| Le fotografie sono attribuite a "Soprintendenza alle Antichità di Siracusa", opera citata nel post |
"Mentre andavamo via lesti perché la nostra compagnia ci chiamava per ripartire, fermammo un donna che andava alla fonte con l'orcio in equilibrio sulla testa, e le domandammo se consentisse a posare per una fotografia. Si volse: "Si, a patto che me ne mandiate una copia. La voglio spedire a mio figlio che si trova in America". Ci disse il suo nome e osservò come io lo appuntavo rapidamente su un pezzo di carta. Mentre rispondeva senza deporre l'orcio, ci accorgemmo come era: scalza, le gambe scoperte fino al polpaccio muscoloso, con quella idea d'infanzia perenne delle donne scalze dell'Italia meridionale, di donne non abbastanza adulte, per via appunto dei piedi scalzi, fino a che lo sguardo non scopre il viso e colloca questo viso in un tipo di donna, lo immagina in città, e questa popolana scalza prende l'aria di una passante vestita alla moda, d'una nostra amica, di una signora che siamo abituati a riverire...
In quell'istante, mentre il mio compagno di viaggio scattava la fotografia, avevo modo di osservare quella donna. Poteva avere quarant'anni; occorreva un occhio esercitato per attribuirle non più di questa età; il naso dolcemente arcuato, gli occhi distanti sotto la fronte dritta, e in essi l'espressione con cui una donna del popolo guarda un uomo che è il forte e insieme il ragazzo, il rivale e il violento e insieme il protetto. Ella si preparò alla posa assicurandosi con una mano l'orcio sulla testa, mentre passava l'altra mano per ravviare i capelli della bambina che la seguiva e cui facemmo attenzione per quel suo gesto. Unica civetteria, si passò la lingua sulle labbra per inumidirle e posò con sicura semplicità, una mano nella mano della bimba, l'altra all'orcio perché sapeva che quello ero lo scopo della sua fotografia, il suo povero orcio. Mi parve di pensare i suoi stessi pensieri in quell'attimo: il figlio in America, il momento in cui egli avrebbe riveduto la sua immagine; e un pensiero che in lei non era di certo, ma che si sarebbe certo affacciato alla mente del figlio lontano, di un mondo abbandonato per sempre, dolente e nostalgico e tuttavia col proposito di non tornarvi mai più; una madre scalza e con l'orcio dell'acqua sulla testa, nella sua povera realtà, con la sua presenza onoranda e insieme di donna mai abbastanza cresciuta, in una fatica che diventa l'immagine di un trastullo... Non ci voltammo a guardare la donna che riprendeva la strada verso la fonte, là dove le more di gelso ornavano il viottolo. S'era cercato di mangiarne qualcuna e, come un sogno dileguato di ragazzo, esse non avevano più sapore, ma ancora tingevano di rosso la mano..."
Così Corrado Alvaro rievocò nel luglio del 1953 sul "Corriere della Sera" un incontro con una donna a Tindari - "in uno dei luoghi più belli di fronte le Eolie" - e la storia di una delle tante fotografie che hanno in passato ritratto le donne di Tindari durante il trasporto degli orci per la raccolta dell'acqua. ReportageSicilia ne ripropone una ( ritrae forse la stessa donna? ) pubblicata nel dicembre del 1951 dalla rivista del Touring Club Italiano "Le Vie d'Italia". Insieme ad altre, l'immagine illustrò un articolo intitolato "Tindari, città sepolta della Sicilia" firmato da Nino Lamboglia, archeologo ligure che all'epoca qui guidò gli scavi della Soprintendenza della Sicilia Orientale.
Nel suo racconto, ricco di notazioni storiche e di notizie sull'attività di studio e ricerca svolta in quei mesi - "ci siamo posti in capo, con l'amico Bernabò Brea, di affermare da un capo all'altro dell'Italia, da Ventimiglia a Tindari, il principio dello scavo stratigrafico, che dalla preistoria deve ormai passare all'archeologia, come avviene da tempo in altri paesi; e ci riusciremo..." - Nino Lamboglia non mancò di sottolineare la bellezza paesaggistica di Tindari, allora appena sfregiata dalla mano insipiente dell'uomo:
"Il luogo è panoramicamente quanto di più suggestivo si possa immaginare, e nulla - salvo un edificio scolastico color fragola, un altarino all'aperto in piastrelle gialle, e l'orribile merlatura del santuario foggiato a caserma - è ancor venuto a turbare l'arcaismo dell'ambiente: le umili casette di impronta arabo-sicula, abbarbicate sui resti più alti della città antica, svelano d'improvviso al visitatore il nome e il colore della "via Cicerone", dedicata all'avvocato dei Tindaritani contro Verre lo spogliatore; e i fichi d'india regnano sovrani, e pungentissimi, a difendere a un tempo la proprietà e i diritti della natura..."
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