.
In tempi in cui la grafica era una questione più di estro inventivo che di supporto tecnologico, la copertina colpisce per la semplicità dell'idea e per lo stupore suscitato dal risultato finale: un pò come la bellezza dell'Isola di quegli anni, primitiva e non ancora sfregiata dalla pesante mano dei siciliani.

venerdì 3 novembre 2017

IL CARRETTIERE DI NINO GARAJO


L'ABBANDONO DELLO STORICO PALAZZO DEI CARBONARI DELLA TARGA FLORIO

La fitta cascata di foglie rampicanti
che nascondono il prospetto dell'edificio
che nei primi decenni del Novecento ospitò
la casa di Vincenzo Florio junior
ed il comitato organizzatore della celebre Targa.
Le fotografie sono di ReportageSicilia

"Il Comitato Panormitan per le Feste e le Riunioni aveva sede in via Catania 2, a Palermo, al pianterreno di un grande palazzo che si affacciava sul viale della Libertà.
L'edificio, di proprietà della famiglia Florio, era tra il liberty e il vittoriano.
I suoi balconi erano sempre colmi di fiori.
Il Comitato si riuniva tutti i giorni sino a notte inoltrata.
Nelle sale si discuteva, si prendevano decisioni e si approvavano, tutto nella massima segretezza.
I soci avevano l'aria di ribelli e anticonformisti e a una certa società conservatrice apparivano come adepti di compagini rivoluzionarie sul tipo della Giovane Italia.
Per tale motivo, non si sa da chi, vennero definiti in seguito i 'carbonari della Targa Florio'"




In una pagina del saggio "La leggendaria Targa Florio" ( Giorgio Nada Editore, 1989 ), il giornalista e ricercatore Pino Fondi descrisse le frequentazioni d'inizi Novecento di un palazzo palermitano posto ancor oggi all'angolo fra il viale della Libertà e via Catania.
La storia dell'edificio raccontata da Fondi - da tempo inutilizzato e ricoperto da una fitta cascata di foglie rampicanti - è oggi quasi del tutto dimenticata: dimora già nel 1924 di Vincenzo Florio junior e poi della convivente Lucie Henry - in seguito diventata sua moglie - ospitò per molti anni il comitato organizzatore della Targa Florio.






L'ultimo esponente della famiglia di imprenditori di origini calabresi occupava il piano terreno ed il primo piano del palazzo.
Florio disponeva inoltre di due appartamenti al terzo piano, i locali interni - adibiti a garage - e gli scantinati, utilizzati come cucina ed alloggi per il personale di servizio.
I "carbonari" che frequentavano casa Florio ricordati da Fondi portavano i nomi della vecchia aristocrazia palermitana del tempo, ed erano noti anche per le frequentazioni massoniche.
Nel libro di Pino Fondi si ricordano i personaggi di Tasca Bordonaro, del conte Guido Airoldi ed ancora il conte d'Insello, il marchese Paolo Scaletta, il barone Gianni Stabile, il barone Michele Ciuppa, il marchese Jacona della Motta, il barone Antonio di Raimone, il cavaliere Rodrigo Licata di Baucina, il principe di Petrulla, i principi Gustavo e Michele Vannucci, il marchese De Seta, il barone Cammarata, il barone La Motta, il barone di Gebbiarossa, il cavaliere Fecarotta, il cavaliere Salvatore Bonocore.



Il palazzo di Vincenzo Florio junior fu sede dell'organizzazione della gara madonìta sino al 1933.
Quell'anno, la gestione dell'evento sportivo passò al Real Automobil Club d'Italia
Due anni dopo, Florio e Lucie misero in vendita l'edificio di via Catania, trasferendosi a Santa Flavia nell'abitazione di Renè - figlia di Lucie - e del marito Giuseppe Paladino.
I tempi d'oro delle compagnie di navigazione e dello sfruttamento dello zolfo erano già terminati, e l'esposizione bancaria della famiglia aveva superato la rovinosa soglia dei 50 milioni di lire.
Il destino dell'elegante edificio dei "carbonari della Targa Florio" passò così di mano all'Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano, fondato nel gennaio del 1940.
Di lì a poco il palazzo sarebbe sopravvissuto ai bombardamenti della guerra, avviandosi però al progressivo abbandono del ricordo della sua funzione di sede organizzativa delle prime edizioni della Targa Florio.



Oggi la costruzione è di proprietà dell'Ente di Sviluppo Agricolo della Regione Siciliana, che ne gestisce la semplice manutenzione ordinaria, lasciandola inutilizzata.
Negli anni passati, gli ultimi frequentatori dei saloni in cui Vincenzo Florio alimentò il mito della Targa sono stati gli allievi di alcuni corsi di formazione professionale.
In seguito, il palazzo è stato occupato da decine di studenti universitari e per questo motivo il portone di via Catania è stato munito di nuove e più robuste serrature.
I balconi un tempo adornati di fiori mostrano ora le finestre tristemente sbarrate e le imposte ricoperte da una biancastra crosta di polvere. 
Le balaustre in pietra sono avvolte dalle foglie rampicanti; le candele elettriche poste lungo i corrimano non spargono più la luce che un tempo faceva risaltare la scansione prospettica delle eleganti facciate.



Biografi e studiosi - oltre Pino Fondi, anche Mario Taccari, Orazio Cancila, Simone Candela ed Anna Pomar - hanno in passato ricordato il legame fra la famiglia Florio ed il palazzo posto all'angolo fra il viale della Libertà e via Catania.
Malgrado ciò, nessuno sembra interessato a valorizzare l'edificio, che potrebbe ospitare un museo sull'epopea dei Florio o sulla storia sociale, artistica ed imprenditoriale che fra Ottocento e Novecento caratterizzò le vicende palermitane: una scelta che sarebbe in linea con la considerazione che senza la conoscenza del proprio passato il presente ed il futuro rimangono più incerti.