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lunedì 30 settembre 2024

"IL GATTOPARDO", IL DIFFICILE PROLOGO AL SUCCESSO DEL ROMANZO DI TOMASI DI LAMPEDUSA

Edizioni straniere de "Il Gattopardo".
Fotografia
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Furono ben nove le edizioni del libro pubblicate da Feltrinelli nel febbraio del 1959 dopo l'avvio della prima stampa, risalente al 25 ottobre dell'anno precedente. Agli inizi del 1961, "Il Gattopardo" di Giuseppe Tomasi di Lampedusa - già tradotto in 12 lingue, diventate 19 nel 1963 - era stato diffuso in Italia in 250.000 copie, 100.000 in Francia e 150.000 in Germania. La presentazione della prima copia a Palermo avvenne il 9 dicembre del 1958, all'interno della libreria Flaccovio, dove Tomasi di Lampedusa - morto il 23 luglio dell'anno precedente - era solito acquistare romanzi e saggi in lingua inglese e francese. All'appuntamento letterario presero parte parenti, amici e conoscenti dello scrittore, come raccontato il giorno dopo dalla cronaca del "Giornale di Sicilia":

"Nell'ideale omaggio a Giuseppe Tomasi di Lampedusa - scrisse l'anonimo cronista della "fotonotizia", riproposta nel post da ReportageSicilia - principe e scrittore palermitano, il cui nome oggi corre verso la fama, si sono riuniti, invitati da Fausto Flaccovio, nella libreria ove il Tomasi trascorreva curioso e solitario ore e ore, i familiari e gli amici dell'autore, vivo oggi e nel ricordo e nell'opera sua. Fra gli intervenuti, insieme alla moglie di Giuseppe Tomasi, principessa di Lampedusa, Gioacchino e Mirella Lanza Tomasi, il conte e la contessa D'Asaro, ed amici vecchi e nuovi, convenuti in gran numero ed accomunati nell'omaggio e nell'affetto all'amico non dimenticabile e all'autore di un romanzo fra i più significativi del nostro tempo..."



Molto e da autorevoli critici è stato scritto sulla travagliate vicende che fecero da prologo alla pubblicazione del romanzo. Dettagli interessanti emergono dalla lettura del documentatissimo saggio del medico e ricercatore di Palma di Montechiaro, Andrea Vitello: "I Gattopardi di Donnafugata", pubblicato da S.F. Flaccovio a Palermo nel 1963. Vitello raccolse informazioni di "prima mano" sulla gestazione del libro, interrogando parenti, amici e persone direttamente coinvolte nei tentativi di trovare un editore per la pubblicazione. La sua ricerca ha meglio precisato anche i motivi del famoso rifiuto di Elio Vittorini - interrogato sulla vicenda dallo stesso Vitello - all'inclusione de "Il Gattopardo" nella collana "I Gettoni" di Einaudi:

"Ancora in vita, il Tomasi cercò un editore per il suo romanzo col pudore di un giovane esordiente, chiedendo talvolta consigli in merito. Una delle copie battute a macchina Verso la fine tentò due editori famosi: Einaudi e Mondadori. A entrambi fu inviata anonima, per precisa volontà dell'autore: a Einaudi, da Salvatore Fausto Flaccovio; a Mondadori, da Lucio Piccolo. Verso la fine del 1956 il principe ebbe un colloquio con Flaccovio, al quale, presente il comune amico Ubaldo Mirabelli, redattore del "Giornale di Sicilia", offrì la lettura del romanzo. Successivamente, ancora in compagnia del giornalista Mirabelli, lo scrittore portò il dattiloscritto a Flaccovio, che lesse l'opera e pensò di inviarla a Elio Vittorini con una convinta lettera d'accompagnamento, nella quale si caldeggiava appunto la pubblicazione ne "I Gettoni" di Einaudi. Dopo alcuni mesi, Vittorini, rispondendo a Flaccovio, comunicava che stava riordinando la collana e che pertanto doveva rimandare qualsiasi decisione sulla offerta del romanzo. Anche la copia inviata a Mondadori dal cugino Lucio con una lettera di presentazione fu respinta. In ambedue le circostanze editoriali, a prendere in considerazione il romanzo, fu Elio Vittorini, che presso Mondadori, pur non svolgendo attività di lettore, ha sempre avuto il compito di dirigere e coordinare il lavoro dei vari consulenti, limitandosi, generalmente, ad avanzare suggerimenti editoriali sulla base dei giudizi di merito emessi dai critici che collaborano con la casa editrice. Il "gran rifiuto" di Vittorini è stato oggetto di non poche polemiche e di moltissimi commenti: pochissimi hanno condiviso il suo giudizio, i più ( a successo scontato ) hanno gridato al "crucifige". 



Non è questa la sede per parlarne, né è nostro compito formulare un giudizio. Per quanto ci risulta da fonte autorevole, possiamo affermare che Vittorini, pur suggerendo a Mondadori un certo lavoro di revisione del dattiloscritto da parte del Tomasi, ritenne il romanzo commercialmente valido: ancora oggi, resta da spiegare perché Mondadori non abbia seguito tale suggerimento. Per "I Gettoni", il discorso doveva essere diverso: in questa sede, Vittorini rifiutò il romanzo per non contraddire il discorso culturale che impostava con quella collana; di ciò, scrisse al Tomasi in una lunga lettera con la quale si dava conto dettagliato dell'esame. Una volta inquadrato il giudizio nella particolare prospettiva dalla quale scaturì, Vittorini tuttora non può imporsi d'amare scrittori che si manifestano entro gli schemi tradizionali: stando alle sue convinzioni, avrebbe potuto amare "Il Gattopardo" come opera del passato, oggi scoperta in qualche archivio. Scartata la possibilità di approvare un autore non congeniale, soprattutto sul piano ideologico, a Vittorini rimase la pratica "colpa" di non avere avuto "fiuto" commerciale; questo, in verità, richiede, tra l'altro, virtù che confinano con l'arte divinatoria: e chi può predire il successo di un'opera?..."



Giuseppe Tomasi di Lampedusa ricevette l'ultimo rifiuto editoriale cinque giorni prima di morire, dopo una cura palliativa nella "Clinica Sanatrix" di Roma. Otto mesi dopo la sua scomparsa, la critica letteraria Elena Craveri-Croce, figlia di Benedetto, tramite l'ingegnere Giargia ricevette il manoscritto del romanzo dalla vedova dello scrittore, la baronessa Alessandra Wolff-Stomersee. Lo scritto, spedito anche questa volta in forma anonima,  venne sottoposto dalla figlia del filosofo alla lettura di Giorgio Bassani. Arrivò così il via libera alla pubblicazione, che - in considerazione anche della suggestione creata alla morte di Tomasi di Lampedusa - ottenne uno straordinario successo di pubblico. Nel marzo del 1959, la "Titanus" ottenne i diritti cinematografici. Nell'agosto dello stesso, "Il Gattopardo" si affermo' con 135 voti al "Premio Strega", presieduto quell'anno dal giornalista Luigi Barzini jr., che era solito frequentare Palermo e lo stesso editore Flaccovio.  Il riconoscimento venne consegnato all'editore Giangiacomo Feltrinelli, già reduce dal successo editoriale de "Il dottore Zivago" di Pasternak, anch'esso diventato allora un grande classico della cinematografia mondiale. 





 

sabato 21 settembre 2024

IL FALLIMENTO DELL'INDUSTRIA DEL COTONE NEL SECONDO DOPOGUERRA

Operaia al lavoro
in un cotonificio siciliano
alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso.
Le fotografie del post sono tratte
dalla rivista "Documenti di vita siciliana",
opera citata nel post


"In Sicilia, nella quasi generalità dei casi, la raccolta del cotone viene fatta alla carlona: non solo, ma poiché solitamente la raccolta si svolge in tre riprese, i nostri cotonicoltori mescolano le varie produzioni riunendo a quella ottima della prima raccolta ( chiamata "primo fiore" ) la fibra di scarto delle ultime raccolte, sicché tutta la massa finisce con l'essere deprezzata... Pur se le condizioni climatiche e pedologiche sono, in generale, favorevoli ad un economico sviluppo della cotonicoltura siciliana, possiamo affermare senza tema di smentita che la ragione prima per la quale i filatori italiani non ricercano, deprezzano e spesso rifiutano la nostra produzione, dipende principalmente dalla cattiva raccolta ( fibra sporca, non omogenea, immatura, umida ) . La produzione siciliana ancora non presenta quelle condizioni merceologiche richieste dagli industriali cotonieri, dato che, oltre a presentarsi sporca, la nostra produzione è un prodotto ibridato di una popolazione di stirpi di molte "coltivar" diverse, con fibre morte o immature, perché male raccolta, male sgranata, difformemente imballata e difficilmente classificabile e commerciabile... Da quanto si è detto non si deve dedurre che la crisi della cotonicoltura siciliana sia da attribuire a colpa diretta ed esclusiva dei nostro cotonicoltori: sarebbe ingeneroso oltre che immeritato. Però si deve senz'altro ritenere che una più oculata coltivazione del cotone, condotta abbandonando metodi vecchi di secoli che non hanno più ragione di esistere in un'epoca in cui la concorrenza regna sovrana, pur se non avesse potuto scongiurare la crisi, l'avrebbe resa sicuramente meno pesante e meno drammatica..."






Così il giornalista Tonino Zito riassunse in un reportage pubblicato nell'aprile del 1961 dal periodico della Presidenza della Regione "Documenti di vita siciliana" i limiti strutturali nella produzione del cotone nell'Isola. All'epoca, la superficie della Sicilia destinata alla coltivazione - soprattutto nel nisseno e nell'agrigentino - era stimata in circa 40.000 ettari, contro i circa 88.000 degli anni successivi al periodo 1861-1865, allorché la guerra di Secessione americana bloccò le produzioni in quelle zone cotoniere. Durante i primi cinque decenni del Novecento, non erano mancati i tentativi di regolamentare con criteri scientifici la coltivazione della pianta in Sicilia. Il professore Francesco Bruno, direttore dell'Orto Botanico di Palermo, aveva introdotto l'Acala, una delle varietà di cotone più adatte all'ambiente dell'Isola. Furono poi diffuse nuove coltivar più precoci e produttive, la Stoneville e la Texas. Nel secondo dopoguerra, un gruppo industriale di Novara nel tentativo di supportare la produzione siciliana distribuì migliaia di quintali di semente americana di origine controllata. Si trattò però di tentativi isolati di miglioramento delle tecniche colturali, frutto di singole iniziative e non dell'opera delle Stazioni Sperimentali del Cotone - mai avviate - la cui istituzione era stata prospettata nel febbraio del 1949, quando si costituì l'Ente Fibre Tessili Siciliane. Grazie ad accurate sperimentazioni, questi laboratori avrebbero dovuto avere il compito di selezionare le varietà più adatte ai terreni ed alla clima della regione.   La certosina analisi documentaria compiuta da Zito evidenziò l'improvvisazione di gestione di un comparto agricolo potenzialmente d'eccellenza, che pure assegnava in quegli anni alla Sicilia il 90 per cento della produzione nazionale ed il 7 per cento del bisogno della filatura italiana. 



L'arretratezza dei metodi di coltivazione del cotone - che necessita di accurate arature su terreni soffici, di buona filtrabilità e igroscopicità -  venne così all'epoca illustrata dal giornalista:

"Una volta messi a dimora i semi del cotone, bisogna procedere alla "compressione" del terreno. In Sicilia si fa ricorso ad una pratica plurisecolare, forse introdotta dagli arabi: si adopera un attrezzo ( a Gela lo chiamano "tavolone" ) lungo un paio di metri e sufficientemente largo, il quale viene trainato ordinatamente da muli. Passando e ripassando sul terreno seminato da poco, lo comprime facendo risalire per capillarità l'umidità sottostante. Queste modalità di semina debbono essere necessariamente eseguite, poiché la semina costituisce un'operazione delicatissima: infatti la stentata o mancata germinazione costituisce la maggiore alea che corrono i cotonicoltori ed è la principale causa del mancato estendimento della coltivazione del cotone. A questo punto, quando le piante saranno spuntate, si dovrà procedere al diradamento per sollecitare attorno alle piante la produzione del maggior numero di capsule per ettaro. E il lavoro non è ancora terminato nella cotoniera, poiché si dovrà poi procedere alla così detta cimatura che serve, come la potatura della vite, a concentrare la linfa verso le branche produttive onde aumentare la grossezza ed il numero delle capsule. Tutti questi lavori, ripetiamo, fanno crescere ulteriormente il costo della coltivazione, perché qui in Sicilia si sconosce l'uso della meccanizzazione lungo l'arco dell'intero processo produttivo..."


Da qualche anno, la Sicilia ha riavviato la produzione di cotone con criteri più moderni, grazie ad iniziative private che promettono di sfruttare le energie rinnovabili e di estendere le coltivazioni a 1.000 ettari: una seconda possibilità per sfruttare in futuro una delle risorse agricole siciliane in passato poco e male valorizzate.


     

venerdì 13 settembre 2024

COLTA E GAGLIOFFA, L'ANIMA DOPPIA DI PALERMO RACCONTATA DA ANTONIO CALABRO'

Cocchiere palermitano
nei pressi di Porta Nuova.
Fotografia
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


"La storia recente di Palermo, insomma, - ha scritto Antonio Calabrò in "Aziz l'ambigua", uno dei capitoli del saggio "Palermo. Passeggiate d'autore ( Bruno Leopardi Editore, Palermo2001 ), capitolo ricco di osservazioni che rispecchiano ancor oggi la realtà palermitana - è storia di distorsioni, di modernità dimezzata, di sprechi, di occasioni perdute. Che hanno acuito una pesante contraddizione, ancor oggi apertissima: tra la città colta ( le settimane di "nuova musica" negli anni Sessanta, gli spettacoli del Living Theatre e del miglior teatro d'avanguardia d'impronta europea, i cineclub, il jazz internazionale del Brass Group, le case editrici alla Sellerio, i circoli, le buone librerie ) e la città gaglioffa, tra una borghesia minoritaria e sofisticatamente internazionale e una piccola borghesia maggioritaria che, del Sud, coltiva i vizi peggiori. E adesso? Adesso si va ancora avanti così. Città doppia, insomma. Ambigua. Difficile. E pur incerta tra la magnificenza popolare delle Feste religiose per la patrona Santa Rosalia e il laicissimo interrogarsi dei suoi giovani romanzieri, dei suoi uomini di cultura, dei suoi compositori di musica contemporanea, dei suoi spregiudicati ironici registi su quale debba essere il destino d'una città che si è sempre pretesa "europea" e non vuole subire il degrado d'una marginalità economica e geografica..." 

giovedì 12 settembre 2024

PANTELLERIA, L'ISOLA CHE CONSERVA I SEGNI DELLA SUA STORIA ISLAMICA

Due fotografie scattate a Pantelleria
e pubblicate nel settembre del 1973
dalla rivista "Mediterraneo"
edita dalla Camera di Commercio di Palermo 


Pantelleria non vanta né una chiesa né i resti di un edificio che testimonino l'influenza islamica in Sicilia nella nobile architettura di epoca normanna, visibile con chiarezza a Palermo, Monreale, Cefalù - e, per rimanere nella provincia trapanese - a Mazara del Vallo e Castelvetrano. Eppure, Pantelleria è l'unica terra italiana e d'Europa in cui toponomastica delle contrade ed edilizia rurale conservano un'impronta marcatamente maghrebina: l'eredità di una pacifica colonizzazione dalla Tunisia che segnò la storia dell'isola secoli dopo la sua bellicosa invasione araba, risalente al 700 dietro Cristo

"... Si può dire - ha scritto Gin Racheli in "Le isole minori della Sicilia" ( Giuseppe Maimone Editore, Catania, 1989 ) - che tutte le Isole siciliane fossero deserte oppure abitate da pochi disperati e che pertanto ai secoli dal IX all'XI, quando arrivarono i Normanni, debba collocarsi la fine del periodo romano-cristiano delle isole minori e la scomparsa delle etnie isolane; d'ora innanzi esse si ritroveranno completamente senza una continuità storica con le precedenti. Agli Arabi interessavano in modo particolare le isole occidentali per la loro posizione ideale sulla rotta di casa: perciò su di esse, più che sulle settentrionali, essi concentrarono una cura assidua allorché, dopo la conquista spietata, iniziarono lo sfruttamento economico dell'area siciliana. Nulla sappiamo di Lampedusa e Linosa, mentre appare certo che i Musulmani diedero un notevolissimo impulso all'agricoltura in Pantelleria a partire dal IX secolo, e che per quest'epoca deve risalire l'inizio della costruzione dei "dammusi" e della straordinaria trama dei muri a secco. 



Nei "dammusi" il modulo architettonico è esclusivamente arabo e ciò perché l'Isola fu ripopolata da coloni tunisini; se ne ha la conferma anche nella toponomastica rimasta inalterata da allora ad oggi, con le denominazioni in lingua araba. Tra le coltivazioni, i nuovi coloni importarono quella del cotone e degli agrumi che erano sconosciuti in Europa prima della dominazione musulmana, mentre mantennero la viticoltura perfezionandola e ottenendo lo squisito "zibibbo": erano maestri nelle tecniche dell'irrigazione..." 

domenica 8 settembre 2024

SUGGESTIONI E STORIE DI CRUDELTA' NELLE GROTTE DI MARETTIMO

La grotta del Cammello,
a Marettimo.
La fotografia venne pubblicata nel 1961
in "Visioni della provincia di Trapani"
( Istituto Geografico De Agostini di Novara )


"Affermano i nativi che a un forestiero basti visitare la grotta del Presepe e quella ancora più vasta della Bombarda per capire la bellezza della loro isola"

Così Flavio Colutta in un suo reportage sulle isole Egadi pubblicato nel febbraio dalla rivista del Touring Club Italiano "Le Vie d'Italia" nel febbraio del 1955 fece riferimento all'attrattiva delle grotte marine che punteggiano la costa di MarettimoDue anni prima, un'altra pubblicazione del Touring Club Italiano - la Guida Rossa intitolata "Sicilia" - consigliava il giro in barca dell'isola e la visita di alcune di queste cavità carsiche:

"Risalendo verso Nord lungo la costa, si passa presso lo scoglio del Cammello e la grotta omonima... Girando verso Sud si visita la bellissima grotta del Presepe, entrandovi in barca, con rocce e concrezioni stalagmitiche molto interessanti. Più a Sud ancora la grotta della Bombarda, ancor più vasta e con acque più profonde..."

La più affascinante fra tutte le grotte di Marettimo - ma anche quella che richiede un'adeguata e collaudata esperienza subacquea - è la "Cattedrale", nei pressi di punta Martino: si trova ad una profondità di 27 metri e si sviluppa per un centinaio di metri. Il suo nome - si legge nel volume "Isole Egadi - Aria Marina Protetta" edito nel 2014 dal Dipartimento di Scienze della Terra e del Mare dell'Università degli Studi di Palermo - si deve alla presenza "di numerosi speleotemi, che includono le stalattiti sulla volta o le stalagmiti sul pavimento spesso unite fra loro a formare una sorta di colonnato che sembra sorreggerne la volta..." 



In un opuscolo intitolato "Una perla in fondo al mare, sintesi storica-politica-sociale dell'isola di Marettimo" - libretto pubblicato nel 1928 da Pietrino Eduardo Duran, si legge invece dell'uccisione di una foca monaca avvenuta il primo luglio del 1901 all'interno della grotta del Cammello. La soppressione del mammifero - animale che una ventina di anni fa ha fatto ritorno a Marettimo, frequentando la stessa grotta - fu una impietosa esecuzione messa a segno con fucili da caccia. Sembra che la sfortunata foca monaca, dal peso di tre quintali e mezzo, sia stata in seguito trascinata da una barca con una fune sino al porto. Gli autori della sciagurata impresa ne conciarono la pelle, poi utilizzata per rivestire "un salottino"; la carcassa del povero mammifero - a lungo ritenuto estinto nelle Egadi grazie a questo tipo di trattamento riservatogli in passato dagli uomini - venne invece ributtata in mare. 




mercoledì 4 settembre 2024

PAPIRI SUL FIUME CIANE DI ANTONELLO TROMBADORI






 

LA VUCCIRIA SCOMPARSA IN UN RACCONTO DI DOMENICO REA

Mercato della Vucciria, a Palermo.
Le due fotografie, accreditate a Nino Teresi
e Lucio Tezza, vennero pubblicate
dalla rivista "Sicilia" nel giugno del 1979


"Io sono del parere che per capire Palermo, la sua storia, il carattere della sua gente, è necessario fare una passeggiata per le strade della Vucciria. Ogni altro monumento, moresco o spagnolo, impallidisce al confronto. Il Mercato dei Vergini di Napoli, tutto sommato, resta un piccolo, tipico, piccolo, pittoresco mercato, legato alla "napoletanità". La Vucciria, invece, è uno dei grandi mercati del Mediterraneo. Il primo si trova a Barcellona, il secondo è la Vucciria di Palermo, il terzo è il Bazar della vecchia Costantinopoli..."

Così, nel marzo del 1957, lo scrittore e giornalista napoletano Domenico Rea poteva ancora raccontare sulle pagine del "Corriere d'informazione" ambiente e personaggi di un mercato nel frattempo diventato solo uno specchietto delle allodole per i turisti che credono ancora di trovarvi l'anima di Palermo. Da molti anni, la Vucciria ed i suoi pochi venditori ambulanti - persa la loro funzione mercantile a favore di una clientela cittadina vasta ed eterogenea - recitano la parte di se stessi, pronti soprattutto ad accogliere un affollamento notturno fatto di schiamazzi e risse alcoliche. Rea visitò la Vucciria quando il mercato stava vivendo gli ultimi anni di vitalità; un declino determinato nel secondo dopoguerra - ha scritto Rosario La Duca il 26 giugno del 1988 sulle pagine del "Giornale di Sicilia" - "dallo spopolamento del quartiere Castellammare, dovuto soprattutto al suo mancato risanamento edilizio... dalla lunga chiusura degli uffici comunali della via Roma ed anche dalla rara apertura della contigua chiesa parrocchiale di Sant'Antonio Abate... Così la disaffezione dei vecchi clienti, il venir meno di molte altre fiorenti attività commerciali di un tempo, la riduzione degli orari di vendita, la chiusura nel pomeriggio, soprattutto delle rivendite di pesce, lo hanno fatto via via declinare..."

In quella Vucciria da lui accostata al mercato di Barcellona ed al bazar di Costantinopoli, Domenico Rea potè ancora trovare un'ambientazione simile a quella di una "una paranza a mare, nella furia sanguinolenta di una mattanza, illuminata dalle stesse lampade fluorescenti che portano le lampare a prua" .



In questo scenario, ecco il friggitore di polpi, buttati "nella padella ribollente d'olio sotto i vostri occhi e quando sono diventati corruschi e croccanti li ritira e li depone sopra un banchetto"; e i pescivendoli, che espongono "dalle alici alle sarde grosse come cefalotti, dagli scorfani alle aguglie, dal pesce luna ad un mastodontico tonno, dalle murene ai polpi piccolissimi o grandi come piovre, dai calamari alle ostriche, fino ai figli dei tonni - i tonnarelli - lunghi un mezzo metro, lucidi e sodi, con le code arcuate e taglienti che, con loro colore di piombo lucidato, fanno pensare ad apparecchi aerei supersonici..."

In molti angoli della Vucciria, Domenico Rea si imbatte nei venditori di olive, "dalle olive curate senza sale alle olive sott'olio o infornate o schiacciate o secche, sempre grandi come noci e morbide come prugne, esposte a forma di cataste piramidali piene di erbette aromatiche"; alcune di queste sono vendute da "giovani contadini dalle facce oleose, seduti dietro un banchetto che sembrano pastori dell'Asia..."

In quella Vucciria di quasi settant'anni fa scomparsa per sempre, Rea perse ogni nozione materiale del tempo. La vita gli sembrò come un'eterna vigilia mangereccia di Natale o di Pasqua, al punto da fargli scrivere:

"Si dice che i siciliani che hanno amici o parenti inappetenti li conducano a fare un giro per la Vucciria, certi che alla fine l'inappetenza guarisce. E' una diceria, ma assai verosimile: perché ove non potesse la roba esposta vi riuscirebbero i venditori, l'ambiente, l'illuminazione, l'odore, l'esempio altrui, l'oblio dei propri guai e di se stesso..."