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lunedì 18 novembre 2013

CARMELO, QUELLO SCATTO CHE RACCONTA PLACIDO

Carmelo Rizzotto mostra al fotografo francese
André Martin una fotografia del figlio Placido,
vittima di mafia a Corleone nel 1948.
L'immagine venne pubblicata nel 1960
nel libro-inchiesta di Danilo Dolci "Spreco",
edito da Einaudi

La più nota è quella che ritrae Giovanni Falcone e Paolo Borsellino seduti l'uno accanto all'altro ad un tavolo, sorridenti, alla presentazione della candidatura in politica dell'amico e collega Giuseppe Ayala, nel marzo del 1992: il fotografo palermitano Tony Gentile - oggi in servizio alla Reuters - non poteva allora immaginare che quella foto sarebbe diventata un'immagine simbolo dell'impegno antimafia http://www.linkiesta.it/giovanni-falcone-paolo-borsellino-mafia-tony-gentile.
Altrettanto conosciuta è poi quella di Felicia Bartolotta che mostra all'obiettivo del fotografo un grande ritratto del figlio Peppino Impastato, dilaniato anche lui dall'esplosivo mafioso nel maggio del 1978 http://www.cittanuove-corleone.it/La%20Sicilia,%20Felicia%20Impastato%20madre%20coraggio%2002.12.2012.pdf.
Quello meno conosciuto e per questo riproposto nel post da ReportageSicilia è invece uno dei primi scatti capaci di raccontare in una sola immagine la violenza della mafia.
Vestito in giacca e cravatta, lo sguardo impietrito e chiuso nel dolore per un omicidio senza giustizia, Carmelo Rizzotto mostra al fotografo un'immagine del figlio Placido.
Il delitto ebbe luogo a Corleone la notte del 10 marzo 1948, quando il segretario della locale Camera del Lavoro della CGIL venne torturato ed ucciso; il corpo fu quindi gettato in una profonda fenditura rocciosa, in località Casale.
Carmelo Rizzotto indicò subito ai Carabinieri i nomi degli autori dell'omicidio: Luciano Liggio, Pasquale Criscione e Vincenzo Collura. 
Nel dicembre del 1952, il padre del sindacalista confermò quindi le sue accuse nel processo che ebbe luogo presso la Corte d'Assise di Palermo; gli assassini di Placido Rizzotto furono però assolti per insufficienza di prove. 
Nel 1962 la Cassazione negò alla famiglia la restituzione dei pochi resti recuperati nella foiba - parte della calotta cranica, una tibia ed un perone - non riconoscendoli con certezza come appartenenti al sindacalista.
Carmelo Rizzotto morì nel 1969, senza avere ottenuto né giustizia per il delitto né il conforto di una sepoltura del figlio.   
Trentuno anni dopo - nel marzo del 2010 - la comparazione del suo DNA con quello di altri resti umani recuperati nel 2008 nella fenditura avrebbe finalmente restituito alla famiglia ciò che rimaneva del corpo di Placido.

Il paese di Corleone in una fotografia
realizzata negli anni
di maggiore violenza omicida,
fra il secondo dopoguerra ed il 1963.
Lo scatto - attribuito ad "Agenzia
Fotografica Scafidi" - venne pubblicato
nel saggio "Quelli della lupara",
scritto da Rosario Poma ed Enzo Perrone
ed edito nel 1964 da Edizioni Casini


Lo scatto di Carmelo Rizzotto con il mano la fotografia di Placido è del fotografo francese André Martin, ed è pubblicata nel volume di Danilo Dolci "Spreco, documenti e inchieste su alcuni aspetti dello spreco nella Sicilia occidentale", edito da Einaudi nel 1960.
Nel libro-inchiesta, Dolci raccolse un lungo racconto di Carmelo Rizzotto sulla morte del figlio e sul clima di oppressione mafiosa vissuto a Corleone; ReportageSicilia ne ripropone due brevi stralci.

"...Si faceva rispettare da tutti, era benvoluto da tutti.
Solo da quelle canaglie che si erano arricchite con la guerra non era benvoluto, non ci piaceva l'andamento che aveva lui, perché era popolano. 
E per ragione di persone che volevano tenere cariche nel comune e fare l'onorevole alla regione, e siccome lui conosceva che tipo erano, gente dell'alta mafia, che conferivano anche con la questura e con la magistratura, e siccome si erano arricchiti con la guerra, e allora comincio a svolgere quest'affare di sindacalista a favore del popolo...".
"...Il primo a confessare ci disse che ce l'aveva detto un suo compare. Poi hanno confessato Criscione e Collura che i carabinieri li avevano acciuffati e loro ci hanno indicato il punto dove l'avevano portato. Loro dicono che lo dissero sotto le bastonate, ma quando arrivarono dove avevano detto loro, che era una fossa di circa sessanta metri, si calarono prima i carabinieri ma questi non pottero riuscire. 
I suoi compagni Siracusa e Lo Monaco si sono offerti a scendere volontari, ma le autorità non vollero rilasciare il permesso. Provarono i vigili del fuoco e un certo Partinico e Foresta, coi mezzi che avevano loro, arrivarono in fondo e hanno tirato cinque scarpe e misero in un sacco scarpe, testa, un pezzo di cappotto, elastici, una cannella di polso di gamba. Così infatti fu riconosciuto le scarpe, gli elastici, da me e da mio figlio, e non una volta, due volte, scarpe americane che aveva comprato a Palermo, e il pezzo di cappotto verdastro. 
La mezza testa che non era nel fango verminoso, la mezza testa di sopra aveva proprio i suoi capelli, i suoi capelli castani. Dopo ventuno mesi anche il cappotto verdastro si riconosceva, un cappotto nuovo che se l'era fatto qui a Corleone da un anno, paltò ci dicemo noialtri.
Il delitto esiste, i rei sono confessi ma le prove sono insufficienti, perchè dissero che le prove sono valide quando sono fatte spontaneamente...". 

            

   


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