I monumenti e l’arte che li hanno generati raccontano la storia di una città.
A Palermo, ad esempio, le strutture esterne della Cattedrale lasciano chiaramente intendere i lasciti della cultura islamica, vecchi ormai di un millennio.
Può anche capitare però che i palermitani – con i loro modi di dire – diano testimonianza di vicende storiche locali sepolte ormai da secoli.
Una di queste espressioni è senz’altro “mi sento preso dai turchi”.
Il significato di questa frase può essere interpretato in “mi sento spaesato” o “non capisco più nulla” oppure “non riesco ad intuire cosa mi stia accadendo”. Chi afferma di sentirsi preso dai turchi, insomma, soffre una situazione di difficoltà e di pericolo.
Così, ad esempio, l’autore di questo blog fu apostrofato a Palermo come “u turcu che gira qui vicino” da un’impaurita ragazzina dell’ Albergheria; stavo semplicemente passeggiando con la mia macchina fotografica tra i vicoli del quartiere, e la bambina, notandomi come un estraneo, esprimeva il timore che potessi farle qualcosa di male.
Così, ad esempio, l’autore di questo blog fu apostrofato a Palermo come “u turcu che gira qui vicino” da un’impaurita ragazzina dell’ Albergheria; stavo semplicemente passeggiando con la mia macchina fotografica tra i vicoli del quartiere, e la bambina, notandomi come un estraneo, esprimeva il timore che potessi farle qualcosa di male.
Il significato storico del disagio provocato dai turchi è da riferire all’epoca in cui – a partire dal XV secolo - – Palermo e la Sicilia erano meta delle razzie di beni e persone da parte dei barbareschi.
Si trattava dei pirati provenienti dai porti di Algeri, Tripoli e Tunisi, tutti genericamente definiti da autorità e popolo di allora come “turchi”.
I nomi più famosi di questi predoni sono quelli di Ariadeno Barbarossa, Sinan Pascià, Ulucciali, e Dragutte; a loro – ed altri decine di altri anonimi barbareschi – si deve il ricordo delle incursioni che, fra il 1539 ed il 1583, seminarono panico e distruzione a Patti, Lipari, Augusta, Licata e Pantelleria.
I nomi più famosi di questi predoni sono quelli di Ariadeno Barbarossa, Sinan Pascià, Ulucciali, e Dragutte; a loro – ed altri decine di altri anonimi barbareschi – si deve il ricordo delle incursioni che, fra il 1539 ed il 1583, seminarono panico e distruzione a Patti, Lipari, Augusta, Licata e Pantelleria.
Le razzie dei “turchi” colpirono anche ricchi ed illustri viaggiatori al largo delle coste siciliane.
Salvatore Mazzarella e Renato Zanca, nel saggio “Il libro delle torri” edito da Sellerio nel 1985, ricordano due casi.
“Diego Fernandez, figliolo bastardo del vicerè Villena, - scrivono - sarà catturato da fuste barbaresche mentre viaggia sul vascello “Bellina” carico di denaro e preziosi; il principe di Paternò, Giovan Luigi Moncada, non terminerà il viaggio fra Palermo e Napoli, essendo catturato presso Ustica da corsari tunisini”.
“Diego Fernandez, figliolo bastardo del vicerè Villena, - scrivono - sarà catturato da fuste barbaresche mentre viaggia sul vascello “Bellina” carico di denaro e preziosi; il principe di Paternò, Giovan Luigi Moncada, non terminerà il viaggio fra Palermo e Napoli, essendo catturato presso Ustica da corsari tunisini”.
Le incursioni dei pirati andarono avanti sino alla fine del secolo XVIII, e terminarono dopo il 1830, quando la Francia conquistò Algeri.
Tuttavia, l’ultimo e forse unico sbarco di autentici turchi in Sicilia risale a cento anni fa: a Palermo, il 22 maggio del 1912.
Tuttavia, l’ultimo e forse unico sbarco di autentici turchi in Sicilia risale a cento anni fa: a Palermo, il 22 maggio del 1912.
La vicenda nulla ebbe allora a che fare con le scorribande dei secoli precedenti; anzi, quei 915 turchi approdati all’interno del porto ebbero la sventura di mettere piede nell’isola in condizioni da prigionieri di guerra.
Le due navi da cui sbarcarono quei soldati – il vapore “Sannio” e l’incrociatore della Regia Marina “Duca di Genova” – erano partite tre giorni prima dal porto di Rodi. Fra il 16 ed il 17 maggio, quel migliaio tra gendarmi, fanti ed artiglieri turchi avevano perso sul campo nel villaggio di Psithos una battaglia che segnò le sorti della guerra italo-turca per il possesso di Tripolitania e Cirenaica.
Tra la curiosità dei palermitani accorsi sul lungomare del Foro Italico, quei soldati vestiti con divise kaki e con i fez in testa furono inquadrati in file per quattro verso il lungomare: fra di loro si contavano anziani riservisti e giovanissime leve, alcuni civili ed anche un “ulema”. Scortati dai soldati italiani del 34° Fanteria agli ordini del capitano Saracco e dei tenenti Gazzera e Fabris, i 915 turchi vennero avviati verso la Stazione Centrale e quella di Romagnolo.
Da qui, furono smistati verso campi di prigionia allestiti a Cefalù – dove furono trasferiti 444 uomini di fanteria, due capitani, due tenenti, i civili e l’”ulema” – ed ancora Termini Imerese, Sciacca e Corleone: tutti luoghi – ad eccezione di Corleone – dove nei secoli precedenti le vele dei “turchi” avevano preannunciato imminenti razzie di cose e persone.
La prigionia siciliana degli sconfitti di Psithos si concluse nell’ottobre dello scorso anno, dopo la vittoria italiana del conflitto.
Non è noto se qualcuno fra quei 915 militari ottomani abbia trovato motivi e permessi per rimanere dopo quella data nell’isola.
Di certo, il loro sbarco a Palermo si identifica come l’unico approdo di massa realmente compiuti da soldati turchi in Sicilia, e per uno status da prigionieri: una circostanza che rende ancora più ingiusta nei loro stessi confronti l’espressione “mi sento preso dai turchi”.
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